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Roghi e inceneritori: il profitto capitalista nel sistema dei rifiuti

Negli ultimi tre anni abbiamo assistito all’intensificarsi di roghi di capannoni pieni di rifiuti di ogni genere. In particolare in Lombardia, questo fenomeno sta assumendo caratteristiche sempre più diffuse. A Milano, il rogo nel quartiere di Quarto Oggiaro ha creato molte proteste tra i residenti, vista la colonna di fumo che ha coperto il cielo della città e le enormi fiamme. Ci sono voluti giorni per lo spegnimento delle fiamme, mentre gli enti cercavano di rassicurare i cittadini sulla mancanza di pericoli.

Ma quello di Quarto Oggiaro non è stato l’unico evento; nell’ottobre 2017 a Cinisello Balsamo è scoppiato un rogo nell’impianto di trattamento rifiuti della Carluccio Srl, mentre nel luglio dello stesso anno un rogo coinvolgeva l’impianto a Bruzzano, sempre della Carluccio Srl. Il rogo di Cinisello ha interessato 18 mezzi di soccorso con 40 operatori per 13 ore consecutive di lavoro. Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul traffico illecito dei rifiuti si può leggere: “Alcuni operanti dei Vigili del fuoco, presenti al sopralluogo, hanno evidenziato le perplessità destate sia dalla modalità di incendio, in quanto giunti sul posto notavano il portellone dell’impianto spalancato, sia dalla coincidenza per cui altro incendio si fosse sviluppato qualche mese prima – 2 luglio 2017 – presso altro impianto di proprietà della Carluccio s.r.l. a Bruzzano (MI) anch’esso di vaste proporzioni”. Quindi, per la società Carluccio non era il primo caso di incendio, e stando alle parole della Commissione, con identici fattori.

Questa Commissione parlamentare ha indagato proprio sulla questione dei roghi e ha approvato il 17 gennaio 2018 la relazione: “Fenomeno degli incendi negli impianti di trattamento e smaltimento rifiuti”.

Bruciano i rifiuti!

Il 16 ottobre 2018 un incendio si è sviluppato in un impianto di Novate Milanese, il 25 ottobre ne scoppiava uno nella discarica San Rocco di Cremona e il 30 ottobre 2018 un altro in un impianto rifiuti di Peschiera Borromeo. Questo fenomeno non colpisce solamente il Nord Italia, ma tutta la penisola. Basti ricordare i casi dell’incendio della Lea di Marcianise il 27 ottobre, il 2 novembre in un impianto di Santa Maria Capua Vetere e il 14 novembre a Catania.

Ma non sono solo i capannoni ad andare a fuoco. In tutta Italia sono disseminate discariche abusive di qualsiasi genere di rifiuti ingombranti che vengono dati alle fiamme, spesso vicino alle stesse abitazioni.

E mentre i roghi cominciano a diventare diffusi, sono sempre più i sequestri di capannoni pieni di rifiuti pronti per esser dati alle fiamme. Uno dei casi finiti sotto i riflettori è stato quello di Cinisello Balsamo (Mi), dove 60 tonnellate di rifiuti erano stoccati, pronti per esser dati alle fiamme.

La Lombardia e il Nord sono al centro di una vera emergenza. Basti pensare, che in base ai dati della Commissione parlamentare, il 47% degli incendi analizzati è avvenuta al Nord, 16,5% al Centro, il 23,7% al Sud e il 12,3% nelle isole (dati fino a settembre 2017).

Questo dato impressionante ci dice che assistiamo alla inversione di flusso del rifiuto dal sud al nord. È la stessa Commissione che lo segnala nella relazione: “La distribuzione territoriale vede una prevalenza di eventi al Nord, il che, in mancanza, come oltre si dirà, di spiegazioni omogenee per il fenomeno, al di là del diffuso “sovraccarico” degli impianti, conferma indirettamente quantomeno l’inversione del flusso dei rifiuti rispetto a storiche emergenze che hanno in passato colpito le regioni meridionali. Alla maggiore concentrazione degli impianti di recupero e di smaltimento rifiuti al Nord contribuisce una logica preferenza per la vicinanza alla domanda, conseguente alla maggiore presenza di impianti industriali e alla maggiore urbanizzazione del territorio rispetto al Centro-Sud e alle Isole.”

In Lombardia nel 2018 ci sono stati più di 20 incendi, mentre dal 2015 al 2018 Legambiente segnala 33 casi in Lombardia.

Secondo il Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, citato nella stessa relazione, l’aumento tra il 2016 e il 2017 è stato del 59%. Negli ultimi due anni ci sono stati più di 250 casi di incendio. Stando alla commissione Parlamentare, dal 2014 fino ad agosto 2017 ci sono stati 218 casi di incendio in impianti e 32 in discariche, con un’ impennata dal 2015.

Questa situazione ha allertato lo stesso ministro dell’ambiente pentastellato Costa che ha dichiarato: “La guerra dei rifiuti in Lombardia è una battaglia che intendiamo combattere con fermezza e risolutezza da subito. Ma la Lombardia è terra dei fuochi come il resto d’Italia, anche per questo stiamo scrivendo la norma Terra dei Fuochi”.

Per ora solamente parole, mentre i roghi continuano incessantemente.

Discutere dei flussi dei rifiuti è veramente importante per capire il fenomeno. Si sono solamente invertiti i flussi. Non più dal nord al sud, ma dal sud al Nord, e dal nord verso altre nazioni.

