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Verdi e capitalismo – Una love story

Nelle elezioni europee di maggio i Verdi sono stati uno dei partiti premiati dall’elettorato, in particolare giovanile. In Germania scavalcano la socialdemocrazia e diventano il secondo partito col 21 per cento dei voti. Il blocco dei 69 eurodeputati vede al suo centro i rappresentanti francesi e tedeschi (22 e 12 eletti), oltre agli 11 del Regno Unito la cui presenza però è a termine a causa della Brexit.

Nel loro periodo di formazione (anni ’80), le liste e i partiti verdi avevano raccolto numerosi militanti della sinistra e dell’estrema sinistra dopo la sconfitta e il riflusso delle lotte operaie degli anni ’70. Venivano quindi considerati una forza di sinistra e antisistema, guardata con sospetto dalla borghesia. Ma in trent’anni di acqua sotto i ponti ne è passata molta. “I partiti verdi europei si sono trasformati dai capelloni coi sandali delle caricature anni ’70 in macchine politiche responsabili e disciplinate. Hanno lavorato efficacemente come parte di coalizioni regionali e nazionali in diversi Paesi dell’Ue”. (Financial Times 28 maggio).

 

Il programma delle elezioni europee

Il programma presentato dai Verdi per le europee (pubblicato su europaverde.it) chiarisce bene perché oggi un settore della grande borghesia non teme, ma anzi auspica l’impegno al governo di questa forza.

Gli obiettivi ambientali sono quelli ormai popolarizzati da decenni di dibattito: fuoriuscita graduale dalle energie fossili a partire dal carbone, riduzione e poi azzeramento netto delle emissioni di gas serra, riciclaggio, sostegno all’agricoltura e all’allevamento biologico, lotta agli ogm, al glifosato e ai fertilizzanti chimici, passaggio all’auto elettrica, ecc.

Come raggiungere questi obiettivi? Usando lo Stato per sostenere quelle imprese che si orientino alle produzioni verdi; finanziando la riconversione con una marea di tasse; applicando il protezionismo commerciale contro i concorrenti. In nessun punto si pone in discussione la logica del profitto, che è alla base dello sfruttamento sia dei lavoratori che dell’ecosistema; si cerca invece di rendere profittevole per il capitale orientarsi all’economia “verde”.

Dato che servono ingenti risorse, il programma propone una vera e propria alluvione di tasse: un alto prezzo del carbonio (ossia dei diritti di emissione di CO2), Iva europea sui biglietti aerei, tasse su prodotti non riciclabili, sulle attività estrattive, sui combustibili fossili.

Tasse indirette come l’Iva, o le accise (imposte di fabbricazione) sono quelle socialmente più ingiuste, perché colpiscono in uguale misura i ricchi e i poveri. Non a caso in tutto il mondo i governi borghesi tendono a ridurre le imposte sul reddito e sui profitti e ad aumentare questo tipo di imposte indirette, scaricando il carico fiscale sui consumatori e in particolare sulle classi popolari. È la politica che Macron ha provato ad applicare scatenando la rivolta dei Gilet gialli. Non a caso i Verdi in Francia lo hanno criticato per avere ritirato gli aumenti del prezzo della benzina per placare la piazza.

Le risorse così ottenute verrebbero usate per aiutare le imprese a sostenere i costi della riconversione. Niente di nuovo sotto il sole quindi: socializzare i costi, privatizzare i profitti, e non sia mai che si tocchi la sacra proprietà privata e il sacro libero mercato!

 

Liberismo ed europeismo

Il programma si dichiara favorevole al libero commercio nell’ambito del Wto, tuttavia si contraddice immediatamente quando propone dazi alle importazioni per motivi ambientali e sociali. Con la guerra commerciale ormai scatenata nel mondo fra Usa e Cina è chiaro che un partito che voglia gestire il capitalismo deve adeguarsi.

Si propone poi di “ridurre la dipendenza dall’energia proveniente da Paesi ostili” (presumibilmente la Russia). I Verdi sono una forza ultraeuropeista, tanto da definire l’Unione europea “una forza potente al servizio del bene” (addirittura!). Infatti si dichiarano da tempo a favore dell’esercito europeo (al servizio del bene, si capisce!). Sulle politiche di austerità spendono qualche parola generica di critica, ma basti dire che quando nel 2015 si dovette votare nel parlamento tedesco il “memorandum” che imponeva alla Grecia un massacro sociale senza precedenti e la svendita del paese al capitale estero, il gruppo dei verdi votò 22 a favore, 33 astenuti e solo 2 contrari.

Sul piano sociale il massimo a cui si spinge il programma è ipotizzare un reddito di cittadinanza (stile 5 Stelle) e un certo rispetto dei diritti alla contrattazione collettiva nelle aziende, il tutto nella logica del “dialogo sociale e della partecipazione dei lavoratori”, ossia della classica cogestione che la borghesia tedesca ha usato per mezzo secolo per ingabbiare il movimento operaio.

