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Natura e origini del fascismo – Lezioni ancora attuali

Pubblichiamo la trascrizione della prima parte della relazione che ha introdotto la discussione “Fascismo, cos’è e come combatterlo” nell’ambito del seminario nazionale di Sinistra Classe Rivoluzione (Bologna, 11-12 dicembre 2021). Il video integrale della discussione è disponibile sul canale youtube di Sinistra Classe Rivoluzione.

Fascismo, una definizione scientifica

Per poter dare una definizione scientifica e rigorosa di fascismo ci vengono in aiuto alcune citazioni dagli scritti di Trotskij degli anni ‘30:

Il movimento fascista in Italia fu un movimento spontaneo di larghe masse (…).è un movimento plebeo in origine, diretto e finanziato da forti poteri capitalisti. è emerso dalla piccola borghesia, il sottoproletariato e persino in una certa misura da masse proletarie.” (Cos’è il fascismo, 15 novembre 1931).

“Il fascismo è uno strumento specifico di mobilitazione e organizzazione della piccola borghesia negli interessi del capitale finanziario (…). La mobilitazione politica della piccola borghesia contro il proletariato (…)è inconcepibile senza demagogia sociale che per la grande borghesia significa giocare col fuoco.”(Bonapartismo e fascismo, 15 luglio 1934).

In un regime fascista, almeno durante la sua prima fase, il capitale si appoggia alla piccola borghesia che distrugge le organizzazioni del proletariato. (…) Il fascismo ha come unico e fondamentale compito quello di radere al suolo tutte le istituzioni della democrazia proletaria.” (E ora? gennaio 1932).

In queste citazioni sono presenti gli aspetti fondamentali necessari a questa definizione. Innanzitutto il fatto che si tratta di uno strumento peculiare di lotta da parte della classe dominante, rispetto alla quale ha però una indipendenza relativa (non a caso Trotskij usa l’espressione “giocare col fuoco”). Altro elemento è che questa mobilitazione di massa serve a distruggere ogni forma di organizzazione indipendente della classe lavoratrice (partiti, sindacati, circoli ricreativi, ecc.). Il terzo punto è il carattere di massa: Trotskij parla infatti di “modo plebeo” di lotta della borghesia contro il proletariato, riprendendo un’espressione con la quale Marx indicava la lotta della borghesia nella sua fase di ascesa contro il feudalesimo, quando fu costretta ad appoggiarsi alle masse giacobine durante la rivoluzione francese.

Sappiamo che la classe borghese è una minoranza che si avvale dello Stato per poter mantenere il suo dominio, ma questo non è sufficiente; soprattutto nei periodi di lotta ha bisogno di appoggiarsi sulle masse. Quando agli albori del capitalismo questa lotta era rivolta contro la nobiltà e aveva un carattere progressista, queste erano le masse rivoluzionarie. Nella fase di declino del capitalismo, in cui il nemico giurato della classe dominante è il proletariato, il “modo plebeo di lotta della borghesia” consiste nell’appoggiarsi su masse piccolo-borghesi reazionarie.

Il fascismo tuttavia non è l’unico fenomeno di mobilitazione reazionaria di massa che abbiamo visto nella storia. Si possono citare i pogrom antisemiti, o i linciaggi dei neri d’America dopo la guerra civile. Questi ultimi sono stati fenomeni di massa non solo per il numero di episodi (si stimano 10mila solo tra il 1865 e il 1895) ma anche per il numero di persone attivamente coinvolte. Nel linciaggio del ghetto nero di Tulsa del 1921, si stimarono ad esempio 300 morti e 10mila neri che rimasero senza casa, cosa che sarebbe stata impossibile per opera di un numero limitato di attivisti.

Se nella storia ci sono stati diversi esempi di masse popolari che si sono mobilitate in senso reazionario, dobbiamo pertanto chiederci quali condizioni rendono possibile questo fenomeno. Su questo Trotskij ha indicato come la “demagogia sociale” è uno strumento necessario. Ad esempio parlando del regime di Pilsudski in Polonia: “‘La retorica di sinistra’ nel fascismo deriva dalla necessità di suscitare e alimentare le illusioni della piccola borghesia inferocita”. (Pilsudski, il fascismo e il carattere della nostra epoca, 4 agosto 1932).

