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Un governo per i ricchi che vuole schiacciare i lavoratori

Sono passati appena quattro mesi dalla formazione del governo Meloni, eppure il suo indirizzo generale è molto chiaro: bisogna schiacciare i lavoratori. Allo stesso tempo, il governo riduce le tasse ai ricchi, concede condoni fiscali agli evasori e tutela gli interessi dei padroni coprendo l’attività speculativa delle multinazionali dell’energia, con l’approvazione di un decreto che dichiara nulla una sentenza dell’antitrust sui rincari ingiustificati delle tariffe di gas e luce, che come nel caso dell’ENI hanno contribuito ad un aumento del 700% degli utili rispetto al 2021.

Con il decreto legge denominato “Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale” il governo accontenta anche l’ISAB di Priolo e Arcelor-Mittal, la multinazionale che detiene la maggioranza dell’Ex-Ilva di Taranto, garantendo alle due società l’immunità penale e il divieto ad interrompere la produzione in caso di inchieste giudiziarie per danni provocati alla salute della popolazione.

Che i profitti dei padroni siano più importanti della vita dei giovani e dei lavoratori lo dimostra anche il caso di Giuliano De Seta, la terza vittima dell’alternanza scuola-lavoro. Alla tragedia della sua morte si è aggiunta la beffa nei confronti della famiglia del ragazzo, cui l’Inail non elargirà nessun risarcimento, che per legge è previsto solo per i dipendenti e non per gli stagisti. La faccia tosta del ministro del Lavoro Calderone, che ha promesso un nuovo decreto per cambiare l’attuale normativa e assicurare un rimborso alle famiglie dei ragazzi morti in alternanza scuola-lavoro, mostra tutta l’ipocrisia di un governo che continuerà a mandare al macello altri studenti pensando di cavarsela con qualche indennizzo.

La Meloni vuole tutto e subito e a pagarne il conto sono i lavoratori, i precari e i disoccupati. La fretta con cui si sta muovendo il governo però non va interpretata come un segnale di forza, ma come la necessità della classe dominante di accaparrarsi il più possibile, prima dell’inizio della tempesta. La Meloni sa che la sua azione si inserisce in un quadro di profonda instabilità destinato a precipitare in una nuova recessione, ormai data per certa anche dalla BCE, ed è cosciente del fatto che anche in Italia potrebbe aprirsi una nuova stagione di lotte economiche simili a quelle viste in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, giusto per citare gli esempi più recenti.

Nell’ultimo rapporto dell’Oxfam si rileva un aumento esponenziale della povertà assoluta, che riguarda 5,6 milioni di persone. Secondo Federcontribuenti, rispetto agli anni della pandemia i valori ISEE delle famiglie sono crollati del 48%. La sensazione che la situazione sia diventata materialmente insostenibile è diffusa ed è dovuta all’aumento generalizzato dei costi delle bollette e dei beni di prima necessità, a cui non si riesce a far fronte per la stagnazione trentennale dei salari. La centralità che ha assunto il dibattito sulle accise della benzina ripristinate dal governo, che ha un peso rilevante soprattutto per le tasche dei lavoratori che vivono del proprio salario, si spiega proprio a partire da questo contesto.

 

Tre milioni di precari non bastano, vogliono di più!

La Meloni ha dichiarato che “il lavoro non lo crea lo Stato con decreto, lo crea l’impresa privata…il governo si prefigge di ridurre il costo del lavoro attraverso la decontribuzione, la riduzione delle tasse, lo scioglimento di leggi che vincolano troppo le imprese”. A questo scopo è stato reintrodotto il voucher, che è una modalità di impiego alternativa alla contrattazione nazionale (CCNL) per retribuire le prestazioni occasionali. Inizialmente introdotti nel 2003 durante il secondo governo Berlusconi con l’approvazione della Legge Biagi, i cosiddetti “buoni lavoro” furono aboliti nel 2017, sulla spinta di una campagna nazionale che proponeva la convocazione di un referendum abrogativo. Sono ricomparsi nella manovra economica del governo Meloni, che estende la soglia annuale massima per il pagamento tramite buono da 5 a 10mila euro e aumenta il numero massimo di lavoratori diretti impiegabili da un’azienda con voucher, che passano da 5 a 10. Il voucher è uno strumento creato per normalizzare le forme più estreme del precariato, peraltro togliendo al lavoratore l’accesso ai sussidi di disoccupazione e agli altri diritti garantiti dai CCNL (malattia, maternità, contributi pensionistici, ecc.).

