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L’improbabile riscossa liberale (con sinistra di complemento)

Il 25 marzo, i 27 leader dell’Unione europea hanno celebrato il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma che istituirono la Comunità economica europea. Frutto dell’incontro, celebrato al riparo di una cortina di migliaia di poliziotti mobilitati per intimidire e ostacolare le manifestazioni di protesta (circa 150 fermati), è stato un documento che pomposamente afferma il nulla: promette prosperità, sicurezza, sviluppo, cultura, sostenibilità sociale e ambientale, crescita economica e ribadisce che siamo stati, siamo e saremo sempre uniti. Pochi giorni dopo è stata avviata ufficialmente la procedura per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Dopo una serie di scosse telluriche (la Brexit, la vittoria di Trump, la sconfitta di Renzi nel referendum del 4 dicembre), la borghesia liberale a livello europeo e mondiale tenta di riorganizzare le forze e serrare le fila.

Questa controffensiva ha un nemico ufficiale: il “populismo”, termine che comprende con voluta confusione tanto le opposizioni di destra, capofila Marine Le Pen, quanto i movimenti di protesta a sinistra come Podemos in Spagna o la France Insoumise di Melenchon.

Alla ricerca di una base popolare ormai evaporata in conseguenza della crisi economica e sociale, la classe dominante è costretta ad allargare sempre più l’arco delle forze che partecipano, in modo aperto o indiretto, alla gestione del potere politico.

Hanno stappato le bottiglie perché nelle elezioni olandesi la destra razzista di Geert Wilders non ha sfondato come si ipotizzava, fermandosi al 13,1 per cento dei voti. Ma i conservatori di Mark Rutte per governare dovranno formare una coalizione di quattro o cinque partiti, fra cui i laburisti già loro alleati nello scorso governo, che sono usciti demoliti dalle urne passando dal 25 al 5 per cento dei voti.

Imbarazzanti fallimenti dei riformisti

Ovunque i tentativi di rivitalizzare i riformisti dando loro una rinfrescatina “di sinistra” vanno incontro a fallimenti imbarazzanti. In Spagna il Psoe è in pezzi, ostaggio del governo di destra di Rajoy dopo che la sua burocrazia ha silurato il segretario Sanchez che ha tentato di negare il sostegno esterno ai popolari. In Francia non è servito a nulla sostituire lo sputtanatissimo Hollande con il “libertario” Hamon, vincitore delle primarie: Hamon affonda nei sondaggi e verrà con ogni probabilità superato da Melenchon mentre la destra socialista, capitanata dall’ex primo ministro Valls lo abbandona e sosiene il liberale Macron.

Il fatto è che la classe dominante non può permettersi di allentare il guinzaglio alla socialdemocrazia, come pure in passato più volte ha fatto: la democrazia è in pericolo, incombono i “populisti” e tutti si devono arruolare per difendere la civiltà e la democrazia. Anche Martin Schulz, principale figura della socialdemocrazia tedesca ed europea, deve scendere in campo e si candida a primo ministro per le elezioni di settembre, giungendo persino a criticare l’eccessiva precarietà e il sottosalario che anche nella ricca Germania colpiscono milioni di lavoratori, grazie anche alle misure prese nei primi anni 2000 dal governo socialdemocratico di Schroeder…

Non bastando i partiti tradizionali, periodicamente viene gonfiato mediaticamente qualche “nuovissimo” leader politico, di solito giovane e possibilmente di bell’aspetto. Questi nuovi animali del circo politico borghese vengono gettati nell’arena per arginare il famoso “populismo”, durano una o due stagioni e poi affondano senza lasciare traccia: ci provarono in Grecia con To Potami (“il Fiume”: qualcuno se ne ricorda?) per arginare Syriza, in Spagna con “Ciudadanos” di Albert Rivera in funzione anti Podemos, oggi in Francia con Macron e la sua “En marche”.

Il pezzo di carta faticosamente approvato a Roma dai 27 parla di “un’Unione (…) che abbia la volontà e la capacità di svolgere un ruolo chiave nel mondo e di plasmare la globalizzazione”. L’ala borghese ancora dominante in Europa (ma per quanto?) si aggrappa a una fase del capitalismo, quella della globalizzazione appunto, in piena crisi se non addirittura in aperta regressione. Aggrappati a un passato che non c’è più, alleati al settore per il momento perdente della borghesia Usa (e non a caso si ribadisce nel documento la “cooperazione e la complementarità” con la Nato), i capitalisti europei non possono fare a meno della collaborazione tanto dei riformisti di destra (Partito socialista europeo) che di sinistra (Partito della sinistra europea) e soprattutto delle burocrazie sindacali. Per questo parlano di “ruolo fondamentale delle parti sociali”.

In questo senso il passaggio da Renzi a Gentiloni e i successivi sviluppi con la scissione del Pd e la decisione del governo di andare incontro alla Cgil per evitare i referendum sui voucher e gli appalti si inseriscono pienamente in questa dinamica europea. Il partito di Bersani e D’Alema, apparentemente nato distaccandosi a sinistra dalla linea precedente, in realtà svolge il ruolo opposto: non sposta forze dal centro verso sinistra, ma piuttosto si propone di convogliare forze da sinistra verso il governo. Ci è riuscito facilmente in Parlamento, tirandosi subito dietro metà di Sinistra italiana; e probabilmente nel prossimo anno arriverà anche l’altra metà. Che questo abbia degli effetti reali conquistando elettori alla prospettiva di un nuovo centrosinistra, è ovviamente tutt’altra questione… All’illusione di “un’altra Europa” non crede più nessuno. È morta in Grecia nel luglio 2015 e chi tenta di agitarla oggi non fa che confermare l’assenza di una base di massa. Ben poco di popolare ha avuto la manifestazione anti-brexit tenuta a Londra il 25 marzo, per non parlare di quella romana nella mattina dello stesso giorno, nonostante la promozione di Cgil e Fiom fra gli altri.

Il dilemma di fondo è infatti insolubile. La proposta di “Europa a più velocità” non significa nulla, o quasi: con la moneta unica si può solo stare dentro o fuori e nonostante tutti sappiano ormai che l’euro non può reggere, un processo di uscita controllata dalla moneta unica di uno più paesi risulta ancora politicamente improponibile per le forze politiche che dominano il continente. Si irrigidiscono ancora di più cercando di guadagnare tempo e di nascondere la loro paralisi con un mulino di parole. Questo significa che oltre alla Grecia, sempre sull’orlo di un default che prima o poi dovranno accettare, la prossima tempesta ha forti probabilità di scaricarsi sull’Italia, dove si condensano tanto le contraddizioni economiche, a partire dalla irrisolta crisi bancaria, che quelle politiche, con un Pd ancora indispensabile ma ormai in piena crisi, e l’inesistente alternativa dei 5 stelle.

 

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