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Sudan: Al-Bashir è caduto, la lotta continua!

I rivolgimenti di questi giorni in Sudan si susseguono con rapidità: dopo quattro mesi di proteste, l’11 aprile i sudanesi hanno ottenuto la destituzione di Omar al-Bashir ed il suo arresto assieme a quello di 150 personalità macchiatesi di crimini contro l’umanità. Nonostante la felicità per aver cacciato via il dittatore, che dal 1989 ha governato con un’autocrazia islamista basata sul terrore, le punizioni corporali e che si è macchiato della morte di 300.000 persone nella crisi in Darfur, i sudanesi hanno continuato ad affollare le strade e a presidiare i palazzi dell’esercito per respingere il colpo di stato militare che è stato attuato la mattina dell’11.

Dopo le proteste incessanti della notte fra il 12 e il 13 aprile, anche il nuovo dittatore militare, Ibn Auf, si è dovuto dimettere a poco più di ventiquattr’ore dalla sua entrata in carica. Ibn Auf, ex ministro della Difesa di al-Bashir, l’11 aveva proclamato un regime di transizione guidato dai militari che sarebbe durato due anni, lo stato di emergenza con coprifuoco dalle 22 alle 4 del mattino, il blocco per un mese degli aeroporti, sospensione della costituzione, lo scioglimento di tutti gli organi di governo nazionali e federali. I sudanesi non hanno accettato di venire derubati della loro rivoluzione ed hanno continuato la protesta. Adesso, la giunta militare che ha attuato il colpo di stato sembra già in crisi e la popolazione continua ad affollare le strade chiedendo un governo formato da civili.

Le proteste vanno avanti da dicembre, a seguito dell’eliminazione dei sussidi al grano e alla farina, dopo che nel 2018 il paese ha vissuto una terribile situazione economica, in cui l’ inflazione reale è arrivata al 122%. I problemi economici sono nati dalla crisi del prezzo del petrolio (2014-2016), da cui il paese è profondamente dipendente, e quindi dall’opportunità che hanno visto gli USA per conquistare il Sudan sotto la propria sfera di influenza imperialista. A dicembre 2017, gli Stati Uniti hanno eliminato parte delle sanzioni che avevano imposto al paese, a condizione che si sottoponesse alle istruzioni del Fondo Monetario internazionale per ristrutturare la sua economia. Il mantra della liberalizzazione dell’FMI, come al solito, ha peggiorato le cose: prima ha creato una crescita vertiginosa dei prezzi e poi ha richiesto l’eliminazione dei sussidi per il grano e la farina. Ne è seguito un drastico aumento del prezzo del pane e dei generi di prima necessità1, in un paese in cui il 33% dei bambini già soffriva di malnutrizione (2014) e il 70% della forza lavoro è occupata nel settore agricolo2.

Il movimento è nato il 19 dicembre nella città di Atbara, nel Nordest del paese, dove i manifestanti hanno dato fuoco alla sede del partito di al-Bashir, il National Congress Party. Nonostante la stretta securitaria del regime militare, che durante queste proteste ha portato alla morte, si stima, di almeno 100 persone, il movimento è divampato nei maggiori centri urbani fino ad arrivare a Khartoum. In questi mesi, i sudanesi hanno vissuto centinaia di arresti di studenti, accademici, avvocati, giornalisti, leader di opposizione ed attivisti per i diritti umani, che sono spariti nel nulla o sono stati tenuti segregati in case abbandonate, subendo violenza fisica, senza poter vedere familiari né ottenere assistenza medica; il NISS, la strapotente polizia politica di al-Bashir, applica già da molti anni queste pratiche prevalentemente su giovani donne, studenti che manifestano pacificamente e oppositori che vengano dal Darfur.

13 aprile – Le masse in piazza a Khartoum

Il 22 febbraio, il governo ha dichiarato lo stato di emergenza ed ha chiuso scuole ed università, disattivando internet e restringendo l’accesso a whatsapp per evitare che i manifestanti si organizzassero. Nulla è servito: le proteste sono continuate, sempre più affollate, finché ad aprile sono diventate quotidiane. Per questo motivo, l’11 le Sudanese Armed Forces (SAF) sono entrate a Khartoum, ed hanno messo in atto il colpo di stato che avrebbe dovuto evitare la rivoluzione sociale.