Con l’arresto nel gennaio 2018 della banda criminale che ha dato fuoco al capannone di Corteolona in provincia di Pavia, si è subito capito che dietro ai molti roghi c’era un tentativo criminale mafioso di smaltire i rifiuti. Ritengo però che ci siano ulteriori motivazioni che vanno spiegate.

Una grossa nube di fumo invase la pianura pavese, con il livello di attenzione ambientale alle stelle per l’allarme diossina. Duemila metri quadrati di capannone riempito con ogni genere di schifezza, plastica, carta e anche rifiuti pericolosi come olii.

Nell’ottobre di quest’anno sei persone sono state arrestate nell’ambito dell’ inchiesta. Si tratta di una banda di italiani e stranieri che smaltivano illegalmente rifiuti. Si presume che fossero anche dietro ad altri roghi. Uno dei capi del sodalizio era già pronto a rilevare altri capannoni vuoti da riempire tra Bergamo, Sondrio e Novara. In questa inchiesta sono stati calcolati più di un milione di euro di incassi ingiusti più 69.500 euro di ecotassa mai pagata alla Regione. Sconvolgente è il messaggio whatsapp del 3 gennaio di Vincenzo Divino (uno degli autori): “Ho ritirato la torta poco fa… ho fatto mettere la frutta… sopra tutti i lati e ho abbondato al centro con il liquore. Domani se la assaggi ti ubriacherai tanto tanto”.

Gli imprenditori e il sistema deviato

Ancora una volta, come negli anni passati, dietro al sistema rifiuti girano enormi interessi dell’industria italiana.

Gli imprenditori, per ridurre i costi di smaltimento e aumentare i profitti, cercano di smaltire illegalmente gli scarti di produzione. A questi si aggiungono i rifiuti urbani, a causa della malagestione di tutto il sistema.

Queste accuse all’imprenditoria non provengono da fantomatici “facinorosi”, ma dagli stessi organismi d’indagine.

Nell’audizione alla commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, ha dichiarato: “Vi ho detto sommariamente che, quando parliamo di reati in materia di rifiuti, è più vicino alla realtà parlare di delitti di impresa che non di delitti di mafia, perché sono le imprese che attivano il ciclo illegale di rifiuti, non le organizzazioni mafiose. Le organizzazioni mafiose svolgono un servizio rispetto alle imprese, che, per risparmiare e soprattutto per nascondere i rifiuti provenienti dalla propria produzione in nero, che non possono che essere smaltiti in nero, si rivolgono alle organizzazioni criminali, o comunque a organizzazioni di smaltitori disposte a smaltire illegalmente. Dunque, l’impulso viene dalle imprese e le organizzazioni criminali, anche mafiose, svolgono il servizio di smaltimento illegale. (…) Si è compreso, cioè, che anche il disastro verificatosi in Campania, che ha fatto sì che si coniasse il termine ‘ecomafia’, era un fenomeno che non prendeva le proprie mosse dalle scelte della criminalità organizzata di tipo mafioso, ma da scelte effettuate da altri soggetti, i quali hanno utilizzato la criminalità mafiosa come i padroni si servono – scusate la ripetizione – dei servi”.

Per Sandro Raimondi, ex procuratore aggiunto di Brescia e uno dei magistrati più impegnati nelle inchieste sui roghi in Lombardia: “Ormai si può fare a meno, per certi aspetti, di rivolgersi obbligatoriamente alla criminalità organizzata. È diventato un modo intelligente di fare impresa da parte di alcuni operanti del settore. Io lo definisco un reato di impresa dove l’imprenditore ha imparato come fare da solo, in modo autarchico”.

Stando a Roberto Pennisi, magistrato della Direzione distrettuale antimafia (Dda), specializzato in crimini ambientali, “oggi in Italia c’è una gestione dei rifiuti deviata, in cui la regola è questa: il rifiuto meno lo tocchi più guadagni. Ragione per la quale l’interesse di chi ha acquisito i rifiuti sarebbe quello di portare tutto in discarica”. Siccome le discariche sono poco funzionanti e i rifiuti hanno bisogno di trattamento, che costa, “per evitare di toccare questi rifiuti tante volte arriva il benedetto fuoco. Quello che brucia va in fumo e il fumo non si tocca più”.

Nel capitalismo le mafie fanno e faranno sempre il lavoro sporco, ma il vero mandante è sempre la classe borghese.

Il problema dei rifiuti, in un paese come l’Italia, assume sempre più caratteri di emergenza, in quanto storicamente non si è mai voluto risolvere il problema. Rispetto ad altri paesi siamo molto indietro nella raccolta differenziata.

Sono anni che si creano vere e proprie emergenze e per abbattere i costi di smaltimento e fare profitti facili l’imprenditoria italiana ha cercato in tutti i modi di smaltire in modo illegale il rifiuto.

