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Sinistra europea: le ragioni di una sconfitta

Dopo le europee c’è chi parla di un’onda nera che travolge l’Europa, ma a ben vedere, se si eccettua l’Italia, e in parte la Francia (dove il Front National aveva già vinto nel 2014), le destre reazionarie di Enl (Europa delle Nazioni e della Libertà) e della destra più estrema arretrano un po’ ovunque.

L’Fpö austriaca, travolta dagli scandali, passa dal 26 al 17%. In Spagna a solo un mese dalle elezioni politiche, Vox cala dal 10,2 al 6,2%. Lo stesso avviene con Veri, in Finlandia che si attesta al 13,8% (contro il 17,5% dello scorso 14 aprile), l’Afd tedesca perde due punti rispetto alle politiche del 2017 (dal 12,6 al 10,8%), così come Alba Dorata in Grecia (al 4,9% contro il 7%). Il Partito del popolo danese dimezza addirittura i suoi voti (dal 21,2 al 10,7%).

I tre gruppi “sovranisti” (che al contrario di quello che aveva ipotizzato Salvini non si unificheranno affatto), non avranno più di 170 deputati (23% del nuovo parlamento europeo), di cui 29 eletti nella lista di Brexit, il movimento di Farage, destinato ad uscire dal Parlamento, così come tutti i deputati britannici.

Il caso delle elezioni britanniche è particolare, in quanto condizionato dalla Brexit e dalla scarsa rilevanza di eleggere dei deputati destinati a stare a Bruxelles solo per pochi mesi. Solo un terzo degli aventi diritto ha infatti partecipato al voto.

Ma i britannici che sono andati a votare hanno scelto un’opzione chiara a favore o contro la Brexit. Non a caso Farage e il suo Brexit Party, fuoriuscito dall’Ukip (che a suo dire si era spostato troppo a destra) ottiene un risultato destinato a non ripetere più nel corso della sua vita (31,7%). All’estremo opposto i liberal democratici, che con più veemenza hanno difeso il remain (rimanere nell’Ue), raccolgono il 18,6%.

Batosta per i conservatori (8,7%) e per i laburisti (14,1%), che non sono stati in grado di dire una parola chiara sulla questione Brexit.

Una nuova maggioranza in Europa?

Se la classe dominante può gioire perché ha limitato le perdite del blocco fra popolari e socialisti che in questi anni ha governato le politiche di austerità, è anche vero che per la prima volta dal 1979 c’è bisogno di allargare la maggioranza ad altre forze, come i liberali dell’Alde e i Verdi, che escono rafforzati da questa consultazione, passando da 50 a 69 deputati.

Si può dire che i due elementi principali che hanno caratterizzato queste elezioni, sono stati il “fattore Brexit” e il “fattore Greta” e questo è stato particolarmente vero tra le giovani generazioni.

In molti guardando all’esperienza della Gran Bretagna hanno tratto la conclusione che non sia affatto semplice e soprattutto non sia così vantaggioso uscire dalla gabbia dell’Ue, e questo è certamente vero su basi capitaliste.

Secondo un sondaggio dell’Istituto Cattaneo l’esperienza della Brexit ha rafforzato la posizione di chi vuole restare in Europa, soprattutto tra i giovani. In Italia questa percentuale sarebbe del 72% tra i 18 e i 29 anni e del 52% tra gli over 50. Ma è una tendenza che viene confermata in tutti i principali paesi dell’Unione europea. (Gli italiani e l’Europa, su www.cattaneo.org).

Per quanto riguarda il secondo aspetto, è indiscutibile che i Verdi, grazie al movimento dei giovani ispirato da Greta Thunberg abbiano raccolto consensi al di sopra delle attese, che oscillano tra il 10% e il 20% in Austria, Belgio, Francia, Irlanda, Svezia, Finlandia, Lituania, Olanda, Gran Bretagna, Lussemburgo e superano il 20% in Germania dove si collocano al secondo posto davanti alla socialdemocrazia (Spd).

Persino il risultato italiano (2,3%) in tutta la sua modestia è significativo se confrontato con la situazione degli ultimi 10 anni, nella quale i Verdi erano praticamente spariti dal panorama politico nazionale.

Naturalmente chi scrive, pur simpatizzando con il movimento Friday for Future, all’interno del quale i nostri giovani compagni sono fortemente impegnati, non prova nessuna simpatia verso quei gruppi dirigenti delle formazioni verdi che in questi anni hanno mostrato la loro natura sociale borghese e piccolo borghese collaborando con le politiche di austerità e sostenendo le guerre imperialiste ovunque hanno governato, limitandosi a dare una riverniciata di green del tutto compatibile con gli interessi del grande capitale.

