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Santa Maria Capua Vetere: ancora brutalità nelle carceri

Quell’operazione in quel momento è sfuggita di mano tecnicamente come a Bolzaneto”, queste le parole di Emilio Fatterello, segretario del SAPPE (sindacato autonomo della polizia penitenziaria) per “giustificare” a suo dire i terribili fatti accaduti al carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenuti il 6 aprile 2020 e testimoniati dalle immagini interne che hanno portato a 52 misure di custodia cautelare per altrettanti appartenenti al corpo di polizia carceraria di ogni ordine e grado.

Mentre l’allora ministro Bonafede presentò i fatti come “una doverosa operazione di ripristino della legalità” è ormai evidente che si trattò di una vera e propria spedizione punitiva contro i detenuti del padiglione Nilo: nei giorni precedenti avevano infatti protestato per rivendicare condizioni di sicurezza per la propria salute dopo la notizia del primo caso di Covid-19 nel carcere. Il repertorio è quello che abbiamo già visto in tante occasioni nelle carceri o come nei fatti delle caserme Raniero di Napoli e Bolzaneto a Genova nel 2001. Abusi di ogni tipo con pugni, calci, manganellate e ogni sorta di umiliazione contro persone inermi e impossibilitate a difendersi.

Le immagini dei video di sorveglianza interna sono un pugno allo stomaco e squarciano il velo di omertà e complicità che tiene nascosto questo tipo di soprusi e non sorprende leggere nell’indagine dei giudici che vi furono vari tentativi di manomettere i video e di deviare le indagini. Ma come sempre in questi casi subito si è alzata la retorica delle “poche mele marce” e della “sospensione della democrazia indegna per un paese civile come il nostro”, che dietro a parole di finta condanna prova a nascondere ciò che appare invece evidente.

I fatti di Santa Maria Capua Vetere si inseriscono infatti in un contesto ben più ampio che ha visto tra marzo e aprile del 2020, nel pieno sviluppo del primo lockdown con un aumento incontrollato dei contagi, rivolte carcerarie in almeno 21 istituti di pena, con i detenuti che rivendicavano sicurezza sul piano sanitario in contesti di superaffollamento delle celle in strutture spesso fatiscenti e prive delle più basilari condizioni di vita quotidiana. Basti pensare che nel 43% dei casi (ben 37 Istituti) non è garantita l’acqua calda in tutte le celle.

Quando a fine febbraio la pandemia è esplosa nel paese, nelle prigioni italiane le persone recluse erano oltre 61.000, a fronte di 50.000 posti regolamentari, anche se quelli disponibili erano e sono circa 3.000 in meno. Il tasso di affollamento ufficiale era superiore al 120%. Tra le rivendicazioni dei detenuti vi era anche la richiesta di soluzioni per poter rimanere in contatto con i familiari. In molte carceri infatti alla sospensione dei colloqui causa Covid non era seguita immediatamente la possibilità di sostituirli con collegamenti in video via internet.

Al di là della retorica sui “pochi agenti isolati” a cui si assiste in questi casi, è molto facile capire quale sia stata la risposta della Stato per il loro “ripristino della legalità”, basta leggere i dati. Durante le proteste ci sono stati 13 morti, 9 dei quali nel carcere di Modena, e almeno 200 feriti. Le denunce di situazioni del tutto simili a quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere sono tante, arrivate da detenuti e parenti. È il caso delle giornate del 16 e 17 marzo nel carcere di Melfi dove decine di testimonianze sono concordi sulla descrizione di un vero e proprio pestaggio avvenuto per mano di agenti incappucciati durante il trasferimento di 60 reclusi e che, in assenza di immagini video, ha portato il tribunale di Potenza ad una sbrigativa archiviazione dell’indagine con la motivazione che “ le vittime non sono state in grado di riconoscere gli autori”.

Come spiega un avvocato dell’Associazione Antigone, Simona Filippi, “Quando agli atti finiscono anche i video delle telecamere di sorveglianza le inchieste vanno avanti, come nei casi di San Gimignano, Torino e Monza. Senza i filmati è difficile abbattere il muro di omertà. Vediamo stringate richieste di archiviazioni che ci lasciano a dir poco perplessi: a Modena la procura in due paginette vorrebbe chiudere l’indagine sui nove morti della rivolta. Una evidente forzatura“.

Ulteriori indagini sono in corso per fatti avvenuti nelle carceri di Palermo, Milano Opera e Pavia, mentre a Firenze due medici e 10 agenti sono imputati per i pestaggi avvenuti nel carcere di Solliciano.

Mentre il Pd mostra lacrime di coccodrillo e finta indignazione con le parole della responsabile giustizia Anna Russomando che chiede di “procedere immediatamente ove vengano accertate delle responsabilità”, si sprecano gli attestati di solidarietà alle forze dell’ordine con Salvini che non ha perso tempo a fare passerella al carcere di Santa Maria Capua Vetere a sostenere chi tiene la disciplina “in terra di Camorra”, riuscendo in colpo solo a sottolineare il suo disprezzo per detenuti e meridionali e sottolineando ancora una volta come la destra reazionaria veda le carceri solo come luoghi di punizione e reclusione. D’altra parte proprio nel costatare il fatto che pestaggi e torture abbiano un carattere sistemico e quotidiano ci riecheggiano ancora le parole della Meloni che si opponeva al reato di tortura perché “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”.

La verità è che il Covid ha ulteriormente aggravato la condizione delle carceri italiane. Durante la prima ondata i positivi al Covid-19 nelle carceri erano arrivati ad un picco massimo di circa 160 detenuti nei primi giorni di maggio, mantenendosi, da metà aprile, sempre oltre le 100 unità. I morti erano stati 4. Ben diverso quello che è avvenuto nella seconda ondata, quando i detenuti positivi sono arrivati ad essere più di 1.000, con diversi istituti dove si sono registrati veri e propri focolai, con decine di reclusi risultati positivi: Terni, Sulmona, Tolmezzo, Busto Arsizio e diversi altri. I detenuti deceduti a causa del Covid-19 durante questa ondata autunnale sono stati 7.  Questi dati dimostrano come le preoccupazioni dei detenuti fossero più che giustificate.

Antigone, CGIL, ARCI, ANPI, Gruppo Abele hanno formulato una serie di richieste minime per garantire diritti e sicurezza ai detenuti: 20 minuti di telefonata o video-telefonata giornalieri per ognuno, affidamento in prova o detenzione domiciliare per chi abbia condizioni di salute già precarie passibili di aggravamento a causa del Covid-19, detenzione domiciliare per chi beneficia del regime di semi-libertà, estensione dei domiciliari a chi sta scontando pene, anche residue, inferiori ai 36 mesi. Da parte del governo, invece, un silenzio assordante.

La pandemia ha invece giustificato ancora di più un’idea del tutto punitiva delle pene carcerarie ampliandone ancora il suo carattere chiuso e separato dal resto del mondo; non è certo un caso che il 2020 ha visto un numero senza precedenti di suicidi, ben 61. Il ruolo del sistema carcerario e il carattere repressivo della polizia penitenziaria non sono casuali, ma funzionali a perpetrare il dominio della classe dominante in questo sistema capitalista.

Lottiamo per il diritto alla salute dei detenuti diminuendo il sovraffollamento delle carceri, attraverso l’indulto per tutti i reati minori. Rivendichiamo un numero adeguato di personale sanitario, compreso il sostegno psicologico e che sia indipendente dalla gestione carceraria, troppo spesso infatti abbiamo assistito a connivenze tra personale medico e polizia penitenziaria in casi di pestaggi come ci insegna il caso Cucchi.

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