Fino ai primi anni ’80, quando la legislazione ha iniziato a trattare la questione più sistematicamente, i rifiuti venivano smaltiti in discariche incontrollate, spesso vicino ai corsi d’acqua. Con l’entrata in vigore delle leggi proprio al nord si è creata una emergenza, soprattutto di rifiuti industriali. L’Italia è piena in ogni angolo di vecchie discariche incontrollate, senza nessun minimo piano di gestione per scongiurare eventuali inquinamenti. Negli anni si sono prodotti centinaia di siti inquinati da bonificare, spesso in carico alle amministrazioni locali e regionali. Per bonificarli tutti ci vorrebbero miliardi di euro. Solo in Lombardia i siti contaminati sono più di 800. Questa situazione ha creato un inquinamento del suolo, ma anche delle falde acquifere superficiali e profonde. Gran parte del territorio attorno al milanese, alla Brianza, al bergamasco e al bresciano presenta contaminazioni puntuali (dovuta a sorgenti di contaminazione) fino alla terza falda acquifera. Ad esempio tutta la bassa bergamasca, l’est milanese, la Brianza, il cremasco trovano contaminazioni di clorurati, spesso rendendo difficoltoso e costoso anche il sistema di depurazione per la fornitura dell’acqua potabile. Il capitalismo ha creato un vero e proprio disastro ambientale, che in questo modello di società non troverà di certo soluzione.

Con la crisi degli anni ’80, l’imprenditoria e i vari consorzi di smaltimento hanno deciso di mandare i rifiuti in meridione. La terra dei fuochi campana è frutto dello smaltimento illecito dei rifiuti di molti imprenditori del nord. La camorra ha solamente giocato il ruolo del servo nello smaltimento illecito.

Molti rifiuti sono poi finiti in altri paesi, soprattutto sottosviluppati. Partivano dai porti italiani (La Spezia in primis) le famose carrette del mare o navi dei veleni. Molte sono state affondate mentre altre venivano abbandonate sulle coste di altri paesi o finivano in altri porti per smaltimenti illeciti. Il caso della Somalia e l’inchiesta che costò la vita alla giornalista Ilaria Alpi dimostrano questo traffico illecito. Spesso assieme ai rifiuti viaggiavano anche le armi. La politica e i servizi segreti statali erano complici di tutti questi giochetti.

Dopo aver saturato il meridione, si è posto di nuovo il problema dello smaltimento in altri luoghi e in altri paesi.

Negli ultimi anni molti rifiuti sono finiti in Cina, sopratutto plastica. Questi traffici non venivano fatti solo via mare dall’Italia, ma anche con scambi intraeuropei su gomma. In tutti modi si è cercato di eludere le leggi in materia ambientale cercando nazioni o porti dove i controlli erano meno severi. Molti rifiuti finivano in Slovenia, per poi partire per la Cina e i paesi asiatici. Altri andavano in Belgio e Olanda per partire dai porti di Anversa e Rotterdam. I rifiuti però non erano a norma, spesso contaminati, al punto che la Cina dal 2017 ha deciso di bloccare le importazioni.

Il blocco cinese e il traffico globale di rifiuti

Il Chinese National Sword (Cns) è una misura restrittiva applicata dalla Cina che ha bloccato 24 tipologie di materiali da rifiuto e ha definito un criterio più severo per i livelli di contaminazione di altre tipologie di rifiuto. Se da un lato questa misura rischia, per incapacità e per voglia di profitto, una catastrofe in Europa con impatti ambientali devastanti, dall’altro lato, cerca di migliorare una situazione già devastante per l’inquinamento cinese. Nella sua forma più semplice è un regolamento stringente in materia di importazione di rifiuti solidi come materie prime; questa politica vieta vari rifiuti come carta, plastica e rifiuti solidi, tra cui il Pet (polietilentereftalato: bottiglie per bevande, fibre sintetiche, nastri per cassette); il Pe (polietilene: sacchetti, flaconi per detergenti, giocattoli, pellicole e altri imballi) , il Pvc (cloruro di polivinile: vaschette per le uova, film, tubi; è anche nelle porte, nelle finestre, nelle piastrelle), il Ps (polistirene): vaschette per alimenti, posate, piatti, bicchieri). Fissa inoltre limiti più severi per le contaminazioni dei rifiuti di materia plastica, della Zorba (rottame metallico non ferroso proveniente da veicoli a fine vita) e di altri metalli, con una purezza percentuale che passa dal 90-95% al 99,5%. Questa mossa intende migliorare la qualità dell’aria in Cina e ridurre l’inquinamento di rifiuti sporchi e pericolosi, oltre a bloccare il contrabbando illegale di rifiuti. Per limitare l’importazione di rifiuti sporchi la Cina ha dichiarato che scansionerà i container ai raggi X. Da un lato ne beneficeranno gli esportatori di prodotti puliti, ma per l’Europa e il mondo significa arrivare all’impasse. Si stima infatti che l’importazione di plastiche sia passata dai 3,5 milioni di tonnellate del 2017 a solo 21.300 tonnellate nell’arco dei primi sei mesi di quest’anno.

ll recente blocco delle importazioni di plastica da riciclare da parte della Cina, che assorbiva oltre il 72% della plastica mondiale, ha letteralmente mandato in tilt il sistema dei rifiuti europeo.

Un gruppo di ricercatori dell’Università della Georgia ad Athens, in un articolo apparso su Le Scienze, stima che questo blocco possa accumulare entro il 2030 110 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. Sempre stando a questo studio, l’aumento del sistema di importazioni ed esportazioni di plastica è stato dell’800 per cento dal 1992 al 2016, con un peggioramento della qualità, al punto di rendere difficile e vantaggioso il riciclaggio. Sempre lo studio spiega come solo il 9 per cento di tutta la plastica mai prodotta è stata riciclata mentre la maggior parte è finita nelle discariche nell’ambiente.

