Le “giornate di aprile”

Quando Lenin avvertì che nella rivoluzione le masse erano cento volte più a sinistra dei bolscevichi, a molti dovette sembrare solo una frase ad effetto. I bolscevichi erano una ridotta minoranza di estrema sinistra nei soviet dominati dai partiti conciliatori (menscevichi e socialisti rivoluzionari) che godevano dell’appoggio convinto della massa degli operai e dei soldati.

I fatti però ne diedero una pronta conferma.

Fu Pavel Miljukov, il vero leader e ideologo della borghesia russa, capo del partito dei cadetti (liberali) e ministro degli esteri, a gettare la prima scintilla. Il 23 marzo, incoraggiato dall’entrata in guerra degli Stati Uniti, emise una nota che ribadiva la fedeltà della Russia agli obiettivi di guerra dell’Intesa. Dopo le inevitabili schermaglie con i dirigenti socialisti, una seconda nota rivolta agli Alleati gettava nuova benzina sul fuoco chiarendo che non esisteva “il minimo pretesto per pensare che la rivoluzione avrebbe comportato un’attenuazione del ruolo della Russia nella comune lotta degli Alleati” e confermava che “la decisione di tutto il popolo di condurre la guerra mondiale sino alla vittoria definitiva non ha fatto che rafforzarsi”. Si esigevano poi “garanzie e sanzioni”, vale a dire annessioni territoriali e riparazioni economiche dai paesi vinti.

La calcolata provocazione di Miljukov lascia completamente a nudo i dirigenti riformisti, ma mentre ancora questi cercano le giuste parole per “interpretare” in senso pacifista la nota del ministro, le masse decidono che è troppo. Il 20 aprile su iniziativa del reggimento di Finlandia scendono in piazza da venti a trentamila soldati in armi. Le parole d’ordine sono: basta con la guerra, Miljukov e Guckov (ministro della guerra) se ne devono andare. Alcuni rivendicano la cacciata di tutto il governo provvisorio. Al seguito dei soldati si muovono le fabbriche. Il giorno seguente si replica, su appello del comitato bolscevico di Pietrogrado, le officine si fermano e i quartieri operai si riversano nel centro.

A loro volta i cadetti convocano manifestazioni patriottiche e in sostegno al governo. Scontri, scaramucce, sparatorie disordinate, vittime… e movimenti sospetti di truppe da parte di un certo generale Kornilov. Tira aria di colpo di Stato, e per quanto pavidi i capi riformisti del Soviet lo capiscono. Il Comitato esecutivo ordina alle truppe di obbedire solo agli ordini del Soviet e proibisce ogni manifestazione per due giorni. Le masse obbediscono fidandosi dei loro dirigenti, la borghesia non osa disobbedire. Pare che la crisi sia risolta con le consuete acrobazie verbali.

Ma dopo la prova di forza del Soviet la borghesia non può più governare da sola ed esige l’ingresso dei conciliatori nel governo. Ciò a sua volta determina l’uscita di Miljukov e di Guckov, impresentabili per una coalizione che deve ammantarsi di retorica democratica e pacifista. Il 5 maggio il nuovo governo, con 6 ministri socialisti su 15, viene approvato dal Soviet di Pietrogrado; contro la coalizione i bolscevichi raccolgono solo 100 voti.

Il “dualismo di poteri” nato dal febbraio si trasferisce nel governo, e lì si consumerà fino all’ottobre. Le masse hanno parlato. In luglio cercheranno di agire. In ottobre chiuderanno la partita. (5 – continua)

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