Sudan: la marcia dei milioni e la frusta della reazione, le masse devono contrattaccare!

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Sudan: la marcia dei milioni e la frusta della reazione, le masse devono contrattaccare!

Lo scorso 30 ottobre in Sudan quattro milioni di persone sono scese in piazza per la manifestazione nazionale contro il colpo di Stato militare di lunedì (25 ottobre, NdT). Nel frattempo uno sciopero generale bloccava il Paese grazie alla solidarietà di decine di sindacati e organizzazioni professionali. La controrivoluzione ha risposto con la violenza più cruda, causando pesanti perdite e costringendo le masse alla ritirata. Ora la rivoluzione sudanese è davanti a un bivio decisivo. O passerà all’offensiva o potrebbe subire una sanguinosa sconfitta. Non si può chiedere tregua, né verrà concessa.

Il sabato si è aperto nell’euforia generale. Le masse organizzate, rappresentate dai comitati di resistenza di quartiere, hanno lavorato senza sosta – nonostante il persistente blackout mediatico e la brutale repressione da parte delle forze di sicurezza – per costruire la “marcia dei milioni” svoltasi ieri. Gli esiti hanno superato tutte le aspettative.

I video trapelati dal Sudan nelle brevi finestre in cui è stato possibile connettersi a internet durante la giornata mostravano gigantesche colonne di persone per le strade che lanciavano slogan rivoluzionari, sventolavano bandiere e rivendicavano un governo civile. I limiti della copertura mediatica impediscono di calcolare l’estensione e il respiro effettivi delle manifestazioni, ma si sono viste manifestazioni oceaniche a Khartoum, Bahri, Omdurman, Zalingei, Nyala, El Obeid, Port Sudan, Kassala, Gedarif, Arbaji, Ibri, Dongola, Al-Nahud, Medani e Kosti. Si sono inoltre svolte grandi proteste di solidarietà internazionale in 50 città del mondo, fra cui Washington, Ottawa, Perth, Parigi e Londra.

 

La repressione

Malgrado la sua forza, il movimento rivoluzionario ha una grande debolezza. L’Associazione dei professionisti sudanesi (Aps nella sigla inglese) che lo guida ha insistito per la “disobbedienza civile pacifica”, anche davanti alla repressione più brutale. Questo appello ha visto la risposta dei comitati di resistenza di quartiere e rimane popolare sulla piazza, dove uno degli slogan più lanciati è “pacifico” (con riferimento alla natura delle proteste).

Lo stesso approccio era stato adottato dall’Aps durante la rivoluzione del 2019. Persino mentre si stavano consumando i massacri delle milizie reazionarie tribali janjawid a Khartoum durante il terrore del giugno 2019, l’Aps ha continuato a chiedere “proteste pacifiche” e la “pressione dalla comunità internazionale” – in altre parole, contava sull’appoggio delle nazioni imperialiste e di istituzioni come l’Onu.

Dobbiamo essere onesti: questa insistenza ingenua sull’uso di metodi non violenti mette a rischio la rivoluzione. Non ci sono limiti alla brutalità ai quali i generali controrivoluzionari si fermeranno pur di difendere il loro potere e privilegi. Ieri lo hanno dimostrato ancora una volta. Non è del tutto chiaro quali forze di sicurezza abbiano preso parte alla repressione della marcia dei milioni, anche se parrebbe accertato il coinvolgimento delle Forze centrali di riserva (Abu Tera) e del Tamazuij (3° Fronte), oltre alla polizia antisommossa. In ogni caso, le Rsf – le milizie janjawid – erano in prima fila. Nel pomeriggio di sabato schiere di miliziani in divisa hanno disperso le manifestazioni a suon di lacrimogeni e proiettili veri, mentre truppe in borghese si infiltravano tra i manifestanti per attaccarli alle spalle. La repressione è stata particolarmente brutale a Khartoum e a Omdurman, da dove arrivano immagini di mezzi corazzati per le strade e soldati che sparano indiscriminatamente sui manifestanti disarmati, i quali hanno potuto reagire solo fuggendo o lanciando pietre.