Il blocco stabilito dal Cns è entrato in vigore il 1° gennaio 2018. La Cina ha inoltre adottato un corpus riveduto di norme per altri 34 prodotti che è applicato dal 1° marzo 2018 e riguarda in particolare i rifiuti di pasta di legno, di polimeri, i cascami metallici, nonché i minerali metallici e la plastica.

La geografia del rifiuto ha ormai dimensioni globali. Con il blocco cinese si è subito cercato di dirottare i rifiuti in altri paesi del sud est asiatico (Malesia e Laos).

Lo smaltimento verso paesi poveri ha di certo arricchito ancor di più i padroni europei e italiani, ma ha anche causato un ritardo storico verso il riciclo e il recupero delle materie prime.

Riciclo: questione di profitti

La questione dei costi è veramente importante e infatti è la stessa commissione parlamentare d’inchiesta ad ammettere: “Dietro le esportazioni illegali vi sono forti interessi economici rappresentati dai costi di trattamento e smaltimento dei rifiuti notevolmente inferiori nei paesi in via di sviluppo, determinati principalmente da norme ambientali e sanitarie meno severe di quelle applicate nell’Unione europea e, in alcuni casi, dalla possibilità di eludere totalmente i controlli. Se il paese di destinazione non dispone di norme e capacità di riciclaggio adeguate, non si fa altro che esportare in altre parti del mondo potenziali rischi ambientali e sanitari. L’abbandono dei rifiuti o il loro trattamento non conforme alle norme costituisce una grave minaccia per l’ambiente ed espone i cittadini e gli addetti ai lavori a rischi di salute a lungo termine. Inoltre, le sostanze rilasciate dai rifiuti abbandonati possono inquinare il suolo, le acque e l’aria attraverso l’emissione di metalli pesanti e di inquinanti organici persistenti. Tali emissioni sono inoltre causa del surriscaldamento climatico e del buco dell’ozono”.

Nel sistema capitalistico riciclare costa troppo oppure non genera abbastanza profitti e quindi si cercano altre vie. Ma non c’è solamente la questione dei costi a determinare queste scelte sbagliate in termini ambientali. Il riciclo ridimensiona una fetta del mercato delle estrazioni, in particolar modo quello dei minerali e del petrolio. Recuperando materia vergine dal rifiuto si creerebbe una grossa perdita per le multinazionali petrolifere e dei minerali con tutte le loro politiche neocoloniali nei paesi di estrazione. Inoltre il riciclo ridimensiona gli affari delle discariche e della termovalorizzazione, sopratutto nel recupero di energia dal rifiuto incenerito. Il capitalismo è anche veramente indietro in termini di ricerca per la creazione su larga scala di bioplastiche, proprio perchè non si vuol minare gli interessi dei potenti del petrolio.

Il sussidio mondiale al settore delle fossili è altissimo, alla faccia di tutti i vertici mondiali sul clima e l’ambiente. Il rapporto annuale di Climate Transparency, una federazione internazionale di ong ambientali rileva che i sussidi alle fonti fossili di energia nei paesi del G20 sono aumentati del 50% negli ultimi dieci anni, arrivando a 147 miliardi di dollari nel 2016. 
Basti notare che, solamente in Italia, i sussidi statali per le fossili annui si aggirano intorno alle 16 miliardi di euro.

Enormi profitti vengono fatti ancora con i contributi dei lavoratori e dei meno abbienti.

Sempre la Commissione d’inchiesta ha discusso anche sulle fasi del riciclo e sulle tecnologie adatte. Ma come sempre prevale la logica del profitto. Una delle filiere più interessate alla distorsione dei flussi è la plastica.

In particolar modo ci sono gli imballaggi di plastiche miste e cosiddette Plasmix, imballaggi post-consumo che possono essere impiegate per produrre granuli da riciclo a base poliolefinica e che sono paragonabili ai polimeri vergini.

Riciclare plasmix ha costi superiori alla produzione di polimeri vergini. Questi impianti sono ancora alla fase primordiale.

I dati della Commissione sono eclatanti: “Ogni anno in Italia si immettono sul mercato circa 5 milioni di tonnellate di plastica, ma solo 2 milioni sono imballaggi. Di questi 2 milioni di tonnellate solo la metà viene raccolta in maniera differenziata. Del milione di tonnellate raccolte in modo differenziato meno della metà (400.000 tonnellate stimate) viene recuperata in materia. Attualmente dunque più della metà degli imballaggi plastici raccolti non ha una filiera del recupero e viene considerata come uno scarto che non solo non ha valore, ma rappresenta un costo di smaltimento: di qui la possibilità di volersi liberare di questi “scarti” anche attraverso un illecito trasferimento transfrontaliero”.

Stando a Corepla (Consorzio Recupero Plastica) nel 2017 cresce il riciclo degli imballaggi ma una buona parte finisce negli inceneritori e non recuperato. “Sono 562.000 le tonnellate di rifiuti di imballaggio in plastica provenienti dalla raccolta differenziata domestica riciclate nel 2017 alle quali vanno ad aggiungersi le 24.780 provenienti dalle piattaforme da superfici private per un totale di 586.786 tonnellate. A questa cifra vanno aggiunti i quantitativi di imballaggi in plastica riciclati da operatori industriali indipendenti provenienti dalle attività commerciali e industriali pari a 400.000 tonnellate, per un riciclo complessivo di circa 986.786 tonnellate. Sono stati recuperati anche quegli imballaggi che ancora faticano a trovare sbocchi industriali verso il riciclo meccanico e il mercato delle plastiche riciclate”.