La classe dominante può quindi puntellare con altre forze il blocco Ppe-Pse, ma al prezzo di maggiori contraddizioni politiche. Macron ha già silurato il candidato presidente della Merkel, Weber, e ha trovato un possibile alleato in Pedro Sanchez, il segretario socialista più vincente in un contesto in cui quasi tutte le formazioni del Pse arretrano, in molti casi pesantemente.

Protezionismo europeo?

Un’alleanza quadripartito può sulla carta contare su 500 deputati, ma non sarà affatto semplice garantire una maggioranza stabile visti gli interessi divergenti tra i diversi paesi europei. In un contesto mondiale di crescente protezionismo, Francia, Germania e tutti gli Stati europei stanno affilando le armi e costruendo le proprie alleanze per occupare le posizioni chiave nella futura Commissione europea e nella Bce.

Conflitti di per sé già esplosivi e che si esarceberanno per il conflitto tra Usa e Cina, che avrà in Europa uno dei suoi principali terreni di scontro.

Da una parte c’è Trump che soffia apertamente sul fuoco dei nazionalismi. Non a caso subito dopo la chiusura delle urne e le dimissioni della May si è recato in Gran Bretagna, per assicurarsi che la Brexit proceda speditamente e si consolidino le relazioni tra gli Usa e un Regno Unito fuori dall’Ue.

Gli Usa sono molto attivi in Europa in questo momento, esercitano forti pressioni su Francia e Italia perché non stabiliscano relazioni privilegiate con la Cina, inviano militari, aprono basi e costruiscono relazioni nell’Europa dell’Est (Polonia e Ungheria particolarmente). Gli interessi Usa in Europa sono enormi, con investimenti diretti pari a circa 7 volte quelli cinesi, ma Trump pare intenzionato a tutelarli non attraverso il rapporto con la Ue, ma piuttosto indebolendola per gestire da posizioni di maggiore forza i rapporti con i singoli paesi. Da qui la scelta, persino avventurista, di schierarsi apertamente con i partiti sovranisti e ultranazionalisti che pure non governano alcun paese tranne l’Italia.

Ha lasciato di stucco, in particolare, la nomina del nuovo ambasciatore Usa a Berlino, Richard Grenell, che civetta apertamente con l’Afd e che nei primi undici mesi del suo mandato ha duramente criticato l’establishment politico tedesco praticamente su tutto, con un protagonismo insolito per un’ambasciatore.

Ma se gli Usa sono attivi, anche la Cina non scherza e per parte sua sta costruendo alleanze e intensificando gli investimenti strategici in Europa sottoscrivendo accordi commerciali con Italia e Gran Bretagna in particolare. Lo scontro non può che acutizzarsi ed avrà effetti potenzialmente disgreganti sulla coesione interna dell’Unione Europea.

Sinistra al collasso

La sinistra in queste elezioni europee prende una scoppola tremenda. È crisi, ed è crisi nera anche per quei movimenti riformisti nati nell’ultimo decennio che avevano generato grandi speranze (Syriza, Podemos e France Insoumise su tutti).

Tsipras, che ha centrato la campagna elettorale sull’operato del proprio governo, ha preso la lezione che meritava, ha perso nettamente ed è costretto ad anticipare le elezioni in Grecia.

A parte il Belgio e la Danimarca, i risultati della sinistra sono negativi un po’ ovunque: dalla Linke (5,4%) a France Insoumise (6,3%) per arrivare a Podemos (10,1%), fino al risultato penoso della lista di Sinistra in Italia (1,7%).

Ma se il dato della sinistra in Italia per quanto estremamente negativo non è una novità, preme ricordare che alle scorse presidenziali in Francia, la candidatura di Melenchon raccoglieva oltre il 18% dei consensi e Podemos solo un mese fa aveva il 14% e, con i suoi alleati, risultati ben superiori al 20% alle elezioni politiche del 2016.

I cali sono meno consistenti per il Bloco de esquerda, il Partito comunista portoghese, il Partito della sinistra svedese e il Partito comunista greco (Kke), ma sempre di arretramenti si tratta

Il Gue, il gruppo della sinistra europea, passerà così da 52 a 39 deputati.

Si registra pertanto una sconfitta della sinistra riformista in tutte le sue varianti, nella versione europeista (Tsipras, Fratoianni, Laurent), come in quella sovranista (Melenchon, Iglesias, Martins).

