“I lavoratori non sono carne da macello” – Dopo l’assemblea del 30 marzo, continua la lotta per il blocco

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“I lavoratori non sono carne da macello” – Dopo l’assemblea del 30 marzo, continua la lotta per il blocco

Dall’inizio dell’emergenza sanitaria si sono succeduti i decreti del governo Conte che, uno dietro l’altro, hanno aumentato le restrizioni. Ai decreti si sono unite le ordinanze delle diverse regioni. Si è sviluppata una campagna che ha promosso il distanziamento sociale, inviti a restare a casa, hashtag e appelli.

Ma tutto questo zelo non ha riguardato milioni di lavoratori costretti a continuare a lavorare anche in aziende e servizi non essenziali.

Mentre tutti si aspettavano una chiusura generalizzata, a metà marzo milioni di lavoratori hanno preso coscienza che per Confindustria e il governo la loro salute e quella delle loro famiglie non era una priorità. È questa consapevolezza che ha creato una forte ondata di scioperi che hanno costretto il governo al decreto del 22-25 marzo con la chiusura di una parte delle attività.

Tuttavia il decreto è stato volutamente scritto per essere un colabrodo. In particolare la norma che permette alle aziende di aprire previa autocertificazione alle prefetture ha fatto sì che già al 6 aprile quasi 80mila aziende stessero aggirando la norma.

La clausola del silenzio-assenso (se il prefetto non risponde la richiesta si intende accettata) e la mancanza di sanzioni per gli abusi ha dato il via libera ai padroni.

La mobilitazione quindi continua e il problema si torna a porre in modo pressante con il tentativo del governo e dei padroni di riaprire le produzioni ben prima che il rischio sanitario sia sceso a livelli gestibili.

 

L’appello di delegati e lavoratori e l’assemblea del 30 marzo

Abbiamo fin da subito considerato decisiva la lotta per un serio blocco delle attività non essenziali. Era palpabile il malessere diffuso e la rabbia nei luoghi di lavoro e su questa base abbiamo promosso l’appello “I lavoratori non sono carne da macello”, per impegnarsi a bloccare la produzione e spingere la direzione sindacale a rappresentare questo malcontento. Un appello che ha proposto un programma da sottoporre a tutti i lavoratori contro l’emergenza coronavirus.

La risposta è stata molto ampia: delegati, operatori sanitari, medici, infermieri ma anche impiegati, operai metalmeccanici, del settore chimico, dei trasporti, call center, della grande distribuzione alimentare… Circa 250 delegati, sindacalisti e lavoratori hanno aderito da molti territori e diverse categorie, a partire dalle città nelle quali maggiore è stata la diffusione del virus. Un appello che è stato diffuso ben oltre le aziende e le zone dove lavorano e militano i primi firmatari.

Ha riscosso interesse anche fuori dall’Italia, è stato tradotto in inglese, ed è stato raccolto da militanti della Cgt e delle Cc.Oo. che l’hanno tradotto in francese e in spagnolo. È dall’enorme consenso raccolto da questo testo che in pochissimi giorni si è organizzata un’assemblea su una piattaforma online. L’assemblea operaia più grande nel paese durante l’emergenza sanitaria.

Lunedì 30 marzo ci siamo trovati in oltre 200 a discutere per quattro ore sulla piattaforma online e a seguire lo streaming. Nella sola serata del 30 marzo erano state più di 500 le visualizzazioni dell’assemblea su Youtube. Diverse decine, da diversi paesi del mondo, erano in collegamento streaming che seguivano in diretta l’assemblea grazie alla traduzione inglese del compagno Fred Weston.

Si sono susseguiti 20 interventi durante circa 4 ore di discussione, di delegati metalmeccanici, della grande distribuzione, della sanità, operatori al call center, educatori, lavoratori dei trasporti, del settore assicurativo e chimico, oltre che dirigenti sindacali della Cgil.

Pubblicheremo a breve il resoconto integrale dell’assemblea (lo streaming è ancora raggiungibile su canale YouTube di Sinistra Classe Rivoluzione), per inserire anche i contributi di quei firmatari che non hanno potuto intervenire per mancanza di tempo.