 

Il fascismo della prima ora era di sinistra?

Se analizziamo il primo programma del fascismo alla sua fondazione nel 1919, possiamo leggere cose come: suffragio universale, voto alle donne, abolizione del Senato, giornata lavorativa legale di 8 ore, minimi salariali, affidamento alle organizzazioni proletarie della gestione delle industrie, ecc… tutta una serie di elementi che lo farebbero sembrare un programma di sinistra.

Ed effettivamente i Fasci di combattimento della prima ora vedevano, oltre ai nazionalisti e a Mussolini che aveva le idee molto chiare, la partecipazione di numerosi soggetti ascrivibili al campo della sinistra: anarchici, interventisti di sinistra, riformisti.

C’era anche chi, come l’anarchico Malatesta, pensava che organizzazioni come questa o come quella attorno all’impresa di Fiume potessero essere utilizzate in senso rivoluzionario.

Ancora nel 1936, Togliatti scriveva nell’“Appello ai fratelli in camicia nera”: “Il programma fascista del 1919 non è stato realizzato! Popolo Italiano! Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori. (…) Niente di quanto fu promesso nel 1919 è stato mantenuto.”

L’idea che il fascismo della prima ora avesse un carattere progressista che poi fu tradito, che ci fosse uno spazio per un’egemonia di sinistra è completamente falsa. Il fascismo ebbe un carattere reazionario fin dalla sua nascita, era finanziato direttamente dai capitalisti, ma la questione non si risolve qui. Nel caratterizzare un movimento di massa dobbiamo stare attenti a non avere un approccio statico e meccanico in cui tutto su risolve in una formula chimica in cui si mettono dentro composizione di classe, programma, ecc.

E’ necessario invece un approccio dialettico: capire come questi fattori, che comunque sono importanti, si inseriscono in un contesto di relazioni, di rapporti di forza tra le classi, di ascesa o riflusso della lotta di classe, di processi di cui è fondamentale capire la direzione in cui si muovono.

Il fascismo della prima ora va quindi inserito nel contesto del primo dopoguerra, una fase storica di ascesa rivoluzionaria che in Italia aveva avuto un’occasione molto concreta nel biennio rosso e nell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, un’occasione tradita dalle direzioni riformiste.

E’ in aperta contrapposizione a questo processo di ascesa rivoluzionaria che emerge il fascismo e senza la sconfitta di quell’occasione rivoluzionaria non sarebbe stato possibile il suo avvento al potere. Per mobilitare le masse piccolo-borghesi contro il proletariato è necessario che queste nutrano un sentimento d’odio nei confronti dei lavoratori, un odio che può scaturire quando le aspettative della piccola borghesia in un cambiamento radicale della società da parte del proletariato in una rivoluzione vengono deluse. E allora ai suoi occhi il proletariato si trasforma da possibile guida a responsabile di una situazione in cui non si vedono vie d’uscita.

 

Il Pcd’I di fronte al fascismo

Il Partito comunista d’Italia era all’epoca un partito neonato, inesperto, uno di quelli per cui Lenin scrisse L’estremismo, malattia infantile del comunismo e non ebbe la capacità di riconoscere la minaccia costituita dal fascismo, che alla fine del 1920 cominciò a realizzarsi nelle spedizioni punitive volte a distruggere qualsiasi forma di organizzazione che avesse il benché minimo legame con il movimento operaio.

Barricate degli Arditi del Popolo a Parma, 1922

Nonostante questo, il Pcd’I fece un clamoroso errore di sottovalutazione: “Se veramente la borghesia andrà sino in fondo e nella reazione bianca strozzerà la socialdemocrazia, preparerà – non sembri un paradosso – le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione.” (Rassegna comunista, 15 aprile 1921 in Spriano, Storia del partito comunista, vol. 1, p. 127, Editori riuniti).

