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Roma – Dopo le occupazioni, quale strada per il movimento studentesco?

Negli ultimi mesi, gli studenti dei licei in tutta Roma si sono mobilitati per manifestare il proprio dissenso nei confronti delle pessime condizioni della scuola italiana, problemi cronici esasperati dalla pandemia. Le problematiche individuate degli studenti nei vari comunicati sono sempre le stesse: classi-pollaio, edifici decadenti, mancanza di personale e dei materiali didattici e il cronico sovraffollamento dei mezzi pubblici. Lo scaglionamento all’entrata non ha risolto nulla, ma reso impossibile la vita agli studenti del secondo turno, che spesso non tornano a casa prima delle 17! Il governo non ha mai fatto nulla per rimediare, scaricando ogni responsabilità sugli studenti e sulle loro famiglie.

Questa mobilitazione ha rappresentato una svolta dal punto di vista dell’estensione: non si sono attivate solo le scuole del centro storico, dove tradizionalmente i collettivi sono più attivi e presenti. Al contrario, quasi tutte le scuole di diverse zone della città hanno deciso di organizzarsi e partecipare alla protesta, in particolare attraverso le occupazioni: il 6 ottobre il Liceo Rossellini ha fatto da apripista per l’occupazione di oltre 40 scuole, occupate nei 2 mesi e mezzo successivi e addirittura un liceo, l’Albertelli, è stato occupato una seconda volta.

La determinazione e le potenzialità di queste proteste hanno tolto il sonno ai dirigenti scolastici e al prefetto, che hanno messo in atto una repressione a suon di denunce e manganellate per costringere gli studenti a fermare le occupazioni. A ottobre, in risposta al tentativo di occupazione del Liceo Ripetta, la polizia si è presentata in tenuta antisommossa mandando all’ospedale uno studente ed è stata denunciata anche una molestia sessuale ai danni di una studentessa. Ancora a dicembre al Liceo Plauto la polizia è intervenuta aggressivamente e ha posto in stato di fermo una decina di studenti. In altre realtà come al De Chirico la preside ha usato la Dad per stroncare l’eventuale partecipazione ad una possibile occupazione. Proprio come quando i padroni chiudono una fabbrica contro le lotte operaie con la cosiddetta “serrata padronale” così i presidi-manager, con il potere che gli conferisce l’autonomia scolastica, hanno chiuso le scuole contro la lotta studentesca.

Il picco della repressione violenta, però, si è raggiunto durante la manifestazione del 17 dicembre, convocata proprio contro questi episodi, quando le forze dell’ordine hanno aggredito a calci e manganellate un gruppo di studenti che si era distaccato dal corteo per raggiungere la prefettura.

La violenza da parte delle forze dell’ordine non va vista soltanto come il risultato della brutalità dei singoli poliziotti. Non si tratta di mele marce fuori controllo, la violenza delle forze dell’ordine è la naturale conseguenza del loro ruolo nel sistema capitalista: mantenere “l’ordine e la giustizia”, ma come li vuole chi comanda questo sistema, dovendo perciò reprimere con la forza ogni forma di resistenza da parte della parte oppressa della società.

Un discorso molto simile deve essere applicato per i presidi e le altre istituzioni scolastiche. Molti di questi, durante i primi giorni dell’anno scolastico, avevano proferito parole di conforto per gli studenti. Non appena sono iniziate le mobilitazioni e le occupazioni, però, i dirigenti scolastici sono diventati i primi sceriffi della repressione, sia minacciando gli studenti in sciopero con voti bassi e sanzioni, sia pretendendo l’intervento della polizia, come successo al Plauto. Il loro è un ruolo ben preciso, che è stato stabilito dall’autonomia scolastica: i cosiddetti presidi-manager devono amministrare la scuola come se fosse un’azienda, riducendo al minimo ogni dissenso che possa “danneggiarne l’immagine”.

Nelle ultime settimane sono anche arrivate le parole del direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale Lazio, Rocco Pinneri, che ha invitato i presidi a denunciare gli occupanti per interruzione di pubblico servizio. Una posizione che evidenzia come lo Stato e le sue istituzioni vedano negli studenti un nemico da abbattere e silenziare, non appena questi ultimi cercano di protestare contro il sistema che non gli garantisce un vero diritto allo studio.

Il copione quindi è sempre lo stesso: da un lato rassicurazioni ipocrite, dall’altro repressione quando ci si mobilita per cambiare le cose. Non possiamo avere nessuna illusione verso queste istituzioni. Un cambiamento può essere conquistato solo grazie a una mobilitazione ampia, determinata e organizzata, con un programma chiaro e metodi che permettano di estendere la lotta per fronteggiare realmente i nostri avversari. Per fare questo è però necessario superare alcuni limiti che sono emersi in queste settimane e come militanti che hanno partecipato e partecipano a queste mobilitazioni avanziamo alcuni punti che riteniamo imprescindibili per l’avanzamento della lotta.

Come si propone e si conduce un’occupazione è fondamentale. L’occupazione è uno strumento di lotta collettiva, in cui al normale funzionamento della scuola si sostituisce l’organizzazione democratica da parte degli studenti (ed eventualmente dei lavoratori che aderiscono alla lotta), per discutere dei problemi politici, delle rivendicazioni da avanzare, e di come estendere e rafforzare la mobilitazione. Deve coinvolgere gli studenti, offrire ampi spazi di discussione e avere un funzionamento democratico. Non può essere invece vista come una mera ricerca di visibilità da parte di questo o quel collettivo o organizzazione giovanile, incuranti dell’effettivo appoggio nella scuola.