L’assemblea ha dimostrato chiaramente 1) La presa di coscienza di lavoratori e delegati di base, che di fronte all’inerzia dei dirigenti sindacali hanno preso l’iniziativa nelle loro mani. 2) La rabbia diffusa per il comportamento spudorato delle aziende nel mettere al primo posto i loro profitti. 3) Una forte critica verso il sistema nel suo complesso.

L’iniziativa spontanea si dimostra anche in diversi appelli che sono stati rivolti a settori specifici (come il commercio o gli operatori delle residenze sanitarie), appelli che puntano esplicitamente a radicare e articolare questa lotta in tutti i settori della classe lavoratrice che si trovano esposti.

 

Per i padroni prima il profitto

Del resto la dinamica scaturita attorno al decreto del 22 marzo è stata esplicita ed inequivocabilmente chiara. Un indegno balletto le cui conseguenze sono state prima confusione e poi una vera e propria beffa per i lavoratori. Conte ha dichiarato il fermo produttivo la sera del 21 marzo, un decreto che però tardava ad uscire a causa delle pressioni del padronato. Con una sua lettera rivolta al governo, il presidente di Confindustria, Boccia, adduceva ragioni economico finanziarie per impedire che la produzione, quella non essenziale, si bloccasse.

Nell’elenco dei codici Ateco allegato al decreto c’erano in sostanza tutti i settori produttivi, molti dei quali per nulla essenziali. Erano presenti le fonderie, le aziende chimiche, le aziende del settore della difesa, le banche, le assicurazioni, i call center. La pressione di Confindustria era andata a buon fine.

Quel decreto però ha dato il via a nuovi scioperi che si sono sviluppati molto più intensamente e su più giorni, in continuità con gli scioperi delle prime giornate alla Fca di Pomigliano, alla Fincantieri e alla Leonardo. Nelle giornate del 23 e 24 marzo sono stati proclamati scioperi da diverse categorie, come quelle dei metalmeccanici e dei chimici in Lombardia e degli stessi metalmeccanici in Emilia Romagna. Il segretario generale della Cgil Landini, che inizialmente non era molto lontano dallo slogan lanciato dal governo “l’Italia non si ferma”, adesso minacciava lo sciopero generale se l’elenco dei settori produttivi considerati essenziali non si fosse ridotto.

È stata la forza dei lavoratori e il timore che gli scioperi si generalizzassero che ha costretto il governo a riaggiornare, e ridurre, l’elenco dei settori produttivi definiti essenziali il 25 marzo.

Tuttavia, come è stato sollevato da diversi interventi nell’assemblea del 30 marzo, non aver proclamato lo sciopero generale è stato un errore. Il decreto definitivo, infatti, non ha risolto per nulla tutto il problema.

Solo dopo pochi giorni erano state inviate richieste di deroghe alla prefetture in un numero vergognosamente alto, 2000 a Bologna, 4000 a Milano, più di 2500 a Brescia, 1800 Bergamo, 11mila nel Veneto.

 

Sanità e stato sociale al collasso

In sanità e nei servizi, gestiti da aziende pubbliche o cooperative, è stato da subito evidente quanto la situazione fosse rischiosa per gli operatori. In diversi interventi nell’assemblea del 30 marzo questo discorso è emerso. Una situazione che vale anche per la grande distribuzione alimentare per i trasporti, in generale per il lavoro di cura.

I dispositivi di protezione (Dpi) erano assenti e, a dirla tutta, la questione non è ancora del tutto risolta. La carenza prosegue. Sono stati riferiti casi di operatori sanitari che venivano obbligati a togliersi le mascherine perché non ce n’erano abbastanza o perché creavano panico tra i pazienti. Disposizioni delle aziende sanitarie dicevano esplicitamente che, le stesse mascherine, andavano utilizzate solo nel caso si assistesse pazienti malati o sospetti di essere contagiati.

I lavoratori dei servizi essenziali sono tra le principali vittime e vettori del contagio: il dato parla chiaro, quasi il 10% delle persone contagiate sono operatori sanitari. Ed è un dato arrotondato per difetto vista la scarsità dei tamponi effettuati.

