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Terremoto nel Centro Italia – Basta lacrime di coccodrillo!

Nella notte tra martedì 23 e mercoledì 24 agosto si è verificato un devastante terremoto di magnitudo 6.0 (scala Ricther) che ha riguardato l’area della dorsale appenninica tra Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche, con epicentro tra Amatrice, Accumoli (nel reatino) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno).

Ha prodotto, ad oggi, 290 morti, centinaia di feriti e migliaia di sfollati (i numeri sono in costante aggiornamento, per ciò non è ancora possibile dare un dato certo). Protezione civile, vigili del fuoco, volontari (tra cui anche diversi profughi richiedenti asilo politico) continuano a scavare tra la macerie e ogni minuto che passa il bilancio delle vittime cresce. Sono state organizzate tendopoli e la solidarietà da tutta Italia non è tardata ad arrivare.

I tre paesi citati sopra sono stati praticamente ridotti a un cumulo di macerie e per molti sopravvissuti, la paura è quella di trovarsi in una situazione uguale se non peggiore a quella successiva al terremoto dell’Aquila del 2009.

In realtà, non è un caso se i terremoti più devastanti degli ultimi decenni hanno colpito proprio la zona appenninica: l’Italia, per la sua parte peninsulare, è situata al margine di convergenza tra la placca africana e la placca euroasiatica. Il movimento tra queste due placche ha provocato diverse faglie (cioè fratture) in silenzio per secoli ma riattivate negli ultimi 30 anni, a partire dal terremoto dell’Irpinia del 1980. Dopo il 2009, diverse squadre di ricercatori hanno ripreso a studiare i movimenti delle faglie appenniniche, con carotaggi che arrivano fino a 150 metri di profondità e nei fatti la pericolosità di queste “fratture riattivate” era già stata confermata. Geologicamente parlando, il fenomeno in corso è quello dell’allargamento dell’Appennino: la parte della penisola esposta a est, spinge verso sud-est, al contrario, quella esposta a ovest spinge verso nord-ovest, provocando in questo modo una distensione della catena montuosa misurabile, secondo l’Istituto nazionale di fisica e vulcanologia, in 5 millimetri l’anno e che potrebbe arrivare a 1 metro in 200 anni. Questo fenomeno ha provocato terremoti spesso devastanti: Irpinia 1980, Umbria 1997, Aquila 2009, Emilia 2012 e quest’ultimo solo per citare i casi più eclatanti.

E in effetti, osservando le mappe del rischio sismico in Italia, tutto ciò è confermato: l’area con la percentuale di rischio più elevato si estende dall’Appennino tosco-emiliano fino all’Aspromonte, per poi diminuire man mano che ci si avvicina alle zone costiere tirreniche e adriatiche.

Sapendo questo, prevenire è sempre meglio che curare. Parole ovvie, dette così. Ma nei fatti, nulla di concreto è stato ancora fatto. I governi che si sono succeduti fin dal dopoguerra si sono spesi in parole, cordoglio, rassicurazioni, ma i numeri parlano chiaro. La cifra stanziata per la prevenzione del rischio sismico e per i lavori del dopo calamità, è semplicemente ridicola. Dal 1960 a oggi sono stati spesi 150 miliardi di euro per interventi nei luoghi colpiti dai terremoti. Dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 sono stati stanziati 950 milioni di euro per la prevenzione del rischio sismico, ma di questi, ad oggi, se ne sono visti solo 180, utilizzati per lo più per la messa in sicurezza di edifici pubblici; di questi, 120 milioni dovevano servire solo per le scuole, ma realmente spesi sono solo 36 (fonte: La Repubblica, 26 agosto). In pratica: su un territorio i cui tre quarti è a elevato rischio idrogeologico, lo Stato stanzia solo l’1% della propria spesa pubblica in lavori di prevenzione e ammodernamento e in diverse regioni, in primis la Sicilia, i fondi sono bloccati. Sostanzialmente, oltre alle briciole, pure la beffa.

Il 40% della popolazione italiana vive in 4,7 milioni di edifici a elevato rischio sismico e di questi, 2,1 milioni sono stati realizzati prima del 1971, quando le norme antisismiche per l’edilizia ancora non esistevano. Ora la legge per la messa in sicurezza degli edifici esiste, certo. Peccato che questa esclude da qualsiasi finanziamento le seconde case. Considerando che l’Appennino è in molte zone poco popolato per la maggior parte dell’anno solare, a causa della mancanza di servizi e di lavoro che ha portato diverse centinaia di persone a spostarsi verso le coste o verso le città principali, e che torna a “vivere” nei mesi estivi grazie al turismo che coinvolge per lo più gente che torna semplicemente a casa, significa che più della metà di questi edifici non sono coinvolti dai finanziamenti. Nel caso di Amatrice, dove si contano i danni maggiori, circa il 70%.

