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Manifesti Pro Vita: giú le mani dai nostri corpi!

La scorsa settimana Pro Vita, un’associazione cattolica integralista che promette di difendere la famiglia tradizionale da ogni forma di anche minimo progresso, ha lanciato la campagna contro la pillola abortiva RU486.

Il manifesto, ritrovabile lungo le strade di Milano, dipinge la donna come un’innocente Biancaneve dopo aver mangiato la mela avvelenata, con il titolo “prenderesti mai del veleno?”. Il messaggio è chiaro: la donna, debole e indifesa, ha bisogno di un principe, di qualcuno che la protegga e la salvi dall’aborto, visto come un veleno datogli da qualche cattiva strega. Scandaloso come Pro Vita pretenda ergersi pure come difensore dei diritti della donna e del suo benessere.

Questa recente campagna è solo l’ultimo degli attacchi al diritto di aborto, diritto fondamentale della donna. Oltre all’incremento della retorica pro-life, che ha avuto il culmine nel congresso internazionale della famiglia a Verona lo scorso anno, si sono verificate anche continue restrizioni all’utilizzo della pillola abortiva, rendendo così ancora più difficile accedere all’aborto, già spesso reso impraticabile dall’elevata percentuale di obiettori di coscienza.

In Piemonte, non solo viene limitato l’accesso alla RU486, ma viene anche imposta la presenza di associazioni pro-life nelle strutture dove si pratica l’interruzione di gravidanza, con un chiaro intento di colpevolizzare le donne che decidono di praticare questo loro diritto fondamentale. In Umbria, la giunta della presidente leghista pro-life Donatella Tesei nel mese di giugno ha deliberato che chiunque volesse accedere all’aborto farmacologico dovesse essere ricoverato per almeno tre giorni, mentre precedentemente era previsto il Day Hospital. Questo rende ancora più impossibile accedere all’aborto per le lavoratrici e le studentesse.

Tutto questo avviene in un contesto nazionale in cui, non solo esiste un forte stigma sociale verso chi anche solo si dimostra a favore dell’aborto, ma l’accesso stesso all’aborto, in teoria garantito dalla legge 194 del 1978, viene reso nella pratica irraggiungibile dalla stessa legge, la quale prevede la possibilità per il personale sanitario di astenersi in base a obiezioni di coscienza. Con una percentuale media del 70% degli obiettori tra il personale, questo si traduce di fatto nella violazione del diritto di aborto, siccome a molte donne viene impedito di abortire per assenza di medici.

Quali sono le conseguenze di tutto questo? Violenze fisiche e psicologiche sulle donne, problemi di salute, aborti clandestini (in Italia, si stimano circa 20 mila casi all’anno), disuguaglianze nell’accesso all’aborto tra chi può permettersi servizi privati e chi no, oltre alle conseguenze distruttive sulla vita familiare e lavorativa delle donne.

Il diritto d’aborto è un diritto fondamentale, opporsi ad esso significa mettere a serio rischio la vita di milioni di donne. Una donna deve poter decidere da sola per il proprio corpo e deve avere gli strumenti necessari, dati dalla società, per fare ciò. Denunciamo a gran voce tutte le misure retrograde che vogliono ridurre le donne alla sola funzione riproduttiva.

Rivendichiamo una sessualità libera, consapevole ed appagante. È necessario rendere l’aborto accessibile a tutte, senza se e senza ma. Per fare questo bisogna investire di più nel settore pubblico, rafforzando la rete dei consultori e superare la logica del profitto che spinge lo Stato ad affidare la salute pubblica sempre più nelle mani di privati, a danno dei cittadini e di chi non può permettersi di pagare centinaia di euro per un suo diritto fondamentale. Rivendichiamo inoltre l’abolizione del diritto di obiezione di coscienza.

La salute deve essere pubblica, gratuita e di massa. Il diritto di aborto deve essere garantito a tutte.

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