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Sinistra e “sovranismo”

“Sovranista” è l’insulto del momento, l’epiteto che la classe dominante usa per etichettare partiti e leaders politici che giudica ostili agli interessi capitalistici e in particolare alle istituzioni dell’Unione europea.

La parola d’ordine della borghesia liberale in Europa l’ha riassunta Massimo Cacciari proponendo “un fronte da Macron a Tsipras” contro “populisti e sovranisti”.

Di conseguenza fra un settore di militanti e di organizzazioni della sinistra si sta affermando una sorta di reazione a specchio: se la borghesia dice che il sovranismo è negativo, allora dobbiamo in qualche modo rivendicare questo concetto.

Riteniamo importante analizzare le posizioni in questo senso provenienti da organizzazioni come Rete dei Comunisti, Usb, Eurostop che giustamente rifiutano l’ennesima riproposizione di una alleanza di centrosinistra e che promuovono per il 20 ottobre una manifestazione che pone al centro la parola d’ordine delle nazionalizzazioni.

Ma proprio perché crediamo esista un terreno possibile di azione comune non vogliamo nascondere le nostre critiche, convinti come siamo che la chiarezza teorica sia indispensabile per costruire qualcosa di solido nel campo di una sinistra che si voglia rivoluzionaria. Per motivi di spazio rimandiamo a un testo futuro la disamina di questo dibattito a livello europeo.

 

“Sovranità popolare” o dominio di classe?

Dante Barontini nel testo Sovranità, sovranismo e sciocchezze spiega giustamente che parlare di sovranità in politica si riduce a una semplice tautologia, e che la questione decisiva è chi esercita tale sovranità. Giustissimo. Ma altrettanto giusto è domandarsi come, per quale mezzo, si esercita tale sovranità. Scrive Barontini: “In una democrazia in senso lato questo potere sovrano appartiene al popolo, come recita anche l’articolo 1 della Costituzione nata dalla Resistenza”.

Ci permettiamo di chiedere: il “popolo” non si divide forse in classi sociali contrapposte e in lotta fra loro? E la “sovranità”, non si esercita forse attraverso un apparato repressivo, poliziesco, burocratico, giudiziario e politico che stabilisce le leggi e ne garantisce l’applicazione, se necessario con la forza? Davvero possiamo buttare a mare duecento anni di elaborazione del marxismo e di esperienza concreta del movimento operaio e tornare al Contratto sociale?

Non a caso nell’elaborazione della sinistra “sovranista” non si incontra mai una definizione precisa dello Stato e del potere politico. Tanto varrebbe a questo punto accontentarsi delle parole del primo ministro Conte, che nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu ha appunto esordito dicendo che quando accusano il governo Salvini-Di Maio di essere sovranista e populista lui risponde citando l’articolo 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo” ecc.

In una società divisa in classi la sovranità non appartiene mai al “popolo”, ma alla classe che detiene il potere economico e che difende tale potere attraverso il suo monopolio della forza, ossia col controllo dell’apparato statale. Possibile che dei comunisti, dei militanti classisti, abbiano dimenticato questa verità elementare?

Recentemente Di Maio e altri esponenti del governo si sono scagliati contro quegli alti dirigenti dei ministeri che boicottano il nuovo governo. Hanno scoperto così che “prendere il governo” in questa società significa ben poco. Che l’intero apparato amministrativo, burocratico, repressivo, soprattutto nei suoi livelli dirigenti, è formato da una burocrazia consolidata, selezionata da generazioni per servire gli interessi della classe dominante.

Di Maio, che è un piccolo borghese ignorante, attribuisce questa cattiva volontà ai dirigenti “nominati dai partiti”. Ma per i marxisti la questione è ben più profonda e va diretta al punto del dominio di classe.

 

Il ruolo degli Stati nazionali

Lo Stato nazionale è stato la creazione per eccellenza della borghesia sul piano politico. La rivoluzione borghese si è affermata storicamente creando gli Stati nazionali in contrapposizione tanto alla frantumazione economica, politica e amministrativa degli staterelli feudali, quanto agli imperi multinazionali. Tuttavia il capitalismo dal punto di vista economico è un sistema mondiale, il primo che ha stabilito l’unità economica del pianeta e una divisione del lavoro su scala mondiale.