Le Sudanese Armed Forces sono intervenute assieme alle Rapid Support Forces, una milizia che si è macchiata di crimini estremamente gravi in Darfur e che è specializzata nel contenimento dei flussi migratori. I loro generali non sono i paladini del popolo. D’altra parte, non lo sono neanche gli agenti del NISS, che pare stesse organizzando a sua volta un colpo di stato con il National Congress Party per dare un nuovo volto alla burocrazia islamista al potere. Ma le RSF e la SAF hanno agito prima, allo scopo di camuffare il regime militare con un rimescolamento che però avrebbe anche portato al potere la loro fazione. È chiaro che l’esercito ha tentato di usare l’euforia scatenata dalle dimissioni di al-Bashir e dalla liberazione dei numerosi prigionieri politici per prendere il potere e mantenere lo status quo.

Il NISS e gli islamisti del National Congress Party non sono infatti usciti subito di scena e hanno cercato di accordarsi con chi ha agito prima di loro: Ibn Auf, il generale dimissionario, è molto legato agli ambienti islamisti radicali. Adesso il nuovo leader del Sudan diventa un militare non islamista, il generale al-Burhan, che in queste ore tenta il dialogo con le forze democratiche. Al-Burhan ha dovuto assumere toni più concilianti di Ibn Auf ed ha rilasciato immediatamente i prigionieri politici, dopo aver sollevato il coprifuoco dichiarato meno di due giorni prima. Il fatto che le proteste continuino, sta portando il fronte dell’esercito golpista a fare sempre più concessioni, mentre si frammenta dall’interno: il direttore del NISS, Salah Gosh si è dovuto dimettere dalla giunta il pomeriggio del 13 aprile, mentre il leader delle Rapid Support Forces, Hemetti, già si dissocia dal nuovo governo. Stiamo parlando di personaggi al potere da anni, che hanno esercitato un diritto di vita e di morte sugli oppositori politici e che in ventiquattr’ore sono stati scacciati.

Al-Burhan, in queste ore, sta discutendo con l’opposizione, e con i gruppi ribelli presenti da anni sul territorio, l’opzione di farli entrare nel Governo Militare di Transizione. Dunque anche l’opposizione che manca di un programma comune, ora viene divisa dal tono conciliante di Al-Burhan, e sta decidendo se continuare con la linea “dura” contro i militari, o associarsi ad essi al governo. Il movimento non è omogeneo e non ha una piattaforma comune di rivendicazioni, ma quella che emerge come organizzatrice della maggioranza delle proteste è l’associazione dei professionisti sudanesi, la SPA, che si pronuncia per la costituzione di un Governo di Transizione Civile, dunque di unità nazionale. Le sue rivendicazioni sono anche quelle di una ristrutturazione delle forze di sicurezza sudanesi e che coloro che si sono macchiati di crimini contro l’umanità vengano puniti. Fino a che queste non saranno esaudite, la SPA esorta i manifestanti a rimanere nelle strade, per continuare a fare pressione alla giunta. Le rivendicazioni dell’SPA sono quelle della Dichiarazione per la Libertà e il Cambiamento, carta che la ha firmato insieme all’unione (di una parte) dei partiti di opposizione, la National Consensus Forces, di cui dal 2010 fa parte il Partito Comunista Sudanese, insieme agli islamisti “moderati” dell’Umma party ed il Partito Popolare del Congresso. Nessuno di questi partiti, né tantomeno il Partito Comunista, è stato capace di giocare un ruolo attivo e indipendente dagli altri nel movimento, né per la creazione di comitati di sciopero, né per costruzione di un’alternativa politica ad al-Bashir.

Bisogna imparare dall’esperienza del Partito Comunista Sudanese, che è stato uno dei più grandi del mondo arabo e che non è mai riuscito a proporre un programma indipendente per la classe lavoratrice: nel 1964 e nel 1969, ha supportato colpi di stato militari che “rappresentavano tutti gli elementi della società sudanese”. Il risultato è stato, nel 1971, un tentativo di abbattere quello stesso regime che avevano sostenuto, cosa che ha portato all’incarceramento e l’uccisione di centinaia di comunisti da parte del dittatore militare Jafaar Nimeiri. La mancanza di una politica indipendente della classe operaia portò i comunisti ad appoggiare quel regime militare, che all’inizio si proclamava di tutto il “popolo sudanese” e accettava gli aiuti dell’URSS, e che dalla fine degli anni ’70 divenne il veicolo degli interessi americani e sauditi sul territorio, fino ad essere il primo ad inserire la Sharia nella Costituzione (1983). Tutto questo gettò in crisi il Partito Comunista, mentre il Sudan visse fino all’85 la dittatura di Nimeiri, per poi avere tre anni di democrazia e nuovamente una dittatura militare il cui leader, dal 1989, è caduto tre giorni fa.