Il numero esatto delle vittime è impossibile da calcolare, ma ieri sono state uccise almeno tre persone, portando a 13 il numero totale dei morti dal golpe, con oltre 100 feriti soltanto sabato, il che comporta che il numero delle vittime aumenterà in modo drammatico. L’Unione centrale dei medici sudanesi ha lanciato appelli disperati per trovare donatori di sangue e rifornimenti medici. Si è parlato di attacchi contro gli ospedali da parte delle Rsf. A quanto pare hanno tentato di prendere d’assalto il Royal Care Hospital a Khartoum, sostenuti da pezzi di artiglieria pesante, per arrestare i manifestanti feriti che erano ricoverati lì.

Gli attivisti con ruoli dirigenti nei comitati di resistenza sono nel bersaglio delle milizie. A Al-Gineina, Darfur centrale, si parla di quattro arresti. Il comitato locale di Riyadh riferisce che a un attivista è stata tesa un’imboscata fuori dalla propria abitazione nel giorno del golpe. “Pensiamo abbiano tracciato il suo telefono. Hanno aspettato che uscisse di casa e l’hanno arrestato… lo hanno pestato, hanno puntato le pistole contro i suoi genitori e gli hanno detto di restare in casa o avrebbero sparato a tutti e tre. Non sappiamo ancora che ne è stato di lui”, ha detto un manifestante.

La maggior parte dei detenuti arrestati questa settimana sono stati portati in luoghi sconosciuti. Manifestati, attivisti e giornalisti erano sottoposti a trattamenti brutali da parte del regime di Al-Bashir: arrestati, venivano portati in quelle che sono diventate note come “case fantasma”. I metodi di tortura comprendevano, tra gli altri, essere costretti a restare in piedi per giorni, essere chiusi nei congelatori, e waterboarding (annegamenti simulati). Questi arresti sono parte di una strategia sistematica volta a indebolire i comitati di resistenza. Sono due anni che vengono denunciate scomparse di attivisti. Il più famoso è Mohamed Abubaker Wad Akr, scomparso il 4 aprile, il cui corpo è stato ritrovato mesi dopo. Ora questi metodi repressivi si stanno intensificando.

Nel frattempo, l’esercito ha condotto una campagna di disinformazione tramite i media di Stato (che si trovano nelle loro mani), negando che le truppe stavano usando proiettili veri, diffamando i manifestanti come teppisti violenti, inventandosi spari sui poliziotti e arrivando persino a insinuare che i manifestanti “non erano cittadini sudanesi”. A Omdurman la famiglia di un ragazzo ucciso dalle Rsf è andata all’obitorio per recuperarne il corpo solo per scoprire che la causa ufficiale della morte era stata attribuita al COVID-19! La controrivoluzione sta cercando di cancellare le proprie tracce.

 

Bancarotta del pacifismo

Con l’aumento dei morti e l’iniziativa in mano alla controrivoluzione, i comitati di resistenza di quartiere hanno chiesto ai manifestanti di ripiegare in casa e barricarsi all’interno delle proprie comunità. Ma anche adesso, dopo l’ennesima violenza repressiva, un comunicato dell’Aps, pur condannando il bagno di sangue provocato dall’esercito, ha continuato ad appellarsi alla “resistenza pacifica, occupazione delle strade… e disobbedienza civile di massa”. I dirigenti si sono inoltre rivolti alla “comunità internazionale” perché appoggi la protesta. Shaheen al Shaheef, membro del Comitato di resistenza di Khartoum, ha detto alla BBC: “La gente qui è pacifica. Queste proteste resteranno pacifiche anche davanti ai fucili”.