Questo sviluppo, già prefigurato nelle pagine del Manifesto comunista, costituisce una enorme conquista e progresso di questo sistema rispetto ai suoi predecessori, ma al tempo stesso è anche uno dei fattori della sua crisi. Da un lato, infatti, le forze produttive (industria, trasporti, comunicazioni, ricerca scientifica, ecc.) si sviluppano su scala planetaria; dall’altro il potere della classe che le controlla, ossia della borghesia, rimane strutturato sulla base degli Stati nazionali. Oggi l’esistenza dello Stato nazionale, e in particolare dei “piccoli” Stati europei, è altrettanto irrazionale e reazionaria di quanto lo era quella degli staterelli dell’Italia o della Germania prima che venissero unificate. Questo è precisamente uno dei motivi della crisi storica del capitalismo, altrettanto fondamentale dell’altra grande contraddizione, ossia la proprietà privata dei mezzi di produzione.

Il problema è che tutte le posizioni “sovraniste” a sinistra ignorano completamente il punto centrale, ossia i limiti insuperabili dell’economia capitalista e dello Stato borghese, o cercano di aggirarli con proposte confuse. Gli economisti Luciano Vasapollo e Rita Martufi ad esempio presentano nel loro nuovo libro La vendetta dei maiali la proposta di uscire dall’euro: 1) Uscita concertata dall’euro dell’area “euromediterranea” (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) mediante 2) creazione di un “simbolo monetario inizialmente anche virtuale – criptomoneta, moneta di conto e compensativa”. 3) Ridenominazione del debito nella nuova moneta. 4) Rifiuto di una parte del debito e rinegoziazione o azzeramento dello stesso e infine 5) Nazionalizzazione delle banche e controllo, fino al blocco temporaneo, dei movimenti dei capitali in uscita.

 

Uscire dall’euro senza uscire dal capitalismo?

Ma queste proposte assumono un senso realmente progressivo solo all’interno di una prospettiva di potere dei lavoratori, ossia se messe in atto da un potere che non è più l’apparato statale costruito dalla borghesia, bensì una struttura di autogoverno dei lavoratori e delle classi popolari (soviet, consigli, assemblee popolari). Altrimenti non staremmo parlando altro che di come gestire l’insolvenza dello Stato: certo anche in quel caso sarebbe nostro compito lottare per fare ricadere il più possibile le perdite sul capitale e sulla rendita, ma si tratterebbe di una lotta difensiva paragonabile a quella dei lavoratori che di fronte al fallimento della fabbrica lottano per farsi riconoscere i propri crediti o per ottenere una buonuscita dalla svendita dei macchinari.

Vasapollo e Martufi riconoscono esplicitamente che “il cambio di moneta non porta in sé nessun tipo di avanzamento nella correlazione delle forze a favore dei lavoratori; anzi, è il contrario.” Tuttavia non avanzano mai chiaramente la prospettiva di una rottura con il capitalismo. Usano invece un campionario di espressioni confuse: “monete sganciate dai circuiti finanziari egemonizzati dai poli imperialisti… progetti di politica monetaria a chiaro connotato antimperialista e di protezionismo solidale di classe… processi di transizione reali perché possibili”, ecc.

L’esempio del Venezuela e dell’Alba, l’area di cooperazione attorno ad esso, viene portato in maniera completamente acritica come modello da seguire, quando è del tutto evidente che la crisi economica profondissima e l’iperinflazione che attanagliano l’economia venezuelana (oltre al burocratismo dilagante) dimostrano precisamente i limiti insuperabili di queste “transizioni” generiche che rifiutano la rottura col capitalismo.

Un altro errore di questi autori è l’idea che tra i paesi “euromediterranei” ci possa essere una cooperazione paritaria e vantaggiosa per tutti che invece sarebbe preclusa nell’area dell’Euro a causa del dominio industriale tedesco. In realtà Italia, Grecia, Spagna e Portogallo non sono affatto economie simili né particolarmente integrate fra loro. Per fare solo un esempio, in termini di Pil pro capite la Grecia è più lontana dall’Italia di quanto l’Italia non sia dalla Germania. Su basi capitaliste non esiste una cooperazione vantaggiosa per tutti. Basti pensare alla divisione nord-sud che il capitalismo italiano perpetua e aggrava da un secolo e mezzo.