Oggi, l’appello ad un governo di Unità Nazionale, soprattutto se militare-civile, nasconde le insidie di un governo debolissimo e frammentato, che si abbandoni con facilità alle pressioni delle élite militari e della borghesia non appena le acque si saranno calmate. Lo stesso leader dell’Umma Party, Sadiq al-Mahdi, dopo che il generale Nimeiri fu rovesciato, divenne Primo Ministro del Sudan dall’86 all’89 con un analogo governo di coalizione, cosa che ha creato le condizioni per il ritorno al potere dei militari solo tre anni dopo. Già allora, il suo governo non è stato capace di rompere con gli interessi del capitale internazionale e delle banche islamiche saudite nel paese, né di eliminare la Sharia come fonte del diritto, cosa per cui lo stesso al-Mahdi alla fine ha dovuto reprimere nel sangue i sud sudanesi3, in continuità con quello che prima di lui faceva Nimeiri. Riproporre un governo del genere, soprattutto in una situazione in cui l’opposizione non ha nessuna rivendicazione di rottura reale con il sistema, ma si pone solo il problema di “chi” è al potere, vuol dire mantenere la struttura economica che ha portato l’economia sudanese al collasso: dipendenza dagli investimenti stranieri di Cina, Arabia Saudita e Qatar, debito estero elevatissimo, esproprio dei terreni agricoli e liberalizzazioni. Se non cambierà, la dinamica politica dell’opposizione può creare solo un governo di transizione molto debole, che apra la strada ad una nuova dittatura militare domani.

Comunque, ampi settori della classe operaia si stanno mobilitando: non è un caso che le proteste siano nate ad Atbara, la città che ospita la base nazionale del sindacato dei ferrovieri, il più grande del Sudan. Il 10 marzo l’Alleanza per la Rinascita di Sindacati Sudanesi ha annunciato che stava entrando nelle proteste per rovesciare al-Bashir, e ha chiamato i lavoratori di quei sindacati che sono stati smantellati dal regime a mobilitarsi con loro. Il comunicato sottolineava gli enormi attacchi portati avanti da quel governo ai diritti dei lavoratori, le privatizzazioni, l’incremento dei prezzi e i tagli a maternità e malattia. Per affrontare questi problemi, è necessario un governo di lavoratori basato sulla democrazia operaia nelle città e nei posti di lavoro, che si allei ai contadini poveri. Solo dal 2004 al 2014 i contadini sudanesi hanno visto sparire quattro milioni di ettari di terreno, più di tutti i paesi del mondo arabo, nelle mani di investitori privati.

Serve un governo che operi le sue scelte economiche sulla base dei bisogni anziché dei profitti e che rompa con il debito e con l’imperialismo, che quindi possa espropriare e redistribuire i terreni che sono stati confiscati alle comunità rurali dalle multinazionali saudite e cinesi e dare pace e pane alla gente comune. Un programma del genere non può che essere socialista. Per ora vediamo come il popolo sudanese, sul piede di guerra, ottiene in pochi giorni più di quanto abbiano fatto trent’anni di critiche e denunce umanitarie della dittatura di al-Bashir, da parte di quei governi che hanno giocato a rovesciarlo (per eventualmente mettere al suo posto un loro pupazzo) o a sostenerlo quando più gli era comodo.

È chiaro a chi appartiene la vera forza che può cambiare la società: massima solidarietà ai lavoratori sudanesi!

 

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Note:

1)ACAPS Briefing note: Economic Crisis, Sudan, 13 feb 2019, Assessment Capacities Porject Switzerland

2)CIA World Factbook

3)M.A. Mohamed Salih and Sharif Harir, “Tribal Militias, The Genesis of National Disintegration” inside Terje Tvedt, Raphael K. Badal, “Short-cut to Decay: The Case of the Sudan”, Nordic Africa Institute, 1994

 

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