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“Le colpe sono tutte in alto” – Intervista a un’operatrice sanitaria

 “Vogliamo un’organizzazione degna di questa emergenza”

In queste settimane abbiamo potuto misurare sul campo quanti danni sono stati inferti alla sanità pubblica con tagli e finanziamenti al privato. Se in questa emergenza il servizio pubblico non è definitivamente collassato lo si deve all’impegno del personale sanitario e tutti quei lavoratori dei servizi esternalizzati. Abbiamo intervistato un’operatrice sanitaria dell’ospedale di Varese che ci ha descritto in quali effettive condizioni si trovano costretti a lavorare.

L’emergenza ha messo in luce lo stato debilitato della sanità pubblica, cosa significa nel concreto del tuo lavoro quotidiano?

Già prima eravamo sotto organico, ora con il Covid- 19 le cose si sono complicate notevolmente. Dovevi preparare la sala operatoria, il paziente per l’intervento, adesso è tutto cambiato perché di fatto devi operare come se ti trovassi in una sala per terapie intensive.

Anche il paziente affetto da Covid 19 può avere una appendicite, rompersi una gamba, insomma deve essere operato, solo che la sala operatoria normale non va bene. Il personale deve essere bardato con tutto il necessario, casco, dispositivi come da procedura, il tutto dall’inizio alla fine dell’intervento che a volte dura molte ore.

Il disagio è tantissimo. I tempi sono più lunghi del normale. Una parte del materiale e degli strumenti deve stare fuori dalla sala, quindi devi avere il doppio del personale. Se di solito c’è una strumentista, un anestesista, e un operatore sanitario (OS), adesso ogni posizione deve essere raddoppiata con quelli che stanno fuori dalla sala a passarti il materiale. Tra un paziente e l’altro devi fare tutto il processo di sterilizzazione e tutta la procedura di svestizione e vestizione, e ricominciare da capo.

Abbiamo dovuto imparare come trattare questi casi perché non eravamo personale adibito a questo tipo di problemi, non è stato facile soprattutto per le infermiere che hanno già un incredibile quantità di lavoro da svolgere.

Il nostro ospedale è accreditato come trauma center, in questo periodo traumi grossi ne arrivano pochi, perché la gente non va in giro, però quando arrivano bisogna intervenire anche molto rapidamente.

Il primo problema è accertarsi che il paziente non sia positivo al Covid-19. È capitato che arrivavano pazienti dichiarati negativi e poi invece erano positivi, e abbiamo operato in sale non attrezzate senza l’adeguato abbigliamento. Per questo dopo i primi episodi nel reparto di chirurgia generale abbiamo denunciato gli episodi e siamo stati messi in sorveglianza sanitaria, cioè in osservazione per 15 giorni

A chi aveva un sintomo facevano il tampone, altrimenti niente, si continuava a lavorare come se niente fosse. Da poco ci provano la febbre a inizio turno, ma tutto ciò ovviamente non è sufficiente. Il tampone te lo fanno se stai proprio male.

Dopo il caso di Covid operato nella sala non attrezzata abbiamo deciso di obbligarli a farci controllare la cartella insieme all’anestesista, se non gli fanno il tampone o se il paziente deve essere operato urgentemente li costringiamo ad operarlo nella sala Covid, anche se questo come ho spiegato implica per noi grandi sacrifici.

Da quando abbiamo detto che ci saremmo rifiutati di lavorare se non era garantita la totale sicurezza operano tutti in sala Covid.

È già inaccettabile che alle persone facciano il tampone solo se hanno evidenti sintomi, ma che non li facciano a voi è scandaloso, perché?

Non ci fanno i tamponi perché se no risulterebbe che siamo tutti infettati, questo l’abbiamo capito da subito. Infatti è il personale sanitario una delle prime cause della diffusione dell’infezione, vedi il caso di Alzano. Questo perché siamo costretti a lavorare senza le adeguate misure di sicurezza. Manca tutto, anche le mascherine, ce ne danno una al giorno e ti dicono che deve bastare per tutto il giorno, quando è risaputo che in un ambiente contaminato va cambiata con una certa regolarità.