Il recupero energetico, tramite incenerimento, di Corepla è pari a 324.480 tonnellate, in aumento del 6,8% rispetto al 2016. A queste deve essere aggiunto il recupero energetico dei Rifiuti solidi urbani (Rsu) da raccolta indifferenziata e altri circuiti, pari a 584.400 tonnellate, per un totale di 908.880 tonnellate che vanno nei termovalorizzatori.

In pratica, il 43% della plastica viene riciclato, il 40% incenerito e il restante finisce in discarica. È proprio Corepla che ammette la mancanza di sbocchi commerciali per buona parte delle plastiche. Corepla nasce nel 1997 e si occupa del riciclo della plastica. L’adesione è obbligatoria per i produttori di plastica e volontaria per i riciclatori. La legge nazionale riconosce il contributo di 188 euro/tonnellata solo agli imballaggi di plastica, e per estensione concettuale ai contenitori in genere, quindi bottiglie, flaconi, ecc. Altri tipi di prodotti pur se fatti con lo stesso materiale, es. posate, bicchieri, ecc., non godono del ritiro e pagamento da parte del Corepla). Questa limitazione del rimborso ai soli rifiuti da imballaggi è uno dei passaggi chiave che condiziona tutta la filiera di recupero della plastica. Infatti la plastica indifferenziata è senza contributo e finisce direttamente negli inceneritori per aumentare il potere calorico. Gli inceneritori funzionano solamente perchè non si vuole recuperare le materie prime. Questo dato è da leggere anche rispetto all’aumento nel 2017 del 2% del consumo complessivo di polimeri termoplastici vergini su scala nazionale.

Dopo il blocco cinese l’emergenza è esplosa a livello italiano e la questione dei rifiuti è tornata ad occupare le prime pagine e a condizionare in primo piano il dibattito politico.

L’uscita di Salvini sulla necessità di nuovi termovalorizzatori (inceneritori) non arriva a caso. Salvini è l’espressione più pura di tutta una fetta di imprenditoria dal profitto facile, anche per lo smaltimento dei rifiuti.

Ma non c’è solo la plastica che finisce nei termovalorizzatori, ma anche altre materie che si potrebbero riciclare a partire dalla carta.

Attorno al ciclo dei rifiuti c’è un grosso giro d’affari. Secondo l’associazione Cittadini Reattivi di Rosy Battaglia, il costo del giro d’affari, sulla gestione dei rifiuti in Italia è di 13 miliardi di euro ogni anno. In base allo studio di Cittadini Reattivi (dati 2014) mentre i vari consorzi della filiera del recupero (Conai, Corepla, ecc.) hanno trattato rifiuti provenienti dalla differenziata per un valore di 1,9 miliardi, di questi solo 390 milioni sono rientrati nelle casse dei Comuni. I Consorzi, è bene ricordarlo, sono privati.

I dati del Rapporto Rifiuti Urbani (2017) prodotto dall’Ispra sono altrettanto significativi.

In Italia nel 2016, la differenziata è pari al 52,5%. Quasi la metà dei rifiuti non viene ancora riciclato. Questo dato non è omogeneo in tutta Italia, infatti le regioni del nord riciclano il 64,2%, quelle del centro il 48,6% e quelle del sud il 37,6%. Questo dato deve però anche essere visto in base alla produzione delle tre macroregioni italiane. Infatti al nord si produce molto più rifiuto. Nel 2016, a livello nazionale sono stati prodotti complessivamente 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti. Di questi, 14,1 milioni sono prodotti al nord, 6,6 al centro e 9,3 al sud. Calcolando che la popolazione al nord è di circa 27,7 milioni di persone, al centro di 12 milioni e al sud di 20,7 milioni, risulta che la produzione del rifiuto non è omogenea in tutta Italia.

La produzione procapite di rifiuti, calcolata come kg/abitante anno, è di 510,2 al nord, 548 al centro e 450 al sud. La produzione differenziata a livello macroregionale, dimostra ancora lo sviluppo diseguale del nostro paese. Infatti al sud si produce meno rifiuto perchè si consuma meno in base al mancato sviluppo economico provocato dal capitalismo italiano.

Sempre stando ai dati Ispra, in base alla composizione merceologica dei rifiuti urbani globali, scopriamo che 12,9% è composto dalla plastica, mentre la plastica avviata a riciclaggio è solamente il 6,8% dei rifiuti differenziati. Poco meno della metà della plastica non viene riciclata e recuperata, come dichiarato anche da Corepla.

L’indifferenziata è fondamentale per alimentare il sistema delle discariche e degli inceneritori. Con una riduzione dell’indifferenziata, tramite una gestione corretta della raccolta differenziata, gli inceneritori e le discariche avrebbero vita breve, o almeno dovrebbero essere ridimensionati come settore di smaltimento rifiuto.

In Italia il 25% dei rifiuti urbani finisce ancora in discarica, con punte altissime al sud. Il 18% finisce negli inceneritori, il 2% finisce al coincenerimento, utile per la combustione degli impianti produttivi come i cementifici o le centrali termoelettriche, l’1% finisce come copertura delle discariche, mentre il 3% costituito da rifiuti derivanti dagli impianti Tmb (Trattamento meccanico biologico), viene inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di Css (Combustibile solido secondario) o la biostabilizzazione. Più dell’1% viene esportato.