Favorendo la precarietà il governo va incontro alle esigenze dei padroni, che in questo modo possono disporre di lavoratori a più basso costo, licenziabili in qualsiasi momento. Non accontentandosi dei voucher, recentemente il leghista Durigon ha proposto anche l’eliminazione delle causali dei contratti a termine e l’estensione della loro durata, mentre la Calderone, in merito alla semplificazione dei contratti, ha dichiarato che bisogna “renderli più aderenti al nuovo contesto nato dopo la pandemia”. In altre parole, il governo estenderà la precarietà nonostante l’Italia sia il paese europeo con il maggior numero di lavoratori con contratti a termine. Nei primi 9 mesi del 2022 sono stati firmati 2,6 milioni di contratti a tempo determinato, 865mila rapporti stagionali (record storico), 811mila contratti interinali e 541mila contratti a chiamata.

 

La fine dei sussidi e l’obbligo al lavoro

L’abolizione del reddito di cittadinanza, che avverrà nel 2024, si basa su un discorso politico reazionario che dipinge i percettori dei sussidi come parassiti che lo Stato, da buon padre di famiglia, deve spronare alla ricerca di un’occupazione. I presupposti di questa narrazione sono completamente menzogneri e non tengono conto della realtà. In Italia ci sono circa 2 milioni di disoccupati, a cui si aggiungono i 2,7 milioni di part-time involontari e i 5 milioni di lavoratori poveri. Il reddito di cittadinanza, seppure in modo insufficiente per gli stringenti requisiti necessari per avervi accesso e per il ridotto compenso medio (di circa 580 euro), è stato uno strumento che negli anni della pandemia ha tutelato una fascia della popolazione che viveva in condizioni di ristrettezza economica significativa, a causa delle difficoltà a trovare un lavoro o perché aveva un salario da fame.

Le modifiche introdotte dal governo per il 2023 garantiscono alle 660mila persone considerate occupabili solo altri 7 mesi di sussidio, ma li vincola all’accettazione della prima offerta di lavoro, che potrà arrivare anche da un’agenzia interinale. Lo stesso discorso vale anche per i percettori di un sussidio di disoccupazione: se si rifiuta il lavoro si sospende il sussidio (che in caso di Naspi viene pagato con i contributi del lavoratore e non tramite la fiscalità generale, come avviene per il reddito di cittadinanza).

Oltre all’obbligo al lavoro, il 65% della platea di percettori di reddito, ovvero quelli che sono considerati più lontani dal mercato del lavoro, sarà costretto a seguire corsi di formazione della durata di 6 mesi. Il governo finanzierà questi corsi con il PNRR e ne affiderà la gestione ad enti di formazione, per lo più privati, accreditati presso gli enti regionali. Al momento però, è molto alta la probabilità che questi soldi pubblici finiscano solo con l’ingrossare le tasche delle società private più ammanicate con gli enti locali, cui verrà affidata la gestione dei corsi di formazione. Così com’è alta la probabilità che al termine di questi corsi i disoccupati si trovino sia senza il sussidio che senza un lavoro.

Ad uno sguardo superficiale sembrerebbe che il governo avanzi spedito, senza incontrare ostacoli. Questa impressione non deriva dall’omogeneità della maggioranza, tutt’altro che compatta, ma dall’inconsistenza dell’opposizione parlamentare e dall’immobilismo del sindacato, che però non potrà durare all’infinito. A ben vedere in larghi strati della classe si sta accumulando sottotraccia un’esasperazione tale da generare una polveriera. La spavalderia con cui la Meloni oggi attacca, in un processo di ripresa del conflitto faciliterà il riconoscimento del nemico e la formazione dell’unica opposizione possibile a questo governo: quella di lavoratori, precari e disoccupati che verrà dalle piazze.

Il nostro compito è quello di organizzare questi settori, in primo luogo rivendicando la fine di ogni forma di precarietà, l’obbligo di assunzione stabile per chi sarà inserito nei percorsi di formazione e l’introduzione della scala mobile per adeguare automaticamente i salari all’inflazione.

Unisciti a noi in questa lotta!

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