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Solo la lotta di classe può portare il cambiamento!

La politica economica del governo è ancora completamente avvolta nella nebbia. In attesa di atti ufficiali (l’aggiornamento al documento di economia e finanza e la presentazione della legge di bilancio) si rincorrono le voci, più o meno interessate, sui capitoli più importanti.

La confusione non deriva, come dicono gli sconfitti del 4 marzo Pd e Forza Italia, prevalentemente dalla “incompetenza” del governo. È invece il frutto di un dato politico fondamentale: il governo giallo-verde è fermamente intenzionato a fare una manovra che non tocchi gli interessi consolidati.

Non a caso sia Conte che Tria hanno chiarito al forum di Cernobbio, annuale raduno del padronato italiano, che non faranno fughe in avanti, che non si sforerà il deficit, che i “mercati” (pseudonimo del capitale finanziario) verranno tranquillizzati, che non ci saranno nazionalizzazioni e che insomma sono tutti bravi ragazzi e si comporteranno bene.

Di conseguenza il promesso “cambiamento” non arriva, e non arriverà.

Nulla può cambiare se non si è disposti ad attaccare e a scontrarsi duramente con i responsabili dell’attuale situazione, che non sono solo i partiti sconfitti alle elezioni, ma sono gli interessi del capitale di cui sono servitori.

Non si può migliorare la condizione dei poveri se non si è disposti ad attaccare la ricchezza; non si combatte lo sfruttamento se non si combattono gli sfruttatori; non si difendono i lavoratori se non si lotta contro la borghesia.

Le anticipazioni fin qui trapelate sui principali provvedimenti lo dimostrano.

 

Il reddito di cittadinanza

I giornali borghesi dicono che la proposta è stata ridimensionata a 300 euro, Di Maio ribadisce che saranno 780. Si litiga anche su quanto sarà larga la platea dei potenziali beneficiari. In attesa di chiarimenti, la domanda importante è: come verrà finanziato? Anche le proposte più ridotte implicano esborsi notevoli, diciamo dai 5 ai 17 miliardi all’anno. Dove trovarli? Le ipotesi sono: fondi europei, assorbimento del reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, assorbimento parziale o totale degli 80 euro di Renzi, assorbimento parziale della Naspi, ossia dell’indennità attualmente in vigore per chi perde il lavoro.

Al di là di come verranno composte le cifre, è evidente che si tratta di una partita di giro: soldi che bene o male già erano destinati ai lavoratori più poveri o ai disoccupati, che cambiano semplicemente voce in bilancio. Nel migliore dei casi verrà magari aggiunto un altro paio di miliardi per finanziare la riforma dei centri per l’impiego, dove, testuali parole del ministro Di Maio, il disoccupato deve trovare un addetto che “gli sorride e gli stringe la mano”. Che gli trovi un lavoro, specie in certe aree del Paese, è tutt’altra questione.

 

Fisco e pensioni

Come è noto la flat tax è un provvedimento che avvantaggia i redditi alti, in quanto riduce le imposte dirette per le fasce ricche. Questo in accordo alla teoria del noto economista Matteo Salvini secondo il quale “i ricchi spendono” (non lo sfiora il dubbio che i poveri in proporzione spendono di più, dovendo soddisfare bisogni basilari). Ad ogni modo il ministro Tria propone di partire dall’aliquota più bassa, portandola dal 23 al 22 per cento, provvedimento che beneficerebbe tutti. Ottimo. E le famose coperture? Tria ha chiarito che si può coprire la spesa riducendo o abolendo le “tax expenditures”, le quali per farci capire sono le detrazioni fiscali, che effettivamente sono una giungla.

Peccato però che le detrazioni vadano quasi sempre a beneficio dei redditi bassi o medio bassi. Anche qui pertanto si fa un bel gioco delle tre carte per redistribuire la miseria sempre fra gli stessi.

Ancora più nebulose le proposte sulle pensioni: criteri, rendimenti, coperture. La “quota 100” (somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva) verrà pesantemente annacquata sia mantenendo un’età minima di 64 anni (Salvini chiede 62) per andare in pensione, sia probabilmente andando a ridurre ulteriormente i rendimenti e usando quei criteri selettivi più utili alle aziende che devono ristrutturare e che non sanno cosa farsene degli ultra sessantenni nei reparti.

