Contro il revisionismo del governo Meloni – Il 25 Aprile si difende nelle piazze
25 Aprile 2023
Sulla questione delle abitazioni oggi
28 Aprile 2023
Contro il revisionismo del governo Meloni – Il 25 Aprile si difende nelle piazze
25 Aprile 2023
Sulla questione delle abitazioni oggi
28 Aprile 2023
Mostra tutto

Ungheria 1956 – Una rivoluzione politica contro lo stalinismo

Che il capitalismo sia un sistema malato è ogni giorno più evidente: la devastazione dell’ambiente, le diseguaglianze sociali sempre crescenti, gli scontri imperialisti, il peso soffocante della speculazione finanziaria… Se il sistema continua a sopravvivere a sé stesso è perché, secondo il sentire comune, non c’è una valida alternativa, poiché il “comunismo”, quando è stato applicato in Europa dell’Est e in URSS, è fallito sul piano economico e soprattutto ha comportato una dittatura burocratico-poliziesca.

In realtà un’alternativa tanto al capitalismo quanto allo stalinismo esiste. Trotskij la definiva “democrazia proletaria”: un sistema socialista democratico, incentrato sul potere politico dei “consigli dei lavoratori”, composti da delegati eletti in tutti i posti di lavoro e che si coordinano a livello locale, regionale e nazionale. Un sistema in cui la pianificazione dell’economia è diretta non dall’alto da una burocrazia statale asfissiante, ma dal basso dagli organismi democratici dei lavoratori. Era questo il regime nato in Russia con la Rivoluzione d’Ottobre, basato sui soviet (comitati) degli operai e dei contadini, prima di essere violentemente soppiantato dalla burocrazia stalinista.

Proprio per questo motivo Trotskij parlava della necessità in URSS di una “rivoluzione politica”. Non una rivoluzione sociale, perché in Russia il capitalismo era già stato abolito e l’economia era già stata nazionalizzata, ma una rivoluzione politica, per restituire ai lavoratori il potere politico e il controllo sull’economia.

Tutto questo viene solitamente bollato come una elaborazione astratta, dottrinaria, uscita dalla penna di Trotskij, ma senza nessuna attinenza con la realtà concreta. E invece nel corso della storia abbiamo visto diversi casi di rivoluzione politica nei paesi stalinisti. Il più straordinario di tutti è stato sicuramente quello della rivoluzione ungherese del 1956.

 

La centralità dei consigli operai

La macchina della propaganda stalinista dell’epoca (e anche negli anni seguenti) ha calunniato in tutti i modi i moti ungheresi del ’56, presentandoli come un tentativo controrivoluzionario di riportare al potere le vecchie classi possidenti. Ad essere protagonisti dell’insurrezione sono invece gli operai e gli studenti.

Il primo programma della rivoluzione, in 16 punti, viene discusso e votato in un’assemblea di studenti del Politecnico di Budapest. La prima manifestazione di piazza, il 23 ottobre, viene convocata dal Circolo Petofi, un gruppo di intellettuali che rivendicano una maggior libertà in campo artistico e culturale. Si tratta inizialmente di manifestazioni pacifiche, ma quando la polizia segreta, l’AVH, apre il fuoco contro i dimostranti provocando centinaia di morti e il governo richiede l’intervento delle truppe russe per schiacciare il movimento, la risposta delle masse è un gigantesco sciopero generale.

In tutto il paese si formano consigli operai: eletti dai lavoratori nel corso dello sciopero, organizzano milizie armate per combattere contro l’AVH e i russi, assumono il controllo delle amministrazioni locali e cominciano a pubblicare i loro giornali.

A Budapest la lotta è inizialmente guidata da un Comitato rivoluzionario degli studenti, nel quale però ben presto affluiscono delegazioni di operai eletti nelle fabbriche della città. Successivamente, il 14 novembre, nasce il Consiglio centrale degli operai di Budapest, eletto dalla totalità dei consigli di fabbrica della capitale.

Un processo simile si verifica in tutto il resto del paese. La città industriale di Miskolc è la prima in cui un consiglio operaio assume il potere. Da qui il movimento si estende in tutta la provincia di Borsod, il cuore dell’industria siderurgica e metalmeccanica ungherese.

Budapest, 23 ottobre 1956: corteo degli universitari

Nei consigli sono rappresentate tutte le tendenze politiche del movimento operaio. A Gyor, dove si trova una gigantesca fabbrica di vagoni e locomotive, la maggioranza del consiglio è diretta da esponenti del partito socialdemocratico e del partito dei contadini, mentre l’opposizione è guidata dall’ex sindaco della città, eletto nella fabbrica in cui lavora. Il consiglio operaio di Magyarovar, invece, vede al suo interno una maggioranza di operai comunisti, ma comprende anche elementi senza partito e appartenenti ai partiti riformisti.