 

Si idealizza la democrazia borghese

Se Vasapollo e Martufi non esplicitano la necessità della rottura col capitalismo come sistema economico, Barontini fa lo stesso sul piano politico, ossia dello Stato. La sua critica all’Unione europea è infatti la seguente: “La sovranità si concentra in centri decisionali non elettivi (…). Il soggetto della sovranità è qui una oligarchia tecno-burocratica, quasi una nuova “classe di prescelti” con criteri non democratici, che prende decisioni che riguardano mezzo miliardo di esseri umani senza mai passare dalla verifica elettorale.”

E, dopo una critica del tutto condivisibile al “potere dei mercati”, conclude come segue:

Abbiamo scoperto che ci sono diversi livelli di sovranità e anche diverse fonti di legittimazione.

C’è quella popolare, che storicamente può avere un ambito territoriale di applicazione anche assai variabile (nazionale o internazionale, in prospettiva storica anche mondiale), orientamenti politici anche opposti (socialismo, democrazia liberale, fascismo).

C’è quella sovranazionale a dimensione quasi continentale, che viene incarnata tipicamente da trattati e istituzioni dell’Unione europea.

C’è quella dei mercati, che non ha confini precisi, è tendenzialmente globale pur essendo orientata da interessi di piccolissimi gruppi (gli azionisti di controllo).

Siamo quindi alla completa idealizzazione della “sovranità popolare”, che però da marxisti rivoluzionari vorremmo chiamare col suo nome, ossia democrazia borghese. Dove si possa arrivare su questa china lo dimostra Stefano Fassina, che in quanto neofita del campo “sovranista” si sente in dovere di fare sfoggio di zelo e si è sperticato in lodi per il “coraggioso e necessario” sforamento del deficit al 2,4 per cento, schierandosi di fatto a fianco del governo gialloverde.

Si parla della “sovranità dei mercati”, che più correttamente dovremmo chiamare “dittatura del capitale”. Ma tale sovranità non esiste nel vuoto, si esercita precisamente attraverso l’apparato statale, le sue leggi, il suo monopolio della repressione. A prescindere dalla sua forma istituzionale (parlamentare, dittatoriale, civile, militare, federale, ecc.) il contenuto reale della sua attività è il medesimo: la difesa del potere della classe dominante.

A meno di non voler tornare alle fantasie no global di moda qualche anno fa, quando i vari Toni Negri, Bertinotti, ecc. teorizzavano che lo Stato nazionale non esisteva più e che il potere capitalistico prescindeva da esso. Ma ci pare che oggi, in un’epoca di guerra commerciale, corsa al riarmo, protezionismo, autoritarismo rampante, il ruolo decisivo dello Stato come strumento centrale del dominio capitalistico sia difficile da contestare.

 

La prospettiva rivoluzionaria

Tutto questo significa che la questione dell’Unione europea, della rottura con i suoi Trattati e con la moneta unica sia questione indifferente? Assolutamente no. Politica interna e politica estera sono l’una conseguenza dell’altra. Gli accordi internazionali stretti dalla classe dominante sono parte importante del rafforzamento del suo potere, sia su scala interna (dove vengono usati per imporre una politica economica regressiva), sia per difendere il proprio potere nel mercato mondiale.

Il fatto che l’Unione europea viva una profonda crisi e contraddizioni enormi tra le diverse borghesie nazionali è quindi un grande vantaggio per chi lotta contro il sistema capitalista:

1) Perché l’avversario è diviso e quindi meno capace di rispondere in modo compatto a una lotta di classe condotta con decisione dal movimento operaio.

2) Perché l’Ue è uno strumento fondamentale di integrazione e cooptazione delle burocrazie riformiste sia nella sinistra che nel movimento sindacale, e la sua crisi a sua volta le indebolisce.

Non può esistere alcuna alternativa economica e politica all’interno dell’Unione europea, non perché sia un potere “oligarchico”, “sovranazionale” o altro, ma per lo stesso esatto motivo per cui non può esistere all’interno di questo Stato: per la sua natura di classe. Ogni altra lettura porta inevitabilmente a uno scivolamento opportunista nei confronti del populismo borghese e piccolo borghese che politicamente disarmerebbe la sinistra di classe così come la subordinazione all’europeismo ha demolito il riformismo di sinistra in Italia e non solo.

 

(Sono qui citati i testi di D. Barontini Sovranità, sovranismo e sciocchezze, L. Vasapollo e Rita Martufi, I paesi europei hanno visogno di una moneta diversa dall’euro, entrambi reperibili su contropiano.org. L’appello di Fassina per “Patria e Costituzione” è pubblicato sull’Huffington post).

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