In pratica, metà dei rifiuti italiani vengono smaltiti con pratiche ambientalmente non compatibili.

A monte di tutto questo processo di smaltimento si sono i famosi Tmb, per i quali passa più di un terzo del rifiuto prodotto in Italia (10,9 milioni di tonnellate), per essere lavorato e pronto per lo smaltimento in discarica o incenerimento. Il rifiuto recuperato per essere riciclato dal processo Tmb è una parte miserrima.

Di questo rifiuto che passa nelle Tmb, più della metà (5,2 milioni) è prodotto nel meridione.

È proprio l’Ispra ad segnalare che “sempre più il trattamento meccanico biologico rappresenta la forma di gestione utilizzata per pretrattare i rifiuti da smaltire in discarica, da qui il considerevole aumento delle quantità trattate”. Ed è proprio dietro ai Tmb, agli inceneritori e alle discariche che si creano gli enormi affari del settore rifiuti.

Infatti nelle destinazioni finali dei rifiuti/materiali prodotti dai Tmb, il 54,7% finisce in discarica, il 27,4% in incenerimento e coincenerimento, il 6,5% in biostabilizzazione, il 2,6% per la copertura di discariche. Solamente il 2,4% è il materiale effettivamente recuperato per essere riciclato.

Rilanciare i termovalorizzatori?

L’incenerimento del rifiuto è la mossa più semplice e a breve termine per risolvere il problema della presunta emergenza dovuta al blocco cinese. Incenerire crea enormi profitti sia per lo smaltimento veloce, sia per l’energia prodotta dai termovalorizzatori. Ma incenerire non è di certo la mossa più pulita, anzi. Con questo metodo si andrebbe a creare un ulteriore inquinamento, sopratutto quello dell’aria, che negli ultimi due anni ha visto un peggioramento di qualità proprio per l’Italia. Il nostro paese rischia l’ennesima infrazione europea per l’inquinamento atmosferico e il superamento dei limiti di particolato fine. La pianura padana è ormai considerata a livello scientifico mondiale una vera e propria camera a gas, tanto che viene considerata come una delle zone meno ospitali del mondo da un punto di vista ambientale. Il blocco degli euro 3 e anche degli euro 4 in tante città italiane, a partire da Milano e hinterland, è conseguenza proprio di questo inquinamento.

Incenerire vorrebbe dire peggiorare una situazione che è già emergenziale. Inoltre gli inceneritori producono rifiuti tossici.

Stando a Agostino di Ciaula, direttore scientifico di Isde Italia, gli inceneritori producono tanti rifiuti tossici. “Il solo inceneritore di Brescia produce 163.000 ton di rifiuti tossici, solo poco meno dei rifiuti urbani che l’intera regione Veneto (72,9% di differenziata) smaltisce in discarica (233.000 ton). L’inceneritore di Acerra produce oltre 150.000 ton di rifiuti tossici, più di tutti i rifiuti urbani smaltiti in discarica dalla Liguria (144.000 ton). L’insieme degli inceneritori del nord produce circa un milione di tonnellate di rifiuti tossici pericolosi. Senza contare le enormi emissioni inquinanti in atmosfera (che viene così anch’essa trasformata in una discarica per rifiuti pericolosi) e i benefici economici e ambientali che si avrebbero recuperando materia invece che bruciandola. Treviso ha raggiunto 87,9% di differenziata e ridotto la sua produzione di rifiuti, perché in passato ha scelto deliberatamente di non incenerire”.

Stando al Rapporto Ispra 2017, incenerire produce il 23% di rifiuto. Ovviamente questo rifiuto deve essere smaltito in discarica. In Italia, il rifiuto trattato negli inceneritori è pari a 6,2 milioni di tonnellate. Dall’incenerimento escono 1,4 milioni di tonnellate di altro rifiuto, tra ceneri pesanti pericolose, ceneri leggere pericolose, scorie pericolose, rifiuti da processi di abbattimento fumi, sabbie dei reattori, fanghi, materiali ferrosi, ceneri e scorie non pericolose.

Sono dati veramente allarmanti ma che non interessano ai padroni della filiera dell’incenerimento e ai loro lacchè politici, in primis Salvini.

Attorno agli inceneritori si è creato l’ennesimo scontro governativo tra i leghisti e i pentastellati. È difficile dire come andrà a finire, anche se in ogni caso il messaggio di Salvini è chiaro e cerca di rassicurare tutti quei poteri forti e la Confindustria italiana che vogliono l’incenerimento. Probabilmente questo messaggio è anche un punto qualificante per un futuro governo di destra, appena la crisi porterà alla fine del governo attuale.

In questo scontro pesano anche le parole del presidente leghista della Regione Lombardia, Fontana: “Se Di Maio pensa che i nostri impianti inquinano, allora non accetteremo più rifiuti del Sud, io rilancio con questa mezza provocazione e mezza proposta, dicendo che allora iniziamo a smettere di bruciare rifiuti di altre regioni. Chiederemo di cambiare la legge allo Stato che ci impone di accettare rifiuti di altre regioni e a quel punto non sarà più una provocazione”.

Precisamente lo scontro sui rifiuti è un altro elemento nelle divisioni nel governo.

