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Riforma sociale o rivoluzione? Rileggere oggi Rosa Luxemburg

di Emanuele Nidi

 

Rosa Luxemburg scrisse gli articoli che vanno a comporre Riforma sociale o rivoluzione tra il 1898 e il 1899, in risposta alle tesi di Eduard Bernstein, figura di spicco nel movimento operaio tedesco del Partito socialdemocratico (Spd).

Bernstein si proponeva di dimostrare come il capitalismo fosse entrato in una nuova fase, caratterizzata da progresso e stabilità economica. I socialisti non dovevano più attardarsi a fantasticare di crisi catastrofiche e rivoluzioni future, concentrandosi invece su un paziente lavoro quotidiano all’interno del parlamento e del sindacato. A essere messa da parte era, insomma, l’idea stessa di rivoluzione socialista.

Queste posizioni suscitarono un aspro dibattito, a cui contribuirono teorici marxisti come Franz Mehring e Georgij Plechanov. Ma fu proprio Rosa Luxemburg, all’epoca nemmeno trentenne, a presentare la confutazione più efficace e impietosa delle teorie riformiste.

Il tempo non è stato generoso con Eduard Bernstein. Oggi, in un mondo segnato a livello internazionale dall’instabilità politica ed economica, la sua ipotesi di un pacifico sviluppo capitalistico risulta quantomeno grottesca. Basti dire che per Bernstein il credito e la Borsa rappresentavano elementi di equilibrio, funzionali alla tenuta del sistema. A quasi un secolo dal 1929 e a tredici anni dal 2008, è difficile prendere sul serio quelle posizioni.
Ma le sue idee principali, spogliate degli aspetti più anacronistici, sono sorprendentemente simili a quelle difese ancora oggi dalla sinistra riformista. Ecco perché l’importanza di Riforma sociale o rivoluzione trascende il dibattito che ne ha motivato la stesura. Rosa Luxemburg, individuando nella teoria bernsteiniana “il primo, ma insieme anche l’ultimo, tentativo di dare una base teorica all’opportunismo”, aveva mostrato una volta di più straordinaria lucidità analitica.

I rivoluzionari e le riforme

A dispetto del titolo, il testo non presenta in alcun modo una contrapposizione secca tra rivoluzione e riforma. I marxisti hanno il compito di intervenire attivamente in ogni lotta progressista, appoggiando tutte le rivendicazioni che portino a un miglioramento concreto nelle condizioni di vita delle classi subalterne. In fondo le più importanti riforme sono state ottenute storicamente attraverso mobilitazioni di massa ispirate da parole d’ordine radicali. Certo, si è trattato spesso di vittorie temporanee: qualunque cambiamento che non investa i rapporti di potere alla base del sistema capitalista è destinato ad essere messo in discussione dalla borghesia, magari approfittando di una recessione economica o di un arretramento del movimento. Ma, proprio per questo, la lotta per le riforme rappresenta un insostituibile momento di apprendimento collettivo. Attraverso successi e sconfitte, toccando con mano i limiti imposti dal sistema, la classe lavoratrice può arrivare ad adottare un punto di vista coscientemente anticapitalista. Il punto non è quindi disinteressarsi delle riforme, ma combattere il riformismo in quanto tendenza politica.

La caratteristica essenziale del riformismo sta nel negare la necessità per la classe lavoratrice di prendere il potere. Come sottolinea Rosa Luxemburg, non si tratta affatto di una variante più moderata o più “paziente” del marxismo, ma di una concezione che vi si oppone frontalmente. Gli obiettivi finali sono antitetici: da una parte l’instaurazione di un nuovo ordinamento sociale, dall’altra mutamenti superficiali nel quadro del sistema vigente.

La rivoluzione è, dal punto di vista dei riformisti, una pura utopia. Il fatto che la stessa origine del sistema capitalista sia segnata da grandi rivoluzioni (la rivoluzione inglese, americana, francese, le rivoluzioni del 1848…) non li turba in questo convincimento, anzi: fin troppo spesso rivolgono le loro critiche anche alle rivoluzioni del passato come frutto di impazienza o scelte errate. Come se i popoli, per riprendere l’ironica metafora di Rosa, potessero scegliere liberamente tra “salsicce calde e fredde nel grande buffet della storia”.

