Reggio Emilia: le coop sociali attaccano i lavoratori
Alla fine del mese di settembre è stato disdetto da parte di Lega Coop e Confcooperative il contratto integrativo territoriale per i lavoratori delle cooperative sociali di Reggio Emilia e provincia. È un atto molto grave, considerando il già elevatissimo sfruttamento che pesa sulle spalle dei lavoratori del settore.
Grazie alle continue esternalizzazioni e privatizzazioni, la situazione economica del settore privato socio-educativo e assistenziale è in grande crescita, i grandi scandali legati alle cooperative sociali sono ormai noti e rappresentano una impeccabile testimonianza di come queste aziende non abbiano ormai più nulla di cooperativo né tantomeno di sociale
L’Emilia è una realtà fondamentale per il settore cooperativo nazionale. Nel complesso, più di un terzo del fatturato italiano del settore cooperativo (compreso produzione e solidarietà) proviene dalla regione Emilia Romagna. Secondo il rapporto Euricse 2016, in Italia le cooperative sociali hanno un fatturato pari a 12 miliardi di euro e gestiscono più della metà dei servizi socio assistenziali. Solo le cooperative sociali di Legacoop Emilia Ovest (Pc, Pr, Re) raggiungono un valore di produzione pari a 444 milioni. Anche la provincia di Reggio Emilia ha visto fatturati enormi, e del tutto stupefacenti, per imprese che, facendo parte del privato sociale e secondo la favoletta che ci raccontano tutti i giorni anche sul lavoro, dovrebbero avere una missione completamente differente dalle normali imprese private. La realtà, invece, è ben diversa. Sebbene venga definito terzo settore, quindi formalmente differente dal settore privato e da quello pubblico, ci troviamo di fronte ad un mercato caratterizzato da un enorme sfruttamento di manodopera e, contemporaneamente, con enti gestori di servizi (fondamentali per la comunità) che accumulano profitti e capitali enormi. Alcuni esempi, che ben sintetizzano la situazione, possono essere quello della cooperativa sociale Dimora d’Abramo con un fatturato annuo di 14,5 milioni di euro, oppure della cooperativa sociale L’Ovile, che si è fusa con un’altra cooperativa “Il Villaggio”, con un aumento di dipendenti del 18% e con un fatturato di quasi 10 milioni di euro. Al giorno d’oggi, le fusioni sono un avvenimento molto frequente nel terzo settore, segno di un mercato caratterizzato sempre più da processi di concentrazione del capitale e tendente ad essere sempre più oligopolistico.
In questo contesto, le centrali cooperative hanno informato i sindacati che non hanno più intenzione di riconoscere un accordo firmato nel 2014 che prevedeva una regolazione di alcuni elementi quali, tra gli altri, la stipula di una polizza kasko da parte della cooperativa nel caso di utilizzo da parte del lavoratore di un mezzo proprio, il riconoscimento economico della trasferta, la mensa in caso di pausa o il riconoscimento al pasto gratuito per i lavoratori in servizio che lo consumino insieme all’utenza e tutele aggiuntive in caso di cambi d’appalto. Questo accordo non prevede quindi condizioni proibitive per aziende con andamento estremamente positivo (si noti, inoltre, che lo stesso accordo prevede una clausola di salvaguardia per cooperative in difficoltà economica). Si pensi, per esempio, che per i cambi di gestione l’integrativo si limita a prevedere che l’azienda uscente fornisca a quella subentrante “la documentazione necessaria alla corretta instaurazione dei rapporti di lavoro con i lavoratori addetti”. Evidentemente, per lorsignori il semplice atto di comunicazione tra le due imprese, in modo da agevolare la continuità dei lavoratori sul servizio interessato dal cambio d’appalto (e permettendo una maggiore tutela sindacale), è già chiedere troppo. Infine, l’accordo prevede un Elemento Retributivo Territoriale, definito attraverso un indice statistico derivante dal fatturato medio provinciale, che è passato dai quasi 600 euro nel 2016, ai poco più di 300 euro del 2017, con una riduzione del 50%.
A fronte di una disdetta unilaterale, grave e arrogante, la risposta dei sindacati confederali è stata del tutto inadeguata e insufficiente. Invece che convocare immediatamente una mobilitazione, indire un’assemblea di delegati e lavoratori per programmare forme di lotta e organizzare uno sciopero, la Cgil si è impegnata nel cercare di ricucire lo strappo con mediazioni e trattative con le cooperative (che però non ne voglio sapere di ritirare la disdetta) e si è concentrata su conferenze stampa, cercando sempre di non urtare troppo le sensibilità di Cisl e Uil; evidentemente preferendo interloquire con loro piuttosto che con i lavoratori, trattati come semplici soggetti passivi da tutelare e da informare tramite mass media, invece che soggetti attivi e organizzati a cui dare la parola per aprire una vertenza complessiva per la riconquista di condizioni di lavoro dignitose. E così il tempo passava e solo più di due settimane dopo, e con diversi malumori alla base, è stata convocata un’assemblea nel quale avanzare la proposta, già preconfezionata e concordata con Cisl e Uil, di due innocui presidi da svolgersi nei giorni immediatamente seguenti, in pieno orario di lavoro (ma senza indire uno sciopero) e senza aver preparato minimamente il terreno.
Nulla di nuovo sotto il sole, considerando che a livello nazionale come dipendenti di cooperative sociali abbiamo il contratto scaduto da più di 5 anni e le trattative apertesi ormai 8 mesi fa si sono interrotte davanti all’articolo 1 (uno!!). Anche in questo caso siamo davanti a un fronte padronale determinato a prendersi tutta la torta sul tavolo e chi ci rappresenta pur di non rovesciare il tavolo si limita a rivendicare briciole sempre più piccole, come i miseri 110 euro lordi annui richiesti da Cgil, Cisl e Uil e che probabilmente mai saranno concessi dalle cooperative.
Oggi più che mai è invece necessario che il sindacato, partendo proprio dal caso di Reggio Emilia, che non può che avere ripercussioni anche a livello nazionale, organizzi una mobilitazione e si dimostri determinato a condurre una lotta per un salario e delle condizioni di lavoro dignitose (prima condizione perché anche il servizio in cui lavoriamo sia di qualità e riconosca la dignità delle persone che vi accedono).
Oggi più che mai è necessaria una mobilitazione dal basso, anche attraverso un’autorganizzazione dei lavoratori, che obblighi i sindacati a convocare uno sciopero che non sia solo simbolico ma in grado di fermare concretamente l’attività lavorativa; al contempo, è necessario che come educatori e operatori rivendichiamo la ri-pubblicizzazione di tutti i servizi privatizzati e esternalizzati, pretendendo dal sindacato che faccia propria la parola d’ordine di un servizio educativo e sociale completamente pubblico, e non privato, che sia di qualità, gratuito, per tutti e tutte.
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