Renzi frena sulla Libia
Il fortunoso sbarco a Tripoli del governo libico di “unità nazionale”, presieduto da Fayez Serraj e sponsorizzato dall’Onu, più che rappresentare un passo verso la pacificazione del paese, sembra destinato a ingarbugliare ulteriormente la già caotica situazione libica.
Forte del sostegno occidentale, Serraj ha preso il controllo sia della compagnia petrolifera di Stato che della Banca centrale libica e sembra essere riuscito a conquistarsi quel minimo di appoggio in Tripolitania per non essere immediatamente ributtato in mare. Questo è stato possibile soprattutto facendo ricorso alla corruzione per comprare il sostegno di alcune milizie armate e di una serie di dignitari locali, che fino al giorno prima facevano parte della coalizione di forze islamiste che aveva insediato a Tripoli il governo di Khalifa Ghwell. Si tratta di una base d’appoggio piuttosto instabile, visto che queste milizie sono completamente inaffidabili: prima sostenevano il premier islamista Ghwell, ora si sono schierate con Serraj e domani potrebbero passare dalla parte dell’Isis…
E non è finita qui. L’Isis occupa un’ampia fascia di costa attorno a Sirte e, a causa delle sue difficoltà in Siria, sta trasferendo una parte significativa dei combattenti stranieri e dei mercenari proprio in Libia; il cosiddetto “parlamento” di Tobruk controlla la Cirenaica ma non ha mai riconosciuto il governo Serraj; il generale Haftar, comandante degli ultimi rimasugli di forze “regolari”, aspira a diventare l’Al Sisi di Libia e, pur avendo scarso seguito in patria, gode della protezione dell’Egitto.
La più grossa incognita riguarda però la disponibilità della “comunità internazionale” a sostenere militarmente il nuovo governo libico. Gli Stati Uniti stanno facendo pressioni perché sia il governo italiano a mandare truppe, ma per il momento Renzi sembra piuttosto riluttante a sobbarcarsi questo fardello.
L’Italia infatti è già piuttosto esposta sul piano internazionale con 5.700 militari impegnati in 18 paesi diversi, tra cui 1.100 soldati in Libano, 950 in Afghanistan, 700 in Iraq e 550 in Kosovo. Per rifinanziare tutte queste missioni, nel 2015 l’Italia ha speso oltre 1,2 miliardi di euro, sforando di più di 300 milioni il budget previsto nella Legge di stabilità. Si calcola che nel 2016, con l’invio di ulteriori 500 uomini in Iraq per proteggere la diga di Mosul, la cifra raggiungerà 1,5 miliardi.
Inviare migliaia di soldati in Libia sarebbe quindi insostenibile per l’Italia sul piano economico-militare e d’altra parte i profitti per le imprese italiane potrebbero non essere così consistenti come si dice. Indubbiamente l’Eni ha interessi significativi in Tripolitania, ma la produzione petrolifera della Libia è crollata a 350mila barili all’anno, solo il 20% di quella che era prima della caduta di Gheddafi, e difficilmente potrà aumentare sensibilmente nel prossimo periodo; con il prezzo del petrolio sotto i 40 dollari al barile sembra proprio che il gioco non valga la candela.
Tutto questo senza contare le ripercussioni politiche. L’Italia si troverebbe invischiata in un pantano simile a quello dell’Afghanistan ed esposta al rischio di attentati terroristici. Il governo dovrebbe fronteggiare una nuova ondata di profughi e, molto probabilmente, anche un movimento di massa contro la guerra.
È quindi probabile che Renzi, piuttosto che imbastire un’invasione in grande stile, invierà sul campo solo piccoli reparti di specialisti e forze aeree, con l’obiettivo di puntellare il governo fantoccio di Serraj e proteggere i giacimenti di petrolio. Tuttavia un’operazione limitata di questo tipo non riuscirà né a debellare l’Isis, né a stabilizzare la regione. La verità è che le potenze occidentali, con il loro intervento militare nel 2011, hanno fatto sprofondare la Libia in un caos al quale oggi non sono in grado di porre rimedio.
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