La paura di ritrovarsi in una situazione come quella de L’Aquila incombe: dopo 7 anni si ha l’impressione che ancora nulla sia stato concretamente fatto, dato che il centro storico è ancora devastato e i lavori sembrano essere fermi agli scavi tra le macerie.

Non sono fatalità, queste tragedie. Sono la diretta conseguenza delle azioni di una classe dominante incapace di guardare ai bisogni reali della popolazione e dell’ambiente, che preferisce sperperare miliardi in opere rischiose quanto inutili e che vanno a gonfiare le tasche di qualche privato che vince gli appalti, piuttosto che investire su una riqualificazione seria degli edifici pubblici, come le scuole che sono le prime a crollare, con le travi come nel caso di Amatrice, di sabbia e polistirolo!

L’emergenza terremoto è per la classe capitalista un modo come un altro per fare profitti.

Sono ancora fresche nella memoria le risate che diversi imprenditori si sono fatte pochi giorni dopo il terremoto che ha sconvolto l’Aquila nel 2009, sfregandosi le mani pensando alla enorme quantità di profitti che avrebbero potuto fare accaparrandosi i lavori.

Lo scorso 26 agosto il ministro delle infrastrutture Delrio intervistato da Bruno Vespa ci ha messo il carico da undici, dichiarando che l’Italia dovrebbe approfittare di questa situazione, poiché con i lavori di ristrutturazione si creano posti di lavoro, l’economia tornerebbe a girare nel modo giusto e il tanto disastrato Pil italiano potrebbe finalmente crescere. Quel che per la povera gente è una tragedia, per lorsignori è fonte di ricchezza!

Se questa è la ricetta del governo per far ripartire l’economia del paese, cioè lucrare sulle disgrazie e su chi ha perso la vita, davvero non ci stiamo.

Le parole di cordoglio spese in questi giorni dalla classe dominante italiana hanno il sapore di aria fritta, soprattutto se, al diluvio di parole seguiranno appalti a pioggia alle aziende private.

Nuove denunce per gare d’appalto truccate saranno probabilmente all’ordine del giorno dei prossimi mesi, come era successo già nel 2009, quando abbiamo contato decine di arresti e denunce a causa di “mazzette” e telefonate tra amministratori e imprese con l’obiettivo di aggiudicarsi i lavori. E dato che molti di questi denari arrivavano da fondi pubblici stanziati ad hoc e che poi sono stati riciclati ad aziende private proprio dalle stesse persone che avevano creato il fondo post emergenza, il fatto è ancora più grave. Se su 950 milioni stanziati post L’Aquila se ne visti e utilizzati solo 120, i conti sono presto fatti, su come siano stati spesi (regalati?) questi soldi e a chi.

Dai primi scavi e rilevamenti si è subito notato come la gran parte degli edifici crollati non era costruito neanche con il cemento armato. La riflessione che viene da fare è che, probabilmente, gare di appalti al ribasso vinte perché si costruisce con pochi euro e quindi con materiali scadenti (per la serie poca spesa, tanta resa per il padrone) causano molte più vittime dei fenomeni naturali.

Dobbiamo contrapporre a tutto questo marciume la solidarietà sana che stanno esprimendo tanti giovani lavoratori, italiani e immigrati, fin dalle prime ore dopo il terremoto.

Solidarietà che deve essere organizzata, perché la ricostruzione sia gestita e controllata dalle popolazioni colpite, attraverso appositi comitati, dotate di un programma che sovverta le logiche di profitto che hanno dominato fino ad oggi.

Solidarietà, infine, che è necessario trasformare in rabbia e lotta contro questo sistema e la sua classe dominante, che mette il profitto davanti a ogni cosa, perfino alla vita umana.

“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze. (…) Gli italiani della regione alpina, nel consumare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord, non presentivano affatto che, così facendo, scavavano la fossa all’industria pastorizia sul loro territorio; e ancor meno immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell’anno quell’acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l’epoca delle piogge. (…) Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato”

Friedrich Engels, Dialettica della natura, 1883

28 agosto 2016

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