Allo stesso tempo il Pcd’I ebbe un atteggiamento settario nei confronti degli Arditi del popolo, un movimento nato sì nel contesto reazionario del combattentismo, ma da cui si distaccarono con un chiaro programma di lotta antifascista. Nonostante l’afflusso spontaneo da parte di attivisti socialisti, anarchici e comunisti in diverse città, dove sorsero sotto questa sigla gruppi che si richiamavano apertamente a tradizioni rivoluzionarie, il Pcd’I ordinò ai suoi militanti di lasciare gli Arditi, ammettendo come unica forma di organizzazione militare antifascista quella condotta su basi di partito.

Questo atteggiamento di chiusura veniva giustificato con un’“analisi del sangue” del movimento che si basava su elementi secondari (come il fatto che il suo leader Argo Secondari fosse un anarchico avventuriero) e fu aspramente criticato dall’Internazionale comunista (Ic): “Dove erano i comunisti i quel momento? [mentre gli Arditi del popolo lottavano] Erano occupati ad esaminare con una lente d’ingrandimento il movimento per decidere se era sufficientemente marxista e conforme al programma?” (Spriano, ibidem, p. 150). L’Ic incitava a intervenire nel movimento, forte dell’esempio della rivoluzione russa del 1905 guidata dal pope Gapon.

E’ in questo senso che, nel caratterizzare un movimento, è necessario un approccio dialettico che sia in grado di vedere non solo da dove arriva, ma soprattutto in che direzione si muove, per poter distinguere ciò che è reazionario da ciò che ha un contenuto progressista.

 

La “linea Schlageter” (o come inseguire la destra)

Il fatto che le masse piccolo-borghesi possano essere mobilitate in senso reazionario pone di fronte al proletariato il compito di sottrarle alle destre e conquistarle ad una politica rivoluzionaria.

Questa questione fu affrontata dal partito comunista tedesco (Kpd) nel 1923 in un contesto di profonda crisi economica e sociale, con le pesanti condizioni imposte dal trattato di Versailles dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale e l’occupazione della Ruhr da parte dell’esercito francese. Un contesto che allo stesso tempo era di crisi rivoluzionaria e di forte polarizzazione, e che vide un decisivo rafforzamento del radicamento del partito comunista nel movimento operaio, con un terzo della classe sotto la sua influenza e posizioni rilevanti nei suoi settori decisivi (portuali, metalmeccanici, ecc.).

Anche il nazionalismo era in ascesa in seguito all’occupazione francese e nell’estate del 1923 fu lanciata la cosiddetta «linea Schlageter» che prendeva il nome da un membro dei Freikorp (l’organizzazione paramilitare di estrema destra che assassinò Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht) che venne giustiziato dai francesi per aver organizzato un attentato su una linea ferroviaria.

In un discorso al comitato esecutivo dell’Ic, Radek rese onore a Schlageter come “un coraggioso soldato della controrivoluzione” che “merita di essere apprezzato in modo virile e onorevole”, al fine di “trovare la via che porta alle masse sensibili al problema nazionale”… sostanzialmente cedendo ad una retorica nazionalista.

Questa linea, che si sostanziò in un dibattito pubblico e accademico con i nazionalisti, durò poche settimane e non fu di certo la causa della sconfitta della rivoluzione del 1923, che fallì per la mancata determinazione da parte del Kpd a portarla fino in fondo. Ma è comunque significativa perché ritroviamo oggi nel cosiddetto “sovranismo di sinistra” la stessa idea che bisogna far proprie categorie come patria, nazione, orgoglio nazionale, rincorrendo la destra per trovare l’ascolto di quei settori delle masse sensibili a questi temi.

è nella rivoluzione russa del 1917 che troviamo la risposta a questa questione, quando la classe operaia, esigua minoranza in un paese a stragrande maggioranza contadina, sotto la guida dei bolscevichi riuscì a conquistare queste masse piccolo-borghesi, non cedendo alle pressioni dei loro pregiudizi, ma dimostrando che la riforma agraria avrebbe potuto essere realizzata solo abbattendo il capitalismo e che solo la classe operaia era effettivamente in grado di guidare tutta la società verso un cambiamento radicale.

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