La verità è che entrambe queste correnti sono pesantemente condizionate dalla loro visione riformista e dalla incapacità di mettere in discussione il capitalismo, che ricordiamolo è la vera causa del peggioramento delle condizioni di vita di milioni di lavoratori e giovani europei.

Così come l’Unione europea è irriformabile, lo è ciascun Stato che ne fa parte, almeno fino a quando non si mettono le mani sulle banche e le grandi aziende che controllano la gran parte dell’economia.

Nel momento decisivo dello scontro sociale, sia la principale forza della sinistra europeista (Syriza), che quella che sostiene il documento di Lisbona (Podemos) hanno fallito. Nel primo caso non rispettando la volontà del popolo greco che si era espresso contro la Troika nel referendum del 2015; nel secondo caso opponendosi al referendum catalano del 2017, dove Podemos ha abbandonato la posizione storica della sinistra spagnola sulla difesa al diritto di autodeterminazione, cedendo ai peggiori istinti del nazionalismo “spagnolista” e alla repressione che ne è derivata.

Quando si tradiscono dei movimenti di tali proporzioni, inevitabilmente si genera tra le masse una disillusione e una demoralizzazione che è alla base delle recenti sconfitte elettorali.

I giorni in cui nei cortei di tutta Europa, inclusa l’Italia si gridava: “Syriza, Podemos, venceremos!”, sono finiti, fino al punto che Zingaretti può permettersi di considerare Syriza come un satellite del Partito socialista europeo. Il suo slogan “da Macron a Tsipras”, per quanto protestasse Fratoianni ricordando che i deputati di Syriza si siederanno negli scranni del Gue, è efficace, perché al di là delle forme Tsipras non si distingue in nulla di fondamentale da Pedro Sanchez, Zingaretti e compagni.

Di fronte alla crisi economica, alle pressioni della Troika, alle politiche di austerità sarebbe necessaria non un’ancella del Pse, ma una sinistra combattiva, classista disposta a dar battaglia su ogni terreno con un programma anticapitalista.

Sconfitta del sovranismo di sinistra

Ma chi su questo terreno rischia di prendere degli svarioni clamorosi sono le forze del sovranismo di sinistra che fanno capo a Jean Luc Melenchon. Perché se è indiscutibilmente vero che le destre raccolgono consensi nelle periferie e nel proletariato facendo leva sull’enorme rabbia e frustrazione che in questi anni si è accumulata tra i settori più poveri della società., lo fanno creando dei capri espiatori e provocando una guerra tra poveri. Funziona fin troppo bene per loro, ma non per questo si tratta di una politica corretta, che una sinistra che rispetti questo nome possa difendere.

Quando questo avviene, il disorientamento è totale e la disfatta è quasi assicurata.

In questa campagna elettorale Melenchon ha proposto misure economiche di protezionismo e capitalismo di Stato, ha fatto il verso a Marine Le Pen con un richiamo costante al “popolo” e alla “nazione”, individuando l’avversario nel capitalismo finanziario (Soros), ha adulato il governo italiano, ma soprattutto ha esibito un discorso che della Le Pen assumeva i tratti inconfondibilmente xenofobi e patriottici, seppure in dosi minori. Con il pretesto di lottare contro le “cause dell’immigrazione”, il leader di France Insoumise ha fatto ancora riferimento al lavoratore straniero che ruba il pane al lavoratore francese: “Diciamo vergogna a coloro che organizzano l’immigrazione attraverso accordi di libero scambio e poi la usano per fare pressioni sui salariati”.

Non a caso si è rifiutato di sottoscrivere un appello contro la xenofobia appoggiato dai principali leader della sinistra francese, tra gli altri da Brossat (Pcf), Besancenot (Npa) e Hamon (leader della sinistra socialista in Francia, fino al 2017 membro del Ps).

La linea del tricolore e della lotta all’immigrazione non ha pagato perché come dice una vecchia legge della politica, tra la copia e l’originale la gente sceglie sempre l’originale.

La sinistra se vuole tornare a vincere deve rompere ogni tipo di subalternità nei confronti della classe dominante, europeista o sovranista che sia.

Solo l’unità tra i lavoratori e non certo la divisione su basi etniche può essere alla base di un autentico riscatto delle classi lavoratrici. Solo la lotta e non certo il voto cambia le cose in profondità. Una sconfitta elettorale ha un valore molto relativo, ciò che conta sono le lezioni che una nuova generazione di attivisti può trarre da questa sconfitta preparando la strada alla costruzione di un autentico partito di classe per il futuro.

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