Viviamo in un continuo stato di ansia al pensiero di essere positivi al virus, asintomatici che portano l’epidemia fuori dall’ospedale. Vale sia per chi vive da solo che per chi ha famiglia,

Abbiamo tante ragazze che sono arrivate dal sud, hanno preso un locale in affitto, vivono in conclave, a volte non vedono l’ora di arrivare in ospedale, perché nonostante tutto almeno possono scambiare qualche parola. Chi ha famiglia sta ancora peggio, ho visto lavoratrici avere vere e proprie crisi di panico.

C’è la paura nel dover fare gli interventi nelle sale operatorie. Chi ha figli e mariti ha dovuto rivoluzionare la propria vita in casa, si cerca di gestire gli spazi, dormire in letti separati, chi può in stanze diverse, di incrociarsi il meno possibile, bisogna disinfettare tutto quello che si tocca, mangiare separati, si prendono misure estreme perché c’è tanta paura, nessuno si sente sicuro.

È una cosa che vivi dalla mattina alla sera, te la porti a letto ed è la prima cosa a cui pensi quando ti svegli, non parliamo poi di chi in casa ha soggetti a rischio: cardiopatici, diabetici, immunodepressi, anziani. Un incubo. Guarda quello che sta venendo fuori dalle Rsa (Case di riposo per anziani ndr), figuriamoci se la maggior parte del personale non è positivo. E tutto perché non ci fanno i tamponi. Vogliamo i tamponi, noi dobbiamo avere la priorità per il bene della collettività, non i calciatori i milionari e i segretari di partito, perché hanno soldi e privilegi.

Oltre ai tamponi cosa chiedete?

Vogliamo un’organizzazione degna di questa emergenza, non è colpa delle nostre caposala, il problema è in alto, su ogni cosa. Per esempio, la lavanderia non riesce a darti le divise. Non dico quelle per il presidio sanitario, neanche quelle normali. Ogni giorno è una lotta per recuperare il materiale, un giorno mancano le provette, un giorno i sacchetti per le urine, devi sprecare tempo prezioso a correre da un reparto all’altro a cercare e farti prestare il materiale che ti serve. Questo è il risultato dei famosi tagli lineari nella sanità di questi anni. Dobbiamo usare il nostro tempo per trovare soluzioni anziché curare i pazienti. Il materiale e il personale mancavano anche prima, ma con l’emergenza i problemi si sono decuplicati.

Nei momenti in cui ci ritroviamo come personale ci facciamo una forza incredibile a vicenda. Il mio reparto non faceva le notti, ora si, quei momenti di aggregazione sono importanti, ci scambiamo le idee, prendiamo decisioni su come procedere, cerchiamo di tutelarci insieme. Questo la dice lunga su quanto il lavoratore è responsabile e conosce il proprio lavoro.

Vogliamo più personale, ora e dopo l’emergenza. In terapia intensiva c’è gente che fa 12 ore. Per sistemare otto pazienti ci vogliono sei infermieri completamente chiusi nelle tute protettive, quattro ore per sistemare i pazienti, una fatica immane. Poi senza neanche prendere fiato si deve subito partire con la terapia, una corsa contro il tempo. Una corsa che dura da tantissimi giorni.

Anche per le sale operatorie è arrivata una circolare che ci avvisava di tenersi pronti a turni infiniti. Ma ore infinite in sala operatoria possono portare a disattenzioni, l’eccessiva stanchezza può mettere a rischio la vita dei pazienti.

Vogliamo il sindacato presente qui in corsia, sono spariti tutti. Solo i delegati sono rimasti, gli altri non si vedono più a parte qualche comunicato sui giornali o su Facebook. Abbiamo scritto, telefonato, ma non si è fatto vedere nessuno. Se li chiamiamo ci danno qualche risposta di rito, ma nessuno ci dice cosa sta succedendo effettivamente.

Vogliamo che si smetta di dare soldi ai privati, li devono dare al personale ospedaliero, dobbiamo rinnovare il contratto, più assunzioni, investire negli ospedali.

 

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