Con la “pace fiscale” poi la Lega cerca il classico scambio con quei settori di piccola e media borghesia che costituiscono uno dei suoi bacini elettorali di riferimento. Lo Stato vanta teoricamente 1.000 miliardi di crediti, ma gran parte sono irrecuperabili (soggetti o aziende falliti, deceduti, ecc.) e quanto più spesso si ripropongono misure di sanatoria, quanto più chi deve pagare tenderà ad aspettare la prossima occasione. La realtà è che i condoni (perché di questo si tratta) perdono forza quanto più vengono ripetuti, e sono decenni che si ripetono. Tria prevede entrate per 3 miliardi, Salvini dice che saranno 20… in ogni caso è una entrata una tantum che certo non può coprire provvedimenti strutturali.

La sostanza è che nel migliore dei casi il governo sposterà alcuni miliardi, diciamo uno 0,5 per cento del Pil, suddividendolo tra i diversi bacini elettorali dei due partiti della maggioranza a seconda dei rapporti di forza che si stabiliranno.

 

Il debito pubblico

Al convegno di Cernobbio Tria ha garantito che non si sforerà il deficit del 3 per cento, spiegando che non ha senso ricavare qualche miliardo in più da spendere in deficit se poi questo va speso in maggiori interessi per l’aumento dello spread. Intanto le tensioni sui mercati di agosto costeranno circa un miliardo in più quest’anno e tra 4 e 4,5 miliardi nel 2019, secondo la Ragioneria generale dello Stato (il Sole 24 ore,
10 settembre). Si potrebbe quindi arrivare a una spesa per interessi sul debito di 68 miliardi nel 2019, con l’aggravante che la prevista crescita del Pil è già stata ritoccata al ribasso.

In sintesi, nel migliore dei casi il debito pubblico calerà di ben lo 0,1 per cento rispetto al Pil. L’obiettivo di portare il rapporto debito/Pil sotto il 124 per cento entro il 2020 appare sempre più chimerico. Non sappiamo se l’Unione europea farà finta di non vedere o se tenterà di imporre un maggiore “rigore” sui conti. Ciò che conta è che questi dati confermano in modo inequivocabile che i margini di manovra del governo sono strettissimi e lo saranno anche in futuro.

 

La questione delle nazionalizzazioni

I casi di Autostrade e Ilva confermano in modo esplosivo che fino a quando i principali gruppi industriali sono in mano privata non saranno garantiti occupazione, salvaguardia ambientale, interesse pubblico. Dopo le sparate di agosto il governo ha già cambiato i toni. Conte dichiara che non ci saranno nazionalizzazioni. È vero che Autostrade è sotto scacco dopo la strage del Ponte Morandi e potrebbero essere costretti a fare un passo indietro, ma concretamente non si vede nulla di chiaro.

In Italia la storia dell’industria di Stato è vecchia di oltre 80 anni, quando il fascismo ricorse all’intervento dello Stato (lo stesso che negli Usa fece Roosevelt col New Deal) per fronteggiare le conseguenze della crisi del 1929. Ma questa storia ha sempre avuto un filo conduttore: socializzare le perdite, privatizzare i profitti. Lo Stato andava bene per rilevare settori in crisi, per costruire infrastrutture troppo onerose per il capitale privato (ferrovie, autostrade, reti), quando poi si trattava di raccogliere i frutti allora si faceva spazio al capitale privato, come è accaduto con i Riva per l’Ilva, i Benetton per Autostrade, i vari capitalisti italiani e stranieri che si sono arricchiti con la svendita di Telecom, Enel, Eni, e via di seguito.

Se anche oggi passasse la posizione di nazionalizzare Autostrade (cosa quantomai dubbia) non abbiamo dubbi che verrebbero concessi lauti indennizzi, tempi lunghi e compensazioni di ogni genere.

Eppure salta agli occhi come la nazionalizzazione sia un passo indispensabile per garantire occupazione, servizi, sicurezza e salvaguardia dell’ambiente.

La vicenda Autostrade ormai è fin troppo chiara, ma anche il caso dell’Ilva lo conferma. Gli impegni della nuova proprietà sono modesti ma soprattutto pressoché impossibili da garantire. Una volta che ArcelorMittal (ricordiamolo: il maggiore gruppo siderurgico al mondo) avrà il controllo dello stabilimento, chi avrà la forza per imporre il rispetto dei limiti delle emissioni o una ristrutturazione assai più costosa che liberi dall’impiego del carbone?

