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Usa, Cina, Europa: una nuova tappa negli antagonismi mondiali

La pandemia e la crisi economica sono un fenomeno globale, ma questo non significa che i loro effetti siano identici e che le differenze vengano livellate. Al contrario, esse emergono sotto una luce impietosa.

Da un lato si esasperano le differenze sociali, con lo spettacolo osceno di una ristrettissima minoranza di super ricchi che anche grazie all’emergenza accumulano ricchezze incalcolabili, mentre nel mondo si calcolano 400 milioni di posti di lavoro persi e fasce crescenti della popolazione sprofondano nella povertà e nella privazione di qualsiasi prospettiva.

L’altro lato della medaglia è che si accentuano gli squilibri economici, e di conseguenza politici, tra le diverse aree del mondo. Mentre l’Europa, gli Usa, l’America latina si dibattono ancora nel pieno dell’emergenza sanitaria, la Cina è riuscita a contenere il contagio e addirittura ad avere una modesta crescita economica, persino nel catastrofico 2020.

L’antagonismo tra Usa e Cina è la principale linea di conflitto nel pianeta, anche se non certo l’unica. E questo conflitto viene ulteriormente alimentato dalla crisi attuale.

Negli anni scorsi la stampa liberale ha messo sul banco degli imputati Donald Trump, accusato di “sovranismo”, “unilateralismo”, “protezionismo” e via di seguito. Ma la realtà è che Trump ha solo dato una espressione palese ed esplicita (anche se molto confusa nelle azioni intraprese), a una dura realtà: gli Stati Uniti stanno perdendo il loro primato mondiale, e se vogliono difenderlo devono condurre una lotta contro i loro avversari, dei quali la Cina è il principale.

Da questo punto di vista non esiste alcuna differenza di principio con Biden, che si appresta a perseguire lo stesso fine ma con metodi diversi.

 

La Cina in vantaggio di due mosse

Tuttavia a muovere per prima è stata Pechino, che mentre gli Usa si dibattevano nella campagna elettorale e nel suo pirotecnico finale di Capitol Hill, ha concluso due importanti accordi commerciali.

Il primo è il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), firmato a Hanoi da 15 paesi del Pacifico: i 10 membri dell’Asean – Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam – ai quali si uniscono Australia, Cina, Giappone e Corea del Sud. Il Rcep si propone di armonizzare una serie di accordi già esistenti e di abbattere tra l’85 e il 90% delle tariffe commerciali su 20 capitoli di scambi di beni e servizi. Al cuore dell’intesa, il criterio che stabilisce che qualsiasi bene prodotto in uno dei paesi aderenti avrà la stessa libertà di circolare.

Si tratta della più grande area di libero scambio del pianeta, che copre oltre il 30% del Pil mondiale, una popolazione di 2,2 miliardi di persone e oltre un quarto degli scambi globali. È anche il primo accordo di libero scambio che coinvolge Cina, Giappone e Corea del Sud. (Per un’analisi più ampia, v. l’articolo di Franco Ferrara: L’accordo Rcep: un nuovo passo nella guerra commerciale tra Cina e Usa).

Colpisce come paesi strettamente legati agli Usa per motivi commerciali, militari e storici come Giappone, Corea del Sud, Filippine, Vietnam, siano parte integrante dell’accordo.

Il secondo accordo è il Comprehensive Agreement on Investments (Cai), firmato poco dopo tra Cina e Unione Europea il 30 dicembre. La firma è arrivata dopo sette anni di negoziati e per la chiusura è stato necessario un contatto diretto tra Xi Jinping, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Angela Merkel ed Emmanuel Macron.

Colpisce la tempistica della firma, con un’accelerazione proprio alla vigilia dell’insediamento di Biden. Il Cai, che ha ancora davanti un lungo percorso di definizione e formalizzazione, ha finalità diverse dal Rcep e più che sul commercio, si concentra sugli investimenti. Infatti se gli scambi commerciali tra Cina e Ue sono cospicui (650 miliardi di dollari nel 2019, che fanno dell’Ue il secondo partner commerciale di Pechino dopo gli Usa), gli investimenti reciproci sono meno consistenti e ammontano a un totale, negli ultimi 20 anni, di 140 miliardi di euro investiti dall’Ue in Cina contro 120 investiti dalla Cina in Europa).