I delegati eletti nei consigli sono responsabili davanti alla propria base e possono essere revocati in qualsiasi momento. Ad esempio il primo presidente del Consiglio centrale di Budapest, Arpad Balasz, viene messo in minoranza per essersi espresso contro la prosecuzione dello sciopero e sostituito da Jozsef Devenyi, eletto tra i delegati del quartiere operaio di Csepel. Successivamente la maggioranza del consiglio solleva dalle sue funzioni anche Devenyi, considerato troppo temporeggiatore, e a diventare presidente è Sandord Racz, fabbro della fabbrica di apparecchiature elettroniche Belojannis, di soli 23 anni.

Anche quando intervengono i carri armati russi, sono i quartieri operai di Budapest ad essere i principali bastioni della resistenza. Nonostante la superiorità dei loro armamenti, le truppe sovietiche impiegano ben dieci giorni ad espugnare le fabbriche. Persino dopo che gli insorti sono costretti a consegnare le armi, i consigli operai restano in piedi per settimane, con nuovi delegati che vengono eletti per rimpiazzare quelli caduti, arrestati o deportati. Il 21 novembre riesce anche a riunirsi a Budapest, nonostante la forte repressione, un Consiglio nazionale operaio con delegati provenienti da tutto il paese. A più di un mese dall’intervento militare russo, la classe operaia ungherese trova ancora la forza per dar vita, il 13-14 dicembre, ad uno sciopero generale che paralizza completamente il paese.

 

La dissoluzione del vecchio apparato statale

Di fronte all’insurrezione delle masse, il mastodontico apparato repressivo stalinista crolla come un castello di carte. Il partito comunista si spacca: in molti casi la base del partito rompe con il regime e si schiera dalla parte della rivoluzione. Sono numerosi i comunisti che ricoprono un ruolo chiave nei consigli operai e nelle milizie.

Gli unici a sparare contro la folla sono gli odiati sbirri dell’AVH. La polizia e l’esercito ungheresi si rifiutano di obbedire agli ordini e in molti casi consegnano le loro armi agli insorti. Uno degli eroi della rivoluzione diventa il colonnello Maleter, che assieme ai suoi soldati passa dalla parte degli insorti e difende per una settimana la caserma Kilian, assediata dalle truppe russe. Anche nell’esercito si formano comitati rivoluzionari eletti democraticamente dai soldati.

Nemmeno la prima ondata di truppe sovietiche è immune dal contagio rivoluzionario. Ai soldati russi era stato detto che avrebbero dovuto combattere una “controrivoluzione fascista appoggiata da truppe occidentali”. Si trovano invece di fronte ad una sollevazione popolare. Si moltiplicano i casi di fraternizzazione. Su alcuni carri armati sovietici viene esposta la bandiera ungherese e in certi casi i soldati dell’Armata Rossa combattono al fianco degli insorti contro l’AVH.

Queste truppe devono essere richiamate in fretta e furia in URSS, per timore di un ammutinamento generale. Mosca le sostituisce con contingenti provenienti dalle regioni più remote dell’Asia sovietica, che vengono fatte entrare immediatamente in azione, senza dare loro la possibilità di venire in contatto con la popolazione.

 

Filocapitalisti?

La storiografia borghese presenta i combattenti ungheresi come animati da spirito liberal-democratico e impegnati a costruire un sistema capitalista sul modello occidentale. Si tratta di una ricostruzione completamente falsa, che peraltro è stata ampiamente ripresa dagli stalinisti fautori della repressione.

Insorti in armi

Il primo presidente del Comitato rivoluzionario degli studenti, Ferenc Merey, dichiara: “Non siamo insorti per cambiare la base della società ungherese, ma vogliamo un socialismo e un comunismo che corrispondano a ciò che veramente vuole l’Ungheria.” Nel programma adottato dal Comitato rivoluzionario degli intellettuali si può leggere: “Le miniere e le fabbriche devono realmente appartenere agli operai. Le miniere e le terre devono rimanere proprietà del popolo e niente deve essere restituito ai capitalisti e ai vecchi grandi proprietari.”

Il Comitato rivoluzionario degli studenti diffonde tra i soldati sovietici 100mila volantini in lingua russa, in cui si spiega che “i lavoratori, i giovani e i soldati ungheresi… non sono né reazionari né controrivoluzionari né fascisti, ma combattono per il socialismo democratico”. Il 7 novembre il consiglio operaio di Dunapentele indirizza un appello alle truppe sovietiche in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: “Soldati! … Potete constatare coi vostri occhi che a prendere le armi contro di voi non sono stati i padroni delle fabbriche, i proprietari terrieri, i borghesi, ma il popolo ungherese che combatte per gli stessi diritti per i quali voi avete lottato nel 1917.”

