Senza mappa e senza bussola – Le banche centrali di fronte all’inflazione

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Senza mappa e senza bussola – Le banche centrali di fronte all’inflazione

L’aumento dei prezzi è ormai un fatto conclamato su scala internazionale. Negli USA l’inflazione ha raggiunto il 7,5% a gennaio, nell’Eurozona il dato di gennaio è del 5,1%, nel Regno Unito del 5,4.

L’aumento dei prezzi sta largamente smentendo le attese delle autorità monetarie. Le chiacchiere sul fatto che si trattasse di un aumento temporaneo dovuto a fattori congiunturali sono ormai archiviate.

L’inflazione non è più una notizia delle pagine economiche dei giornali, ma una realtà che incide sulla vita quotidiana di milioni di persone. Anzi, di centinaia di milioni, se consideriamo la portata internazionale del processo. Se in Italia il caro-bollette è uno dei centri dello scontro politico, in Gran Bretagna il governo ha tolto il tetto alle tariffe energetiche che aumenteranno del 54% da aprile. Ovunque le cronache riportano gli stessi fenomeni: esplosione dei prezzi energetici, dei costi delle abitazioni, del trasporto, dei beni di più ampio consumo. Come ha scritto una analista dell’Istat, “desta preoccupazione non solo per le conseguenze economiche ma anche per quelle sociali”.

In altre parole, la borghesia teme che l’aumento dei prezzi alimenti un’ondata di scioperi e rivendicazioni salariali, come già sta avvenendo in diversi paesi, nonostante il ruolo di freno delle burocrazie sindacali. Non è l’ultimo dei motivi per i quali le banche centrali si apprestano a chiudere i rubinetti della liquidità.

 

Finisce il denaro facile

La svolta è iniziata il 3 febbraio, quando la Bank of England ha deciso di aumentare i tassi dello 0,25%. Significativamente 4 dei 9 componenti del comitato di politica monetaria avevano votato per un aumento più consistente (0,5%). La Federal Reserve seguirà la stessa strada a partire da marzo e lungo il 2022 sono attesi altri aumenti del tasso d’interesse.

Parallelamente verranno ridotti i massicci programmi di acquisto di titoli da parte delle Banche centrali, che hanno sostenuto i debiti pubblici particolarmente di paesi a rischio come l’Italia.

L’epoca del denaro facile sta quindi per chiudersi, per tutti: aziende, Stati, consumatori.

Un aumento dei tassi d’interesse negli USA, unito alla stretta sui programmi di acquisto di titoli da parte delle principali banche centrali avrà forti conseguenze.

1) Farà esplodere diverse “bolle” speculative che grazie al denaro facile si sono gonfiate nelle Borse e non solo.

2) Creerà forti problemi in paesi che hanno alti debiti denominati in dollari, debiti il cui peso aumenterà. Tra i principali indiziati ci sono Brasile, Egitto, Argentina, Sudafrica, Turchia.

3) Aumenterà il peso degli interessi sui debiti pubblici, che in questi due anni sono esplosi ovunque a causa della pandemia.

La svolta negli USA apre una contraddizione con la Cina e con l’Unione Europea. Pechino, è alle prese con l’esplosione del settore immobiliare e con un rallentamento della crescita, prevista per il 2022 al 4,3% dopo il +8% del 2021. La Banca centrale ha già reso chiaro che non seguirà la stretta monetaria e continuerà a garantire denaro all’economia. I limiti di questa espansione monetaria tuttavia sono difficili da stimare, considerata l’esplosione del debito cinese, pubblico e privato, che è cresciuto del 22% in un anno (marzo 2020-marzo 2021) e oggi rappresenta il 21% del debito globale.

 

La fragilità dell’Unione europea

La posizione morbida della Bce è dovuta alla fragilità della ripresa economica, ma soprattutto alla strutturale debolezza dell’euro. Un rialzo significativo dei tassi d’interesse metterebbe nuovamente sotto pressione i paesi più indebitati, a partire dall’Italia. Oggi nonostante un debito pubblico al 160% del Pil l’Italia non paga pegno grazie ai tassi d’interesse a zero e alla copertura della Bce, che detiene oltre un quarto del debito italiano.

La posizione della Bce è tuttavia fragile. Christine Lagarde ha tentato di sganciarsi dalla svolta della Fed, facendo pubblicare analisi di pura fantasia secondo le quali l’inflazione nell’UE sarebbe rapidamente tornata a scendere verso la fine del 2022. Questa posizione non sta reggendo e gli ultimi segnali puntano a un rialzo dei tassi anche in Europa.

Questo significa che gli spread torneranno a salire (già ci sono i primi segnali) riaprendo un forte scontro politico nella UE. Con il Next Generation EU (il Recovery plan) lo scorso anno è stato varcato il Rubicone emettendo per la prima volta un debito europeo e non nazionale. Nonostante le rituali dichiarazioni che si trattava di un’eccezione dettata dall’emergenza sanitaria, da che mondo è mondo ai debiti in scadenza si fa fronte con nuovi debiti… o con la bancarotta. L’Unione Europea deve ora ridiscutere il cosiddetto Patto di stabilità (sospeso nel 2020) e sono sempre più numerose le voci che avanzano varie proposte di estendere il “debito europeo” per ridurre i rischi di un fallimento dei paesi più indebitati, che metterebbe nuovamente a rischio la tenuta dell’euro. Macron e Draghi sono oggi principali promotori di questa linea e premono per portare il nuovo governo tedesco sulla loro posizione.

Secondo le tradizioni bizantine dell’UE, è facile prevedere che la discussione si trascinerà tra veti reciproci e mediazioni improbabili fino a quando la situazione non sia a un passo dalla deflagrazione.

Tutti si muovono a tentoni, reagendo di volta in volta ad avvenimenti che non avevano previsto. Il risultato più probabile della stretta monetaria sarà che ben prima che l’inflazione rallenti strozzeranno l’attuale ripresa economica, pesantemente “drogata” dalle iniezioni di spesa pubblica e dal denaro fornito dalle Banche centrali.

La stretta monetaria in arrivo significa anche la fine della gestione internazionale convergente dell’emergenza, che ha segnato il biennio passato. È un’altra manifestazione degli accresciuti antagonismi internazionali che destabilizzano il sistema capitalista a livello mondiale. Ma ha anche un profondo contenuto di classe.

Oggi i lavoratori pagano con l’aumento dei prezzi gran parte della “ripresa” e delle politiche di spesa pubblica. Domani saranno chiamati anche a pagare gli effetti recessivi di questa svolta monetaria, che si manifesteranno con minori investimenti, minore occupazione e tagli della spesa sociale per fare fronte ai maggiori interessi sui debiti pubblici.

Le misure sanitarie e le politiche di spesa hanno per molti aspetti “anestetizzato” la lotta di classe nella fase trascorsa. Non casualmente, entrambe raggiungono ora i loro limiti.

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