Questa non è una strategia per la pace, ma una ricetta per la sconfitta e per avere ancora più morti. Se le masse non sono pronte a difendersi, armi in pugno, verranno semplicemente schiacciate. La controrivoluzione è assolutamente disposta a restaurare la vecchia dittatura militare su un cumulo di ossa. L’unica via per sconfiggere il golpe una volta per tutte e impedire ulteriori massacri è costituire immediatamente comitati di autodifesa, addestrare e armare le masse, e lanciare il prima possibile un appello generale per conquistare alla causa chi tra i ranghi dell’esercito simpatizza per la rivoluzione. Questo è l’unico modo per sconfiggere i militari.

A quanto pare il generale Burhan, a capo del golpe, sta facendo affidamento soprattutto sul settore più reazionario delle forze di sicurezza per facilitare la repressione. Nel 2019 si registrava parecchia simpatia per la rivoluzione dai ranghi dei soldati comuni. L’Aps non fu disposta a fare agitazione fra le truppe perché sapeva che ciò avrebbe portato a uno scontro armato coi generali.

L’élite dominante sudanese non rinuncerà al potere senza colpo ferire. Confinare la rivoluzione alle proteste di piazza e a scioperi generali limitati non fa che incoraggiare la controrivoluzione, demoralizzando al contempo le masse rivoluzionarie.

Dobbiamo liberarci immediatamente di tutte queste paure. Un appello generale deve raggiungere i soldati di leva – che altro non sono che comuni lavoratori e contadini – evidenziando le brutalità a cui i loro fratelli e sorelle di classe sono sottoposti per mano delle Rsf e spronandole ad ammutinarsi, per poi unirsi, sostenere, addestrare e armare il popolo rivoluzionario. Non dimentichiamo che, durante l’occupazione del quartier generale militare nel 2019, alcuni soldati difesero le masse dai proiettili delle Rsf. Rientra tra le responsabilità dei dirigenti della rivoluzione spiegare la necessità di tali misure e disperdere ogni illusione riguardo la disobbedienza civile non violenta. Rifiutarsi di farlo sarebbe un atto di irresponsabilità criminale da parte dell’Aps e dei capi dei comitati di resistenza, ed equivarrebbe a condannare la Rivoluzione sudanese al massacro.

Che dire della “comunità internazionale”? I briganti imperialisti hanno annunciato sanzioni e condanne del golpe militare, ma il loro sostegno finisce qui. Anzi, sappiamo che emissari Usa erano in Sudan poco prima del colpo di Stato: probabilmente sapevano che sarebbe avvenuto e non hanno mosso un dito per evitarlo. Volker Perthes, rappresentante del Segretario generale dell’Onu per il Sudan, oggi ha commentato su Twitter che si stava confrontando con il destituito primo ministro civile Hamdok riguardo possibili “opzioni di mediazione e il futuro del Sudan”. Ha inoltre assicurato che “continuerà questi sforzi insieme con gli altri investitori presenti in Sudan”. In altre parole gli imperialisti stanno cercando di mettere insieme (nel migliore dei casi) un altro “compromesso” marcio con i militari. Ma come abbiamo visto, questi vecchi elementi del regime di Al Bashir non hanno alcuna intenzione di tollerare un governo civile.

Nonostante tutte le loro chiacchiere e la loro ipocrisia sul “rispetto per la democrazia”, gli imperialisti criminali sono stati in ultima analisi responsabili per anni dello strangolamento economico del Sudan, principalmente attraverso il debito estero. Hanno tenuto il Paese in uno stato artificiale di arretratezza e creato le condizioni che hanno facilitato proprio la dittatura militare di Al-Bashir, rovesciata solo grazie alla forza delle masse stesse. La rivoluzione non ha alleati.

 

Sangue chiama sangue

Ci sono segnali che gli eventi di ieri stanno cominciando a far presa tra settori delle masse. Un manifestante ha risposto così al tweet di Perthes: “Nessuna mediazione dopo quello che i delinquenti militari hanno fatto al popolo. Ora siamo ancor più consapevoli di prima delle loro intenzioni. Quello che ci serve davvero è la loro cacciata dal potere e un governo composto totalmente da civili. Ecco la richiesta del popolo”.