La sanità è al collasso. È il risultato di 30 anni di politiche di sottofinanziamento e privatizzazione, dell’aziendalizzazione e della regionalizzazione del Ssn. È questa la ragione per la quale nel decreto del 9 marzo, il governo Conte ha stabilito che i lavoratori della sanità che entravano in contatto con persone positive non sarebbero più andate in quarantena e avrebbero dovuto continuare a lavorare. Una ricetta perfetta per la diffusione del contagio. Criminali!

 

Coronavirus e lotta di classe

I compagni hanno narrato in ogni intervento episodi di organizzazione, di resistenza e di lotta di classe. Una vera spina nel fianco dei padroni per chiedere adeguate misure di sicurezza come alla Esselunga di Corbetta, del milanese o alla Coop. Alla Ferrari di Modena lo stabilimento ha chiuso sotto la pressione dei lavoratori e dei Rls, tra cui il compagno Matteo Parlati, che denunciavano la carenza di sicurezza.

La lotta dei lavoratori ha in pochi giorni messo in archivio tutte le tesi di una certa sinistra riformista o settaria, depressa e sconfitta dalla storia, sulla fine della classe lavoratrice. La lotta di classe c’è e i lavoratori hanno la forza per poterla vincere.

Dall’assemblea è emerso con chiarezza che non bisogna abbassare la guardia. Si devono imporre comitati di delegati, eletti e revocabili dai lavoratori, che controllino l’applicazione delle necessarie misure sanitarie e di sicurezza ed impongano la sanificazione di tutti gli impianti e postazioni di lavoro. I lavoratori devono potere interrompere la produzione in presenza di un pericolo immediato. Laddove mancano le misure di sicurezza non bisogna esitare a proclamare lo sciopero per garantire la salute e la sicurezza, per far chiudere le aziende. Porre al centro, dunque, la questione del controllo dei lavoratori in tutti i settori dell’economia e dei servizi sociali, il tema della costruzione di un potere economico e politico alternativo a quello dell’attuale classe dominante.

I padroni stanno mostrando tanta impazienza nel voler riaprire. I lavoratori dovranno riporre al centro della partita il loro protagonismo, come è stato fatto in queste settimane, ed imporre che i settori produttivi non utili a gestire l’emergenza sanitaria restino chiusi fino a quando i lavoratori non siano sicuri. Gli scioperi in questa ultima fase hanno avuto un rallentamento ma siamo tutt’altro che ad una conclusione del processo. Alla Lucchini di Brescia Fiom Fim Uilm hanno proclamato 11 giorni di sciopero a partire dal 3 aprile. Una fase di lotte è appena cominciata.

Alle porte ci sarà una crisi economica senza precedenti che vorranno far pagare ai soliti. Oggi fanno i debiti, in Italia e altrove, domani imporranno le politiche di austerità per far pagare ai soliti.

I lavoratori hanno imparato tante lezioni in queste pochissime settimane. Il capitalismo li considera carne da macello. Non siamo sulla stessa barca, c’è chi pensa ai profitti e chi pensa alla sua salute e dei propri cari.

Hanno capito che senza di loro non va avanti nulla. Sarebbero per esempio gli unici a poter effettivamente stabilire quale attività è effettivamente indispensabile e urgente in un periodo di emergenza. La classe lavoratrice è l’unico vero motore della società.

È chiaro, al di là della becera propaganda nazionalista, che peraltro ha un successo molto relativo, che il virus non ha confini e sta sottoponendo una buona parte del pianeta alle stesse dinamiche. Il razzismo non esiste in queste settimane, quando i lavoratori lottano, lo fanno uniti. Sono i lavoratori, al di là della propria nazione, etnia, religione che assieme possono e devono cambiare la società, perché nessun uomo sia mai considerato carne da macello.

Con questo spirito l’assemblea del 30 marzo ha lanciato un appello internazionale che va proprio nella direzione di unire le lotte dei lavoratori di tutto il mondo, per un’azione internazionale comune in difesa della salute, della sicurezza e per togliere ai padroni il controllo del sistema economico, mettendo finalmente al centro i bisogni di tutti e non i profitti di una minoranza di parassiti.

 

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