Pertanto il Cai si propone di rendere più facili gli investimenti europei in Cina rimuovendo o riducendo alcuni dei vincoli, in particolare sull’obbligo di trasferimenti di tecnologia, limiti alla presenza nelle quote azionarie, ecc. Potenzialmente, anche se il percorso è ancora assai lungo, aprirebbe enormi campi di investimento diretto non solo nell’industria, ma anche in settori come trasporti, commercio, sanità, servizi finanziari, ecc. Inoltre Pechino promette una “concorrenza leale” con i colossi dell’industria di Stato (trasparenza sui sussidi, ecc.) che tutt’ora pesano per circa il 30 per cento nell’economia cinese.

 

Dalla “globalizzazione” ai blocchi contrapposti?

Nonostante i leader cinesi parlino di “vittoria del libero scambio e del multilateralismo”, questi accordi non aprono la strada a una nuova era di libero commercio globale come nel ventennio seguito al crollo dell’Unione sovietica, quando gli Usa presero il comando della cosiddetta “globalizzazione” attraverso il Wto, il Fmi e le altre istituzioni internazionali.

Si tratta invece del processo di cristallizzazione dei blocchi economici e commerciali che prefigurano una contrapposizione politica di cui quella fra Usa e Cina è, come detto, quella fondamentale.

All’ordine del giorno non c’è più la liberalizzazione degli scambi, con lo Stato che si fa da parte liquidando con le privatizzazioni la propria presenza nell’economia, ma l’esatto contrario: una integrazione stretta tra capitale privato e ruolo degli Stati, che intervengono sempre più attivamente nelle politiche finanziarie e industriali e nella lotta per sottoporre al proprio controllo altri paesi.

Naturalmente questi accordi non significano che il Giappone o l’Ue sono diventati satelliti cinesi. Segnalano piuttosto la forza d’attrazione dell’economia cinese, seconda al mondo per Pil, prima per dinamica di crescita, prima destinazione per gli investimenti diretti all’estero.

Un dato riassume la situazione: oggi la Cina è il primo partner commerciale per 64 paesi al mondo, inclusa la Germania; gli Usa per 38.

Anche il mercato dei capitali cinese non è più allo stadio embrionale. Anche se non è lontanamente paragonabile con quelli dei paesi più avanzati, è chiaro che in prospettiva la sfida per l’egemonia si giocherà a 360 gradi, su tutti i terreni.

 

Come risponderanno gli Usa?

La domanda quindi è una sola: come reagiranno gli Usa alla sfida cinese? La linea di Trump, fatta di dazi e sanzioni, si è rivelata poco efficace anche se i suoi provvedimenti protezionisti rimarranno in vigore nella misura in cui Biden li potrà usare come eventuale moneta di scambio.

I paesi aderenti al RCEP

Una gran parte del lascito “ideologico” di Trump si trasmette al suo successore: l’idea di dover garantire la piena autosufficienza degli Usa sul piano industriale, anche con il rientro sul suolo nazionale di produzioni delocalizzate, rigido controllo protezionista in una serie di settori chiave per motivi economici, tecnologici e militari (telecomunicazioni, aerospaziale, ecc.).

Tuttavia è indiscutibile che il cosiddetto “unilateralismo” dell’America First ha mostrato tutti i suoi limiti. Pertanto Biden avrà come obiettivo quello di creare uno schieramento di forze, una coalizione per fronteggiare la Cina e cercare di contenerne l’ascesa.

Secondo l’Economist (23 novembre), il neo Segretario di Stato Usa Antony Blinken “vede gli alleati come vitali nella competizione con la Cina, forse la maggiore sfida di politica estera dei prossimi anni. Si aspetta di lavorare con “paesi affini” per assicurare che si giochi pulito, e che gli alleati aiutino a dare all’America un’influenza ulteriore: è molto più difficile per la Cina ‘ignorare il 60% del Pil mondiale, che ignorarne un quarto’, ha detto la scorsa primavera al Meridian, un centro studi diplomatico di Washington.”

Qui si misurerà la distanza maggiore rispetto a Trump, che durante il suo mandato aveva preso una linea apertamente ostile all’Unione europea, attaccandola sul piano economico (dazi) e diplomatico, sostenendo la Brexit e puntando apertamente sulle forze euroscettiche. Biden, viceversa, proverà ad inserire la Ue in un “fronte delle democrazie” che dovrebbe avere anche un suo corrispettivo nel Pacifico. Per inserire la Ue in tale alleanza potrebbe essere disposto a fare alcune concessioni commerciali, ma la contropartita sarà quella di assumere un atteggiamento più ostile sia verso la Cina che verso la Russia. In particolare Washington da tempo fa pressioni sulla Germania affinché abbandoni il progetto del gasdotto North Stream che la collegherebbe alla Russia.