In più di una scuola di Roma, soprattutto nell’ultima fase, le occupazioni non sono state portate avanti dalla maggioranza degli studenti, ma da settori minoritari con il coinvolgimento di organizzazioni esterne, un ristretto numero di studenti che ha deciso tutto e per tutti, con una parte del corpo studentesco che a volte si è addirittura opposto esplicitamente all’occupazione. Non parliamo di studenti di destra, ma di ragazzi che semplicemente sono stati esclusi da ogni processo decisionale e pur condividendo le ragioni della protesta si sono dissociati dal metodo con cui è stata portata avanti. Il caso limite è stato quello della seconda occupazione dell’Albertelli, dove addirittura degli studenti hanno contro-manifestato il loro dissenso dopo aver visto le immagini della scuola vandalizzata dagli esterni, con banchi distrutti e muri imbrattati. Sia chiaro, le campagne dei media che attaccano gli “occupanti incivili, ignoranti e brutali” mentre i “bravi studenti” vogliono studiare e non fare politica sono una caricatura nauseante. A distruggere la scuola e il diritto alla studio sono stati i tagli e le controriforme dei signori al governo e non chi lotta. Ma è evidente che una gestione simile di un’occupazione è demenziale ed è esattamente quello che vogliono presidi e giornalisti prezzolati per attaccare l’idea stessa della mobilitazione e per giustificare la repressione della polizia. E, quel che è più grave, una simile gestione distacca dalla mobilitazione la maggioranza degli studenti, che sarebbero invece disponibili a lottare, ma non con questi metodi.

Si noti anche che il peso di ripulire la scuola lo pagherà il personale Ata che è già sotto enorme pressione e sotto organico. Scenari simili minano l’unità studenti-lavoratori che dovrebbe essere a nostro avviso un punto fondamentale del programma di lotta per la scuola pubblica e non solo.

Tutti i passaggi della mobilitazione devono essere sottoposti alla partecipazione e al controllo democratico degli studenti. La discussione sui piani del governo, la mobilitazione contro i soprusi dei dirigenti scolastici, il programma per cui lottare e i metodi con cui farlo vanno discussi e votati nelle assemblee.

È necessario che le scuole non si muovano in ordine sparso ma la mobilitazione sia coordinata, per non disperdere le forze ma concentrarle. Le scuole in lotta devono eleggere rappresentanti eleggibili e revocabili per coordinare democraticamente le mobilitazioni dal livello cittadino fino a quello nazionale.

Abbiamo invece visto l’opposto. Una battaglia condotta dalle organizzazioni studentesche romane volta solo a conquistare visibilità, in cui spesso occupazioni e manifestazioni erano contrapposte fra loro a seconda di chi le avesse promosse, senza che venissero spiegate le differenze politiche agli studenti e senza che questi avessero alcun controllo. Questa, ci duole dirlo, è una ricetta per la sconfitta.

Un esempio concreto: a seguito delle mobilitazioni e del corteo del 17, la prefettura ha accettato di sedersi a un tavolo di concertazione (nientemeno) … dove si è discusso della richiesta mossa dalle organizzazioni studentesche per l’apertura di altri 3 tavoli (!): uno con la prefettura stessa per la gestione degli scaglionamenti all’entrata, uno con il Miur per la gestione dei fondi del Pnrr dedicati alla scuola e uno con la città metropolitana per quanto riguarda l’edilizia scolastica, oltre che lo stop a sanzioni e denunce a carico degli occupanti. Dopo qualche giorno l’assessora Pratelli e il delegato alle politiche giovanili Marinone della giunta Gualtieri (PD) hanno anche invitato dei rappresentanti a discutere in Comune. Si tratta del più classico gioco per far perdere tempo e far sfiatare le mobilitazioni, come avviene in qualunque vertenza operaia. Inutile dire che in assenza di un meccanismo di discussione democratico, gli studenti non hanno nessuno modo di determinare richieste, posizioni e decisioni che verranno prese e il pallino della discussione è tutta nelle mani delle istituzioni.

Con questo approccio, per quanto si possa provare a dare un messaggio radicale con le occupazioni, l’unico orizzonte è provare a fare un po’ di generica pressione alle istituzioni, senza ottenere nulla. Colpisce che a tre mesi dall’inizio delle mobilitazioni, manchi ancora un programma rivendicativo. Questo programma dovrebbe essere la prima cosa discussa nelle scuole, per approvare delle rivendicazioni condivise attorno a cui lottare. Avanziamo qui alcuni punti che riteniamo imprescindibili: raddoppio del finanziamento all’istruzione pubblica; classi di massimo 15 studenti per garantire sicurezza sanitaria e qualità della didattica; gratuità totale e fornitura di tutti i materiali didattici necessari; trasporti pubblici raddoppiati in capacità e frequenza e gratuiti; assunzione del personale docente e Ata necessario, a partire da 200mila lavoratori; no all’autonomia scolastica e ai presidi-manager, per una reale democrazia nelle scuole; no a tutte le forme di repressione contro gli studenti in lotta. Le risorse necessarie si prendano dall’azzeramento ai finanziamenti alle scuole private, dalle spese militari, dai finanziamenti a banche e grandi aziende.

Questi punti sono un contributo che portiamo per la discussione che attraversa in queste settimane le scuole romane e invitiamo chi li condivide a portarli avanti insieme a noi. Il governo Draghi e la Confindustria hanno un programma chiaro di attacco ai giovani e ai lavoratori anche noi abbiamo bisogno di un programma rivoluzionario per combatterli e vincere!

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