In ogni caso è il peso dei padroni italiani il fattore determinante. Da mesi i principali quotidiani borghesi spingono con campagne martellanti sulla necessità dell’incenerimento dopo il blocco cinese. La stessa questione dei roghi ha portato proprio a ipotizzare questa soluzione.

Confindustria si è molto spesa in passato per il decreto Sblocca Italia del governo Renzi. Con l’art.35 dello Sblocca Italia e il relativo Dpcm del 10 agosto 2016, è stata stabilita la necessità di nuovi otto inceneritori per soddisfare il fabbisogno nazionale. Questi erano previsti proprio al sud e al centro Italia.

Creare l’emergenza!

La creazione degli stati di emergenza serve solo all’accettazione del dato di fatto, cioè dell’emergenza stessa, e delle soluzioni proposte dalla classe dominante. Questo è almeno quello che cercano di fare i padroni, i politici borghesi e i mass media borghesi.

La creazione dei roghi dei capannoni è fatta ad arte per creare l’emergenza e spingere verso gli inceneritori? Ancora una volta la criminalità organizzata viene usata per creare questa emergenza? Tutto questo non è da escludere. Sono troppi gli incendi di questi ultimi mesi e le conseguenze sul dibattito politico. Questa emergenza è creata ad arte dalla classe dominante per risolvere la sua incapacità di gestire in modo ecologico i rifiuti e per la sete di profitti facili. Non bisogna troppo girarci attorno. Ormai tutti i pezzi forti dello Stato vanno verso la necessità dell’incenerimento. L’art. 35 dello Sblocca Italia di Renzi sugli inceneritori è fermo dopo la Sentenza del Tar del Lazio che ha dato ragione ai comitati ecologisti. Il Tar ha rimpallato la decisione ai giudici europei. Nel frattempo anche Roberto Pennisi della Dda si è espresso favorevolmente verso gli inceneritori.

In una intervista ad Avvenire il magistrato ha rilasciato una dichiarazione molto chiara e netta: “Fin quando c’è stata la disponibilità della camorra veniva comodo rivolgersi a loro, ora è proprio il sistema economico a muoversi illegalmente. Perché mancano gli impianti. La verità è che ci vogliono i termovalorizzatori, ovviamente gestiti bene. Invece i nostri rifiuti li mandiamo all’estero dove vengono bruciati producendo energia. Oppure ci rivolgiamo al mercato illecito nazionale”.

Questa dichiarazione è più che discutibile, visto che anche nel settore degli inceneritori si è infiltrata la criminalità organizzata, come nel caso delle mani della ‘ndrangheta sul termovalorizzatore di Gioia Tauro. Ma la stessa cosa sta avvenendo anche in Sicilia, viste le denunce continue dei comitati che si oppongono agli inceneritori.

Nazionalizzare il sistema dei rifiuti!

Termovalorizzare i rifiuti vuol dire un sacco di profitti. Le aziende che gesticono questa filiera hanno raggiunto utili stratosferici.

Nel 2012, in Europa c’erano 480 impianti, per lo più di capacità media.
 Una analisi di Frost & Sullivan, intitolata “European Waste to Energy Plant Market” rileva che il mercato ha prodotto entrate per circa 4,22 miliardi di dollari nel 2012, si stimava che questa cifra avrebbe raggiunto quota 4,94 miliardi di dollari nel 2016.

Scrive Repubblica: “A monte il business dei rifiuti urbani: 11 miliardi di euro all’anno, di cui 5 spesi per sostenere i costi del personale dei 100mila lavoratori del settore; 2 miliardi di costi operativi di gestione (camion, officine, attrezzi, ecc.); e 400 milioni di investimenti per la manutenzione e il rinnovo delle flotte. Quello che rimane, oltre 3 miliardi l’anno, è il business puro, ossia il costo sostenuto per smaltire e trattare i rifiuti”.

Stando all’Istat, “tra il 2010 e il 2017 l’indice di costo della gestione dei rifiuti aumenta del 16,3%, trainato dagli acquisti di beni e servizi (+22,1%), a fronte di andamenti più contenuti per le spese del personale (+6,7%) e del costo d’uso del capitale (+1,3%)”. Tutti questi costi finiscono direttamente nelle bollette dei contribuenti.

In Italia abbiamo 41 inceneritori che bruciano quasi un quinto dei rifiuti, abbiamo inoltre 134 discariche che smaltiscono un quarto dei rifiuti. La quantità smaltita in discarica è circa 7,4 milioni di tonnellate. Di queste, 3,9 milioni sono solo nel meridione.

La vera emergenza italiana nel ciclo dei rifiuti resta il fatto che la differenziata è ancora molto indietro.

Caro Salvini, in Italia non servono nuovi inceneritori. Serve un serio investimento nella raccolta differenziata, in modo da recuperare il massimo della materia e abbattere i costi delle bollette.

Infatti proprio attorno ai costi serve fare un serio ragionamento e i dati ce li fornisce la stessa Ispra.

In base ad uno studio campione dell’Ispra, i costi totali annui 2016 per kg di rifiuto (eurocentesimo/kg), al nord sono di 34,27, al centro di 39,46 e al sud di 43,36.

Al sud, dove si ricicla meno, a causa di politiche di gestione del tutto sbagliate, il costo è decisamente superiore. Questo costo influisce direttamente in bolletta.