Peraltro Biden è pesantemente coinvolto anche a livello personale nello scontro col regime di Putin, tanto che suo figlio Hunter Biden ha ricevuto lucrosi incarichi in Ucraina a seguito della controrivoluzione di Piazza Majdan, che ha insediato a Kiev un governo reazionario di destra visceralmente antirusso.

Proprio questa pressione degli Usa spiega perché la Ue si sia affrettata a firmare il Cai (v. sopra): per quanto il legame atlantico sia importante, il capitalismo tedesco non può permettersi di farsi tagliare fuori dal mercato cinese e dai rapporti con l’Europa orientale solo per compiacere la Casa bianca.

Per lo stesso motivo ora si aprono le porte a possibili accordi per la produzione e distribuzione del vaccino russo Sputnik anche nell’Ue.

L’antagonismo crescente tra Usa e Cina crea una forte pressione sull’Ue, alla ricerca di un equilibrio tra le forze opposte. In questo contesto in Europa prevale per il momento la spinta centripeta, nella consapevolezza delle diverse borghesie del continente che nessuna ha la forza per reggere da sola uno scontro internazionale di tale portata. Ne discendono conseguenze precise: 1) L’accordo sulla Brexit, che ha temporaneamente disinnescato una bomba a orologeria, scaricando le contraddizioni all’interno del Regno Unito stesso (conseguenze economiche, riaccendersi della questione nazionale in Scozia e Irlanda). 2) Abbandono delle politiche di austerità ed espansione senza precedenti della politica monetaria da parte della Bce, con l’abbandono da parte della Germania della precedente posizione “rigorista” e accordo sul Recovery Plan. 3) Conseguente indebolimento dei partiti euroscettici e sovranisti, che hanno per il momento messo in secondo piano le posizioni di rottura dell’Ue e ritorno alla “sovranità nazionale”.

 

Uno scontro di lungo periodo

Per concentrarsi sull’obiettivo fondamentale, Biden cercherà anche di neutralizzare altri fronti di conflitto, ma nella condizione di crisi del capitalismo la coperta finisce sempre col risultare troppo corta: il tentativo di riaprire il dialogo sul nucleare con l’Iran indubbiamente scontenterà l’Arabia saudita e Israele, che non si faranno scrupoli di alimentare la tensione in Medio oriente per ricordare agli Usa i rischi di un disimpegno eccessivo. Il sospirato ritiro dall’Afghanistan è un altro rebus senza soluzione.

Biden fa anche rientrare gli Usa in una serie di istituzioni e accordi internazionali che Trump aveva trascurato e sbeffeggiato, quando non abbandonato tout court: accordo di Parigi per il clima, Organizzazione mondiale per la sanità, ecc. e si sta anche impegnando per riattivare il Wto, paralizzato da anni.

Per gli Usa non si tratta tuttavia di un “ritorno al multilateralismo” e alla cooperazione internazionale, ma di condurre la propria battaglia anticinese (e antirussa) anche in queste istituzioni, per motivi di propaganda politica e anche di scontro economico. Ad esempio è chiara l’intenzione di usare politiche presuntamente ambientaliste come strumento di guerra economica per imporre priorità di scelte e tecnologie favorevoli all’industria Usa, il tutto naturalmente usando la bella etichetta del Green New Deal.

La natura di questo scontro non riguarda solo l’esportazione di merci e i saldi commerciali. È uno scontro per il controllo del pianeta, delle diverse aree contese, delle vie di comunicazione, delle reti, del primato produttivo, finanziario e tecnologico. Per questo, e non solo per propaganda, vengono agitati i “valori”, i “diritti” e altri princìpi completamente ipocriti, con i quali si cerca di fondare lo scontro con l’avversario strategico delegittimando le basi del suo sistema politico e sociale e in ultima analisi della sua stessa esistenza.

La crisi del capitalismo rende più acuto, pericoloso e barbarico questo scontro che la classe dominante conduce per il predominio mondiale, poco importa che venga condotto sotto le bandiere del “sovranismo” o sotto quelle della “democrazia” imperialista.

Ma per i lavoratori nessuno di questi fronti ha nulla da offrire, se non di arruolarsi in uno scontro in cui sono comunque perdenti. Solo la costruzione di un’economia socialista, pianificata democraticamente su scala globale offre una vera risposta alle contraddizioni di questo sistema giunto allo stadio terminale.

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