Riformismo e materialismo storico

Il formalismo di Bernstein, che confronta riforma e rivoluzione come fossero oggetti inanimati invece di realtà dinamiche, affonda le radici in una concezione teorica estremamente debole. Ridotto all’osso, il suo progetto di revisionismo del marxismo si riduce ad una riedizione del socialismo utopistico già demolito da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista. L’idea della rivoluzione come necessità oggettiva viene accantonata come un’astrazione vuota, e alla base della lotta rimane solo il desiderio soggettivo di una società più giusta. Secondo Bernstein (e i riformisti di tutte le epoche), Marx sbagliava a pensare che il capitalismo fosse un sistema destinato a creare polarizzazione sociale e crisi. Al contrario: il futuro avrebbe consegnato un mondo sempre meno diseguale, con una classe media crescente e un’economia gestita razionalmente da grandi società. Queste idee rappresentano il senso comune nei periodi di stabilità economica. Ma invariabilmente l’ottimismo viene spazzato via da un nuovo e più destabilizzante crollo, come si è dimostrato ancora una volta con la crisi del 2008 e con gli sviluppi odierni.

Rosa Luxemburg corregge gli errori fattuali e le distorsioni prospettiche di Bernstein, ma soprattutto riafferma l’esigenza di una lettura materialista della realtà. Tra i contributi maggiori del marxismo vi è proprio la messa a nudo di quelle contraddizioni interne che dimostrano la natura transitoria del capitalismo.

Il capitalismo è per sua essenza un sistema “anarchico” in cui, in ultima istanza, le impersonali leggi del mercato dominano sulla volontà degli agenti economici. Ma quanto più le forze produttive aumentano, tanto più il limite imposto dai confini nazionali e dalla proprietà privata dei mezzi di produzione si rivela una prigione. I capitalisti scoprono che le tanto decantate leggi del libero mercato rappresentano ormai un ostacolo, e cercano di aggirare il problema creando enormi società per azioni e multinazionali. Il singolo imprenditore cede una parte del suo potere a un’unione di capitalisti, allo scopo di neutralizzare la concorrenza e introdurre una gestione più razionale della produzione. La direzione indicata da questo processo punta verso un’economia più socializzata, ma ciò non basta a risolvere la questione. Al contrario, dal momento che la proprietà dei mezzi di produzione rimane privata e le leggi economiche del libero mercato continuano ad operare, le contraddizioni si inaspriscono e si ripresentano su scala più estesa nella forma di violente crisi economiche, tensioni internazionali e conflittualità sociale. Ecco perché il socialismo rappresenta una necessità oggettiva, e non semplicemente il frutto del soggettivo (e sacrosanto) desiderio di una società più libera ed egualitaria.

Finché la proprietà dei mezzi di produzione non diventerà collettiva, finché lo sviluppo economico non sarà governato dalle lavoratrici e dai lavoratori che producono effettivamente la ricchezza, il mondo continuerà ad essere travolto da crisi e depressioni. Il fallimento teorico del riformismo sta nel non vedere che proprio gli elementi in potenza più progressisti del capitalismo (l’enorme capacità di produrre ricchezza; la dimensione globale; il carattere sempre più socializzato della produzione) rappresentano un ostacolo insormontabile a uno sviluppo pacifico del sistema.

 “Il movimento è tutto”

La frase di Bernstein “il movimento è tutto, il fine è nulla” esprime bene la miopia politica e il disprezzo per la teoria tipico del riformismo. Una teoria solida, per quanto flessibile e articolata, pone limiti precisi all’azione di chi vi aderisce. Ecco perché rappresenta un ostacolo per tutti quelli che, pur richiamandosi al socialismo, vorrebbero limitarsi a una modesta politica corporativa all’interno del parlamento o del sindacato.
In questo senso, dichiarare che “il fine è nulla” è un modo astuto di risolvere la questione: la rottura rivoluzionaria viene rimandata a un futuro imprecisato e indistinto, lasciando campo libero a qualunque scelta tattica, per quanto spregiudicata e opportunista.

Eduard Bernstein

Molti riformisti di sinistra adottano questo punto di vista dichiarando, proprio come Bernstein, di non aver abbandonato il marxismo, ma di essersi limitati a correggere ed attualizzarne gli aspetti più datati. Ma il marxismo non è un insieme di dogmi, da adottare o respingere a seconda delle contingenze; è in primo luogo un metodo, una chiave di lettura organica della realtà. Dal momento che si tratta di una concezione unitaria, è impossibile respingerne le fondamenta sperando che la teoria rimanga comunque in piedi. Riforma sociale o rivoluzione descrive esattamente come un marxista che ha respinto la teoria della crisi sia stato portato dalla consequenzialità del proprio ragionamento ad approdare a concezioni opportuniste.