La storia dei Riva lo dimostra, solo il sequestro dell’impianto ha fermato temporaneamente il disastro ambientale, ma in mancanza di una prospettiva di ristrutturazione e riconversione tutto si è risolto con l’attuale passaggio ad ArcelorMittal. Una diversa prospettiva può essere fornita solo da una gestione pubblica, nella quale: 1) i profitti non vadano a ingrassare gli azionisti e le banche ma servano per i necessari investimenti anche sul terreno ambientale, oltre che per garantire salari, diritti e condizioni di sicurezza per i lavoratori dell’impianto; 2) a questo scopo il controllo sia in mano non a un consiglio d’amministrazione nominato dagli azionisti, bensì ai lavoratori stessi attraverso i loro rappresentanti e le loro organizzazioni, affiancati da rappresentanti pubblici del territorio e nazionali che 3) possano avvalersi della collaborazione dei tecnici, della medicina del lavoro, ecc.

L’esempio dell’Ilva, che vale alla lettera anche per Autostrade (in questo caso nella gestione dovrebbero entrare anche rappresentanti dell’utenza) dimostra la differenza tra le nazionalizzazioni borghesi (indennizzo ai proprietari, gestione a manager di Stato che seguono la stessa logica dei privati, prospettiva della successiva nuova privatizzazione) e le nazionalizzazioni che dovrebbe portare avanti un governo che rappresenti davvero gli interessi dei lavoratori e delle classi popolari.

Qualsiasi politica economica realmente alternativa parte necessariamente da un attacco diretto al grande capitale. Se non si attaccano profitto, interesse e rendita il miglioramento delle condizioni delle masse rimane un’utopia, in particolare in una epoca di crisi generale del capitalismo.

 

“La proprietà privata è sacra!”

Non è un caso allora se mentre si promettono miracoli, si preparano nuove misure repressive tra le quali una stretta contro gli occupanti di case. Salvini come sempre si è fatto scudo dei sacrosanti diritti del risparmiatore che magari ha comprato la casa per i figli e se la trova occupata, e ha proclamato che “la proprietà privata è sacra!”, il che potrebbe diventare il vero slogan del suo partito. Peccato che mentre la proprietà privata viene dichiarata sacra il patrimonio pubblico, compreso quello immobiliare, sia stato saccheggiato da decenni di privatizzazioni; che non si costruisca quasi più un alloggio popolare; che banche, assicurazioni e immobiliari siano tra i proprietari che più si sono arricchiti sul mercato degli alloggi e dell’edilizia; che, infine, tutto questo porti a una situazione in cui ci sono circa 7 milioni di case vuote (e non sono tutte in zone turistiche o in comuni spopolati dall’emigrazione).

Il risultato è che circa 67mila sfratti che potrebbero essere facilmente risolti diventano una emergenza sociale.

Il “cambiamento” si fa con la lotta di classe!

1) Colpire il capitale finanziario. Fino a quando ogni anno si devono pagare decine di miliardi di interessi sul debito pubblico, ogni vera riforma rimane utopia. È impossibile alleggerire il carico fiscale sulle classi più povere, in particolare le imposte indirette come l’Iva o le famose accise, che Salvini prometteva di abolire e che sono ancora tutte al loro posto. Il debito pubblico è già stato ampiamente ripagato, se consideriamo che in 20 anni sono stati restituiti circa 1.900 miliardi di soli interessi.

Il debito va ripudiato, le banche, che hanno beneficiato dei salvataggi pubblici e del denaro facile fornito dalla Bce devono essere nazionalizzate e fuse in un unico sistema pubblico.

2) Colpire le grandi ricchezze mobiliari e immobiliari: tassare pesantemente i patrimoni, espropriare la grande proprietà immobiliare e fondiaria.

3) Nazionalizzare Autostrade e Ilva; avviare un piano di nazionalizzazioni a partire da quanto è stato privatizzato negli ultimi trent’anni (Telecom, Eni, Enel, municipalizzate, ecc.), nonché quelle aziende che delocalizzano, inquinano, licenziano, dismettono il patrimonio produttivo.

4) Si indennizzino solo i piccoli azionisti che ne dimostrano l’effettiva necessità.

Solo con queste risorse industriali e finanziarie e con la partecipazione attiva e organizzata dei lavoratori, dei giovani, dei disoccupati, sarebbe possibile avviare un piano economico rivolto ai bisogni sociali, ambientali, culturali della grande maggioranza della popolazione e non ai profitti di una minoranza sempre più ristretta e rapace.

Siamo assolutamente convinti che milioni di persone comuni che attendono con fiducia che questo governo porti loro un reale cambiamento, quando toccheranno con mano che questo non arriva, giungeranno all’unica conclusione corretta: che il cambiamento arriva solo con la lotta collettiva, con la lotta di classe diretta e aperta nella quale i lavoratori e tutti gli sfruttati si organizzano in difesa dei propri interessi e del proprio futuro.

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