Dai dati forniti da Ispra, è interessante notare, come i costi differenziano anche in base all’abitante per classe di popolazione. In pratica si passa da un costo di 161,31 euro per gli abitanti dei paesi sotto i 5000 abitanti, ad oltre 260,27 euro per gli abitanti di città superiori alle 150mila unità.

Ma è interessante anche un altro dato fornito da Ispra, quello della diminuzione del costo in rapporto all’aumento della differenziata. Nei paesi con meno di 5000 abitanti, si può passare da un costo di 191,49 euro annui con un differenziata tra il 20% e il 40% a un costo di 121 euro annui con la differenziata superiore al 60%.

Per gli abitanti di città superiori alle 150 mila unità, si passerebbe da una media di 223 euro a 193 euro.

Differenziare costa meno, ma produce molti meno profitti ai padroni del sistema rifiuti.

Il ciclo dei rifiuti è nella maggior parte dei casi privato. Proprio la gestione privatistica ha permesso gli enormi profitti e i danni ambientali. Anche dove la gestione del rifiuto è pubblica, le società sono Spa, con logiche di mercato e di rincorsa al profitto, tralasciando la qualità e gli impatti ambientali. In questo sistema si inseriscono perfettamente anche le mafie che controllano il loro pezzo di mercato. Negli ultimi anni, assistiamo sempre più a fusioni, vendite e accorpamenti di piccole società, verso grandi multiutility quotate in borsa. I casi Iren, Hera e A2A sono quelli più conosciuti. Il capitalismo non è assolutamente in grado di dare risposte a questa questione. Solo la nazionalizzazione e il controllo diretto dei lavoratori del settore e dei contribuenti può rompere questo circolo vizioso di profitti e malaffare. Altre soluzioni non esistono. Il rifiuto è di sicuro un costo per le aziende private, ma può diventare un bene per il recupero dei materiali, solamente se gestito in modo sociale.

Altra questione riguarda il settore della ricerca, dove il capitalismo è indietro anni luce. Solo con un piano di nazionalizzazione e controllo dei lavoratori della ricerca, fuori dalla logica del mercato, si può risolvere anche la questione dei rifiuti e fermare questo business che ha provocato un collasso ambientale.

I rifiuti e il capitalismo. Verso un movimento di massa

Il capitalismo è totalmente incapace di risolvere la questione dell’inquinamento e del disastro ambientale, così come la questione del cambiamento climatico. L’ambiente sarà sempre più depredato per il profitto il modello di sviluppo illogico e irrazionale.

Basti dire che la sovrapproduzione delle merci è un danno ambientale incalcolabile. Cercare una soluzione riformista e interna al capitalismo per risolvere la questione ambientale è pura utopia, perchè ci si scontra con le basi stesse del capitalismo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a grandi movimenti ecologisti in tutto il mondo, per effetto dei disastri sempre più frequenti. Anche in Italia ci sono state importantissime lotte, i No Tap, i No Tav, No Triv, solo per citare quelle più conosciute. Migliaia di comitati per la difesa dell’ambiente e contro le grandi opere hanno portato alla mobilitazione di milioni di persone. Di fronte a mobilitazioni sempre più grandi, assistiamo ad una degenerazione delle strutture storiche del movimento ecologista. La scomparsa dei Verdi dalla scena politica italiana è solo il caso più emblematico, dovuto ad anni di riformismo e accordi del partito ecologista. A livello europeo vediamo i verdi tedeschi e francesi completamente schierati in favore delle politiche liberiste, tanto che la borghesia li considera come partiti di governo pienamente affidabili. In Italia questo malessere è stato capitalizzato negli ultimi anni dai 5 Stelle che parlavano dell’ambiente una loro “stella”. Ma sempre più anche per i pentastellati si aprono mille contraddizioni e si avvicina l’ora della verità. Con il governo, i 5 stelle hanno dovuto cedere su Tap, Terzo Valico, decreto fanghi e anche la posizione su Tav scricchiola. Sempre più chi ha riposto speranze nei grillini dovrà ricredersi, e già ora vediamo primi segnali di crisi. La contestazione in Salento per la questione del Tap è solo una punta dell’iceberg della crisi futura sulla questione ambientale. Anche sulla questione dei rifiuti, dopo le sparate di Salvini sui termovalorizzatori, nel governo non c’è stata chiarezza e l’accordo trovato è timido e non dice nulla.

È sempre più necessario un movimento di massa per la difesa di un ambiente vivibile per oggi e domani; in questo caso, contro gli inceneritori. Ma questo movimento non potrà essere vincente se resta nelle logiche del sistema. Il problema continuerà a ripresentarsi sotto altre forme. La necessità di una svolta di classe per i movimenti ecologisti è fondamentale e urgente. Bisogna saper collegare le rivendicazioni dei lavoratori con quelle per la difesa della salute e dell’ambiente, in un’ottica di trasformazione del modello economico esistente.

L’8 dicembre a Torino la manifestazione contro la Tav e le grandi opere ha visto ancora una volta una partecipazione di massa. Un altro appuntamento nazionale è stato lanciato per il 23 marzo 2019 proprio dalla due giorni tenuta a Venaus il 17-18 novembre.

Come marxisti saremo presenti assieme alle migliaia che manifesteranno per avanzare una soluzione anticapitalista alla questione ambientale, anche perchè o ci sarà il socialismo o ci saranno le barbarie, come i disastri provocati dal cambiamento climatico e ambientale ci stanno dimostrando.

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