Seguiamo per un momento la logica di Bernstein. Se il capitalismo non è attraversato da contraddizioni irrisolvibili, qual è il ruolo politico del movimento operaio? Quello di migliorare le condizioni della classe lavoratrice all’interno del sistema. Attraverso quale strumento? Il parlamento, ovviamente. Così va a cadere un altro pilastro del marxismo, la teoria dello Stato. Lo Stato per i comunisti non rappresenta un corpo neutrale ma un’entità che, attraverso mille contraddizioni, esprime interessi precisi: quelli della classe dominante. L’intera struttura giuridica e organizzativa dello Stato nel capitalismo è pensata in funzione del dogma della proprietà privata. Sarebbe assurdo aspettarsi, dunque, di poterla piegare a fini socialisti, anche disponendo di un’ampia maggioranza parlamentare.

Ancora una volta, Rosa Luxemburg si muove sul terreno della dialettica e non delle contrapposizioni formali. Il punto è, con buona pace di Bernstein, che “movimento” e “fine” non sono indipendenti l’uno dall’altro. Privato di una strategia rivoluzionaria, il movimento è costretto a svilupparsi entro i confini sempre più ristretti che il sistema gli riserva. Così si finisce per pretendere dall’attività parlamentare o sindacale quello che non potrà mai offrire: una via di uscita dal capitalismo; o, più semplicemente, ci si limita a farsi portavoce, più o meno consapevolmente, degli interessi del padronato di fronte ai lavoratori, limitandone qualunque azione di classe indipendente. La teoria della supremazia del movimento sul fine sfocia paradossalmente nell’immobilismo.

Il riformismo ieri e oggi

Riforma sociale o rivoluzione sembrò segnare una vittoria decisiva contro il revisionismo all’interno del Partito socialdemocratico. In realtà il riformismo aveva basi materiali molto solide e non bastò il dibattito attorno alle tesi di Bernstein a scongiurarne l’estensione.
La socialdemocrazia tedesca rappresentava, per dimensioni e tradizione, la punta più avanzata del movimento operaio europeo. Ma proprio i suoi successi, nel contesto di una generale crescita economica della Germania, avevano determinato la formazione di una burocrazia sindacale e di partito, che si appoggiava su una minoranza relativamente privilegiata della classe operaia, che riteneva di avere tutto da guadagnare da una pacifica convivenza con il capitalismo.
Ben presto fu chiaro che le elaborazioni di Bernstein non erano che un riflesso opaco di quel processo. Il riformismo continuò ad avanzare, fino a svelarsi platealmente quando i parlamentari socialdemocratici votarono a favore dell’ingresso della
Germania nella Prima guerra mondiale. Rosa Luxemburg, ormai uscita dalla Spd per diventare, insieme a Karl Liebknecht, la principale dirigente del movimento comunista tedesco, fu come Liebknecht brutalmente assassinata su mandato del governo controrivoluzionario guidato dalla socialdemocrazia di Philipp Scheidemann e Gustav Noske.

Oggi i partiti riformisti, a differenza che ai tempi di Bernstein, non si preoccupano più di giustificare il loro tradimento. Al contrario, cercano di caratterizzarsi come i più coerenti sostenitori di una linea padronale. Ponendosi come mediatore tra le pressioni della burocrazia sindacale e le esigenze della classe dominante, il riformismo nasconde a stento la sua natura reazionaria sotto una maschera di liberalismo.

Negli ultimi anni, nuove forze di sinistra più radicali hanno provato a contendere l’egemonia dei vecchi partiti socialdemocratici, ma l’incapacità di fare proprio un programma coerentemente anticapitalista le ha trascinate in una serie di contraddizioni irresolubili. L’esempio più recente è la sinistra americana di Sanders e Ocasio-Cortez, che sono partiti parlando di una “rivoluzione politica contro la classe dei miliardari” e oggi sono pienamente integrati nell’amministrazione di Biden. Ma se non si svilupperà un’alternativa rivoluzionaria credibile, nessuna sconfitta storica potrà neutralizzare le tendenze riformiste all’interno del movimento operaio.
In questo senso, Riforma sociale o rivoluzione, così come la storia della controversia che vi ha fatto da sfondo, racchiude ancora oggi lezioni fondamentali per chiunque veda le contraddizioni intollerabili della società in cui viviamo e si proponga di lottare contro di esse.

 

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