Allo stesso modo, una donna anziana di Khartoum, il cui figlio è stato ucciso nel corso della settimana, è stata ripresa mentre passava direttamente dal funerale alle proteste di sabato, dichiarando: “sangue chiama sangue, non accetterò compensazioni”. Questo slogan della rivoluzione del 2019, che si riferisce al prezzo di sangue che secondo la legge islamica può essere pagata alla famiglia di una persona uccisa, dimostra la volontà di combattere il golpe fino alla fine, respingendo tutti i compromessi.

Le masse ieri hanno inoltre dimostrato un immenso coraggio e una crescente volontà di rispondere colpo su colpo. Le masse hanno costretto i militari a ritirarsi sul ponte di Al Mansheiya a Khartoum, armate appena con bastoni e mani nude.

L’Aps ha mostrato segni di una linea più dura dopo la brutale repressione di sabato. Nel comunicato di ieri sera ha illustrato i seguenti obiettivi:

  1. Rovesciamento del golpe orchestrato dal consiglio militare e consegna di tutti i suoi membri a un tribunale per processi equi e immediati per i crimini commessi contro il popolo sudanese;
  2. Nessun negoziato con i criminali, nessun ritorno all’accordo violato: consegna immediata del potere a un governo totalmente civile scelto dalle forze rivoluzionarie, i cui elementi credano nel cambiamento radicale e nell’adempimento degli obiettivi della rivoluzione di dicembre;
  3. Liquidazione dei servizi nazionali di intelligence e sicurezza e scioglimento delle milizie tramite disarmo e smobilitazione. Costruzione di un esercito nazionale di professione basato su princìpi di protezione del popolo e dei confini sotto il comando dell’autorità civile;
  4. Passaggio di tutti i reggimenti delle forze militari e di sicurezza sotto l’autorità del governo civile; fine delle ingerenze di queste forze nelle attività economiche e di mercato;
  5. Cessazione dell’intervento negli affari politici [del Sudan] da parte di forze regionali e internazionali contrarie al nostro popolo e alle sue aspirazioni.

Queste rivendicazioni sono un passo avanti, segnalano che l’Aps sta subendo la pressione degli eventi, ma non sono sufficienti, e non verranno certo raggiunte con i metodi fallimentari della disobbedienza civile non violenta. Se c’è pace nel futuro delle masse sudanesi, questa verrà conquistata solo difendendo la rivoluzione con ogni mezzo necessario.

Anche se la controrivoluzione ieri ha segnato una vittoria, la lotta non è finita. Tutti i sindacati hanno comunicato che lo sciopero generale resta valido. Le masse oggi erano nuovamente in piazza. E sono sempre più furiose. Si potrebbe arrivare a un punto in cui rifiuteranno il pacifismo imbelle e faranno pressione sui comitati di resistenza e sull’Aps per rispondere alla forza della controrivoluzione con la forza. Ciò non deve avvenire in modo disorganizzato ma sulla base dell’elaborazione e del coordinamento dei comitati di resistenza. Le organizzazioni dei lavoratori devono essere pienamente integrate in questi organismi, che devono diventare l’embrione del potere operaio e contadino. Si devono rivolgere appelli e inviare delegazioni a fraternizzare con i soldati di truppa e predisporre i preparativi per uno scontro finale che abbatta il golpe di questi militari sanguinari.

Infine, i comitati di resistenza devono coordinarsi in tutto il Paese e sviluppare un programma per l’esproprio dei generali, dei capitalisti controrivoluzionari e di tutto ciò che rimane del regime di Bashir. Con queste risorse nelle mani delle masse, finalmente si potrà applicare un vasto programma di riforme economiche e sociali che mettano in sicurezza il governo democratico e civile voluto dalle masse. Si potrebbero così gettare le fondamenta di un regime operaio e contadino e del socialismo. Ma perché tutto ciò diventi possibile, è necessario mandare al macero la strategia fallimentare della “protesta pacifica”. Il destino della rivoluzione dipende da questo.

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