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Pap fiction! Qualche lezione dalla scissione di “Potere al Popolo!”

SIT IN PROTESTA CONTRO L'OSCURANTISMO MEDIATICO POTERE AL POPOLO MANIFESTANTI MANIFESTANTE MANIFESTAZIONE

“La sinistra dovrebbe unirsi, i vari gruppi e partitini dovrebbero mettere da parte le proprie divergenze, smetterla di farsi la guerra e mettersi tutti assieme”. Da un decennio questo ritornello viene ripetuto incessantemente. Questa retorica “unitaria” ha dato luogo negli ultimi dieci anni a diverse aggregazioni. Ricordiamo tra le altre la Sinistra arcobaleno (2008), la Federazione della sinistra (2009-11), la Lista Ingroia (2013), L’Altra Europa con Tsipras (2014) e, infine Potere al popolo che si è presentata alle ultime elezioni politiche.

Dopo l’1,1 per cento raccolto nelle elezioni del 4 marzo è stato lanciato in pompa magna un “processo costituente” volto a trasformare la lista in un nuovo partito politico, con lo slogan “indietro non si torna”!

 

Scissione dopo un anno

Tuttavia a un anno dalla sua nascita e a sette mesi dalle elezioni, Potere al popolo (Pap) si spacca verticalmente tra due fronti contrapposti. Tra recriminazioni, accuse reciproche e irripetibili bassezze via social media, ecco il bilancio. Il cosiddetto Partito comunista (Pci) se n’era già andato dopo le elezioni; Sinistra anticapitalista ha seguito poco dopo, avendo constatato che il livello di democrazia interna era tale per cui si era rifiutata persino la pubblicazione di un loro contributo sul sito di Pap in quanto “disfattista”. A seguire la segreteria del Partito della rifondazione comunista, dopo avere fatto di tutto per insabbiare il processo costituente, decide di ritirarsi all’ultimo giorno dalle votazioni online che dovrebbero stabilire lo statuto e il percorso fondativo del nuovo partito. Di fatto è scissione, e si profilano le carte bollate.

Restano in Pap circa 4mila aderenti che hanno votato online, organizzati prevalentemente attorno alle sigle del centro sociale ex Opg di Napoli e al sindacato Usb.

Piuttosto che addentrarci nella lunga lista di colpi bassi e manovre che hanno contraddistinto questo scontro, ci sentiamo di trarne alcune indicazioni politiche.

1) Per unirsi bisogna definirsi politicamente. Mancava e manca in Pap una precisa base politica. Peggio ancora, ve n’erano diverse ma si faceva finta che così non fosse, usando argomenti ridicoli quali “le parole ci dividono, le azioni ci uniscono”, oppure “siamo talmente piccoli che non ha senso dividerci tra riformisti e rivoluzionari”.

2) L’ambiguità politica trasforma la democrazia interna in una farsa, sostituita dall’assemblearismo in cui pochi leader iper presenzialisti raccolgono consenso per acclamazione e tutte le questioni controverse vengono discusse nei corridoi a colpi di manovre e trabocchetti. Chi vuole può verificare cercando in rete i resoconti di Paolo Ferrero e Salvatore Prinzi che, a rottura ormai consumata, hanno ricostruito la vicenda secondo gli opposti punti di vista del Prc e di Pap.

La strumentalità di tutta l’operazione si dimostra segnalando anche solo alcuni dei punti politici completamente elusi. Riforma o rottura con l’Unione europea? Quale rapporto col sindacato: esiste solo l’Usb o altre forze di classe nel movimento sindacale? Quale organizzazione politica? Serve un partito oppure una coalizione tra diverse organizzazioni?

Per tacere poi di questioni più basilari. Potere al popolo non ha mai saputo indicare se si considera anticapitalista o solo “antiliberista” (qualsiasi cosa significhi), classista o populista, ecc.

Dal punto di vista teorico poche volte si è visto un simile svilimento del dibattito.

Mostrando la più classica coda di paglia, tutti i protagonisti dello scontro hanno ripetuto fino alla nausea che Pap non era nata per meri scopi elettorali, che le elezioni sono solo un mezzo e non un fine, che conta l’attivismo sul territorio e via discorrendo. Resta il fatto che lo scontro è diventato ingovernabile quando si è visto che la lista prendeva pochi voti e non riusciva ad eleggere e, soprattutto, quando le varie scomposizioni nel campo della sinistra hanno fatto profilare all’orizzonte la possibilità di una nuova aggregazione con pezzi di altri partiti, in particolare a causa della crisi di Liberi e uguali che si sta a sua volta dividendo.

 

Dopo la scissione

Per Rifondazione comunista è una sconfitta fatale. Quel poco di credibilità che ancora conservava è definitivamente dissipato e d’ora in avanti Acerbo e Ferrero potranno solo elemosinare qualche candidatura in liste egemonizzate da altre forze.

Ma anche i gruppi che proseguono il percorso di Potere al popolo non hanno affatto superato le ambiguità che hanno segnato il progetto sin dal princpio. Si potrebbe pensare che l’indebolimento numerico conseguente alla scissione potrebbe essere compensato dalla maggiore omogeneità politica, ma a giudicare dagli esiti dell’ultima assemblea nazionale (21 ottobre) la chiarezza si segnala soprattutto per la sua assenza. Pap rimane divisa tra chi ancora parla di lotta al “neoliberismo”, come se fossimo ai social forum del 2001, e chi spera di poter cavalcare in qualche modo l’onda populista e “sovranista”. Alle domande importanti si risponde per ora con i “vedremo”: come si fa la lotta al “neoliberismo”? “Non lo sappiamo”. Come prendere una posizione indipendente nello scontro tra liberali borghesi e sovranisti reazionari? “Dobbiamo discutere ancora”. Come si andrà alle elezioni europee? “Non lo sappiamo ma deciderà la base” (e chi farà delle proposte alla leggendaria “base”?).

Quando venne lanciata Potere al popolo più di uno ci ha accusato di dottrinarismo e settarismo per non aver partecipato al progetto, magari riconoscendoci delle buone ragioni ma segnalando che essendo una piccola forza sarebbe stato meglio unirsi a chi comunque aveva aggregato un numero maggiore di militanti.

Ma la vicenda fornisce, per chi voglia intenderla, una utile lezione di dialettica. Tutto ciò che al principio faceva la forza di Pap (l’indeterminatezza politica e programmatica, l’organizzazione informe, gli ammiccamenti allo “spirito dei tempi” in tema di populismo, retorica antipartito, ecc.) si è trasformato nel giro di un anno nella causa della sua crisi. E la maggiore quantità (sempre in termini relativi!) viene paralizzata dalla scissione.

E noi, Sinistra rivoluzionaria? Noi continuiamo a chiamare le cose con il loro nome, a rivolgerci ai giovani, ai lavoratori piuttosto che ai leaderini “di movimento”, ad analizzare la realtà con gli strumenti teorici del marxismo, a radicarci nelle scuole, nelle fabbriche, a formare quei militanti consapevoli che saranno il lievito del futuro partito di classe dei lavoratori italiani.

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