Anche la rivendicazione del pluripartitismo è inquadrata nell’ottica del mantenimento delle conquiste sociali dell’economia nazionalizzata. Il Consiglio centrale di Budapest indica tra i punti del suo programma “l’abolizione del partito unico e libertà per i partiti che accettano il regime economico vigente.”

Non si cerca quindi di abolire l’economia pianificata, ma si reclama un ruolo maggiore dei lavoratori all’interno di essa.
I sindacati, completamente riorganizzati dopo la cacciata della direzione stalinista, presentano un programma in cui si rivendica il “diritto di opinione dei consigli di fabbrica sulla pianificazione economica”, per arrivare a una “direzione operaia dell’economia”. I sindacati si battono anche contro i privilegi della casta burocratica e per una società più egualitaria: oltre all’aumento dei salari a 1.500 fiorini, chiedono di stabilire un tetto massimo di 3.500 fiorini per gli stipendi più alti.

 

Le ragioni della sconfitta

Attraverso i consigli operai, la classe lavoratrice ungherese aveva creato le basi di una democrazia operaia, così come descritta da Trotskij. Se la rivoluzione avesse vinto in Ungheria, sarebbe stata un esempio per i lavoratori in tutta l’Europa dell’Est e anche in URSS, un esempio che avrebbe potuto cambiare per sempre la storia del movimento comunista mondiale.

Invece il 1956 si conclude con una sconfitta e gli stalinisti riescono a riprendere il controllo della situazione. Questo non avviene solo a causa dell’intervento dei carri armati russi, che pure hanno un peso determinante. Il fattore chiave è l’assenza di un’adeguata direzione rivoluzionaria, di un partito rivoluzionario in grado di portare il processo fino in fondo.

I consigli operai avrebbero dovuto completare l’opera iniziata, coordinandosi a livello nazionale per dare vita ad un nuovo governo dei lavoratori e sbarazzarsi degli ultimi resti del vecchio regime, ma nessuno avanza questa proposta. Tra i dirigenti dei consigli e tra i lavoratori stessi ci sono grandi illusioni in Imre Nagy. Questi era parte integrante dell’apparato statale (era stato capo del governo tra il 1953 e il 1955), ma era favorevole ad alcune caute riforme e reclamava una maggior indipendenza da Mosca. Per questo era stato allontanato dal potere nel 1955 e godeva di una buona reputazione agli occhi delle masse.

Di fronte alla forza dell’insurrezione, Nagy viene richiamato al potere. Il suo governo è però completamente sospeso in aria: tutto il potere è nelle mani dei lavoratori, dei loro consigli e delle loro milizie. Ciò nonostante delegazioni dei consigli avviano trattative con Nagy per chiedere l’applicazione del loro programma. Quello di Nagy non è però il “governo della rivoluzione”, bensì una breve parentesi, un paravento dietro il quale il vecchio regime si riorganizza e i russi fanno affluire forze fresche, non contaminate dallo spirito rivoluzionario.

Anche dopo l’uscita di scena di Nagy (che viene rimosso dal governo, rapito dal KGB e successivamente giustiziato), le illusioni da parte dei dirigenti dei consigli non vengono del tutto meno. Alla guida del governo viene posto Janos Kadar, che ha una certa autorevolezza per essere stato in passato vittima dell’AVH e aver fatto parte dell’entourage di Nagy. Non essendo ancora abbastanza forte per schiacciare il movimento dei lavoratori, Kadar tratta con i dirigenti dei consigli, facendo loro vaghe promesse in cambio della fine dello sciopero, che era proseguito anche dopo l’invasione sovietica.

Questa manovra ha un certo successo. Il 23 novembre la maggioranza del Consiglio centrale vota a favore del ritorno al lavoro. In alcune fabbriche lo sciopero prosegue ugualmente e diversi delegati vengono revocati, ma Kadar è riuscito a dividere il fronte avversario e a seminare confusione. Nel mese di dicembre il suo governo è in una posizione di forza sufficiente per gettare la maschera e passare all’attacco: nel giro di pochi giorni i consigli vengono messi al bando e i loro dirigenti sono arrestati a centinaia.

Nonostante la sconfitta finale, la coraggiosa lotta dei lavoratori ungheresi riveste la massima importanza, in quanto ha dimostrato concretamente come avrebbe potuto essere uno Stato operaio sano, privo delle deformazioni burocratiche dello stalinismo. Ha soprattutto fatto intravedere per quale società vale la pena combattere ancora oggi e qual è la vera alternativa al capitalismo.

 

Condividi sui social