Ci sono poi alcune belle parole sulla lotta ai paradisi fiscali, l’eterna riproposizione della Tobin tax (tassazione minima sulle transazioni finanziarie) “per limitare le speculazioni” e altre favolette che i riformisti ripetono da una trentina d’anni. La più bella dice così: “Alle multinazionali dovrebbe essere richiesto di esercitare la dovuta diligenza in tutta la filiera produttiva per assicurarsi che la loro attività non violi i diritti umani o lo sviluppo sostenibile.”

 

I Verdi al governo

L’abbraccio con gli interessi del capitale non cade dal cielo. I Verdi hanno dimostrato più volte la loro natura partecipando a governi in Francia, Italia e soprattutto Germania, a cavallo fra gli anni ’90 e 2000.

Joschka Fischer e Gerhard Schroeder

In Francia i Verdi diventano un partito organizzato nel 1984. Dopo anni di attività indipendente, influenzata dal “né destra né sinistra” di Antoine Wachter, a metà anni ’90 i Verdi svoltano con nettezza verso un’alleanza col Partito socialista. Dal 1997 al 2002 partecipano organicamente ai governi della “sinistra plurale” guidati dal socialista Lionel Jospin. Ancora nel 2018 il quotidiano conservatore Le Figaro ricordava quel governo come la compagine che più ha privatizzato settori dell’economia negli ultimi 30 anni. In effetti, quel governo privatizza per circa 30 miliardi di euro, non tralasciando settori strategici come AirFrance e France Telecom, oltre ad applicare con zelo le norme promosse dall’Unione europea per la deregolamentazione del mercato dell’energia elettrica e del gas.

Analoga l’esperienza dei Verdi nei governi Prodi, D’Alema e Amato in Italia (1996-2001), responsabili di privatizzazioni a tappeto, precarizzazione del lavoro, incentivi all’industria dell’auto, interventi militari all’estero…

In Germania, dopo le prime esperienze di governo regionale a partire dal 1985 in Assia, fanno il grande salto nel 1998-2005 entrando al governo nazionale nella coalizione “rossoverde” guidata dalla socialdemocrazia di Schroeder.

Il leader storico dei Verdi Joschka Fischer diventa vice primo ministro e ministro degli esteri, una posizione di spicco nel governo.

Sul piano sociale i governi Schroeder introducono pesanti attacchi alle condizioni di lavoro, in particolare con i cosiddetti pacchetti Hartz. Dilagano i cosiddetti minijobs, posti di lavoro a orario ridotto e a sottosalario, e i contratti a termine. La figura dell’operaio tedesco come il meglio pagato in Europa si riduce sempre di più, mentre oggi 7,5 milioni di lavoratori sottopagati nei “minijobs”, 2,7 milioni impiegati a termine e 8,6 milioni a part time involontario riportano la Germania a livelli di diseguaglianza sociale pari a quelli del 1913.

Mentre Schroeder, prontamente ribattezzato “genosse der bosse” (“compagno dei padroni”) si esercita in queste “riforme”, il suo vice Fischer schiera la Germania in prima fila nella guerra contro la Jugoslavia (1999), avalla l’intervento Usa in Afghanistan (2001), collabora strettamente con il Segretario di Stato Usa Madeleine Albright, responsabile tra l’altro dell’embargo criminale contro l’Iraq che causò la morte di mezzo milione di bambini.

Persa la poltrona di ministro, Fischer accetta un incarico di consigliere nel progetto del gasdotto Nabucco, partecipato dalla compagnia tedesca Rwe e che verrà poi abbandonato in favore del Tap. Continua anche a collaborare con la Albright assistendo imprese come Siemens e Bmw, nonché è tra i fondatori di una Arab Democracy Foundation capeggiata dalla moglie dell’emiro del Qatar…

L’ex estremista Fischer, così come il suo amico fraterno Daniel Cohn-Bendit, leader in un tempo molto lontano degli studenti francesi nel Maggio ’68 e oggi riferimento dei Verdi francesi nella loro reincarnazione iperliberista, ribadisce a sufficienza il vecchio motto che si è rivoluzionari solo fino a 30 anni e poi si diventa delle canaglie.

 

Conclusioni

Il problema quindi non è che il programma dei Verdi è accettabile in materia ambientale e magari carente sul piano sociale. Il centro della questione è che non si vuole toccare neppure parzialmente il potere economico, e quindi politico, del grande capitale. Questo significa che la logica del profitto continua a determinare tutte le scelte produttive, tecnologiche, la ricerca, impedendo ogni seria pianificazione che parta dai bisogni sociali, inclusi quelli ambientali. In mano al capitale privato anche una produzione apparentemente “pulita”, ad esempio l’auto elettrica, non fa che trasferire il problema da un terreno all’altro (le fonti energetiche impiegate, la produzione e lo smaltimento di decine di milioni di batterie di grosse dimensioni, ecc.). La necessità di battere la concorrenza, di allargare il mercato e di garantire il profitto impediscono strutturalmente una vera pianificazione dell’economia nel suo insieme.

Da questo punto di vista i Verdi sono oggi pienamente integrati nel campo liberale, come dimostrano il loro programma e l’esperienza diretta. La lotta per un’economia autenticamente al servizio della collettività e capace di garantire un rapporto non distruttivo con l’ambiente rimane un compito che solo la classe lavoratrice può affrontare, come parte della lotta internazionale per una società socialista.

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