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La vittoria di Elly Schlein e il futuro del PD

L’elezione di Elly Schlein a segretaria apre una nuova fase nella storia del Partito democratico. Ne è il segno più evidente il fatto che il voto nelle primarie aperte ha ribaltato nettamente il risultato del voto fra gli iscritti. Se i 155.000 tesserati partecipanti ai congressi dei circoli avevano infatti attribuito a Bonaccini il 52,9 per cento dei consensi, il milione e centomila partecipanti alle primarie del 26 febbraio hanno spinto Schlein, con il 53,75% e oltre 80.000 voti di scarto, a una vittoria per molti inattesa.

Non per noi. Nel documento politico che abbiamo recentemente discusso nel nostro congresso nazionale, la cui bozza era stata scritta a inizio ottobre, segnalavamo chiaramente che questa ipotesi era in campo. Le prime analisi del voto ne confermano i dati qualitativi salienti: la prevalenza netta nelle grandi città, la componente di giovani e donne, la mobilitazione di un “popolo di sinistra” che da tempo aveva maturato una forte delusione verso il Partito democratico.

Non a caso è la prima volta che le primarie rovesciano il risultato del voto degli iscritti.

Nella sua campagna Schlein ha agitato i classici temi di una sinistra riformista, e li ha ribaditi nelle prime dichiarazioni dopo la vittoria: lotta alle disuguaglianze, alla precarietà, salario minimo, difesa della sanità pubblica, diritti civili, ambiente, ecc. Ha ricordato che l’astensionismo di massa riguarda soprattutto i settori più poveri della popolazione, invitando a rivolgersi ad essi.

Tutto questo, tuttavia, mantenendo toni e argomenti quanto più possibile nel vago: non ha appiccato incendi, né evocato alcuna prospettiva seria di conflitto sociale. Si tratta con tutta evidenza di un riformismo timido, non differente da quello delle altre forze del Partito socialista europeo, e che in quanto tale non mette in discussione il mercato, la vocazione europeista e atlantista che ha contraddistinto il Pd in questi anni. Eppure lo scontro con Bonaccini è stato universalmente inteso come uno scontro tra una linea di destra e una di sinistra: tra la continuità e il cambiamento, tra il “ceto politico” che pensa ad autoperpetuarsi e una base elettorale e sociale del PD avvilita non solo dalle sconfitte elettorali, ma soprattutto dal profilo di un partito del quale ormai poteva solo vergognarsi.

Un partito profondamente screditato

La vicenda va infatti inquadrata nel concreto della traiettoria vissuta dal PD e dal suo elettorato in questi anni.

Almeno dal 2011, ossia da quando il Berlusconi venne costretto a cedere il passo al governo Monti, il PD è stato quasi costantemente partito di governo. Si è trovato a gestire le violente misure di austerità del governo Monti-Fornero, poi a governare in coalizione con Berlusconi dopo il 2013. Poco dopo subiva la scalata interna di Renzi, che nel giro di due anni si assicurava un posto nella galleria dei politici più odiati dalla classe lavoratrice, prima con l’attacco allo Statuto dei lavoratori e poi con la controriforma della Buona scuola.

Sfrattato dalle stanze ministeriali dopo la catastrofe elettorale del 2018, il PD rimaneva comunque a disposizione della classe dominante nel periodo del governo “gialloverde” Lega-5 Stelle. La breve parentesi “di sinistra” del governo Conte 2, in alleanza coi 5 Stelle, portava a uno dei capitoli più ingloriosi nella storia del partito, nel quale una opaca lotta interna portava alle dimissioni di Zingaretti e a una nuova esperienza di unità nazionale sotto Draghi, sempre in nome della “responsabilità”, dell’“Europa” e (ulteriore catena al collo), del sostegno incondizionato all’impegno della NATO a fianco dell’Ucraina e contro la Russia.

La sintesi di questo percorso tanto tortuoso quanto infausto, ha consolidato l’immagine di un partito di potere e del potere, sempre prono ai voleri della classe dominante italiana e internazionale, il cui perimetro elettorale si riduceva sempre più ai ceti benestanti, istruiti e “illuminati”. Un partito incapace non diciamo di risolvere, ma neppure più di vedere la crisi sociale nella quale sono sprofondati milioni di lavoratori, pensionati, disoccupati, e la rabbia delle giovani generazioni private di qualsiasi futuro e speranza.

Chi poi, per motivi di età, ha memoria anche dei governi di centrosinistra precedenti la nascita del PD, conserva chiara coscienza delle politiche degli anni ’90 e inizio 2000: privatizzazioni, precarizzazione, sostegno alle guerre in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq…

L’aspettativa di cambiamento pertanto non si misura solo con le fin qui pallide proposte della Schlein, che per altro ha sostenuto in Parlamento l’invio di armi in Ucraina, ma con la profonda disillusione di un partito del quale, come dicevamo, la maggior parte dei suoi iscritti e sostenitori più vicini ormai si vergognava.

Cambiare o perire

La maggioranza dei commentatori ha espresso sorpresa per la vittoria di Elly Schlein. Non noi. Solo chi ragioni in termini astratti e superficiali può pensare che un partito di massa (e il PD nonostante tutto lo è sempre rimasto) possa semplicemente sparire nel vuoto, consumandosi come una candela.

Il PD era stretto in una morsa: a destra era insidiato dalla concorrenza del polo centrista di Calenda e Renzi, che cerca di strutturarsi come l’interprete più fedele e coerente degli interessi della borghesia. A sinistra subiva la forte erosione elettorale da parte del M5S, che fra i ceti popolari, in particolare nel mezzogiorno, ha consolidato il suo profilo di “difensore dei deboli”, fino a iniziare un timido corteggiamento con una CGIL anch’essa in piena crisi di strategia e credibilità.

L’alternativa alla morte lenta era una scelta, e come una scelta si sono configurate queste primarie: o a destra, con Bonaccini, verso una nuova alleanza con il polo centrista sulla base di politiche confindustriali e compiutamente borghesi, oppure a sinistra, con Schlein, a costruire un fronte coi 5 Stelle, cercando di recuperare consensi fra i lavoratori e nelle fasce popolari. Ha vinto, e nettamente, la seconda ipotesi.

Le reazioni alla vittoria di Schlein sono diretta conseguenza di questo riposizionamento. Nel terzo polo si esulta, Boschi ha già fatto un appello piuttosto esplicito ai settori borghesi del PD (“riformisti”) ad abbandonare il partito e a unirsi al campo centrista. L’ex ministro dell’Istruzione Fioroni ha in effetti già annunciato la sua uscita dal PD e la nascita di un “network di democratici, popolari e cristiani”. Ma i candidati all’uscita sono molti. L’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini potrebbe essere tra i prossimi. Altri, come il sindaco di Bergamo Gori e soprattutto lo stesso Bonaccini stanno per ora mantenendo una posizione cauta, subordinando la loro permanenza nel PD alle scelte della nuova segretaria sia sul terreno politico che nei rapporti interni con le altre correnti. Le parole di Gori sono sufficientemente chiare: “Ora Elly dovrà avere le capacità di valorizzare le diverse energie che si trovano nel Pd. Un partito con diverse fratture, con forti differenze territoriali tra Nord e Sud, generazionali, di cultura politiche che sarà importante tenere insieme e tutto questo dipende da lei, da come affronterà alcuni nodi fondamentali: terrà la posizione atlantista o no? Terrà la linea Letta sull’Ucraina o no? Sarà pragmatica sul lavoro che non è solo difesa dei salari ma anche creazione di lavoro o no?”. “Se sarà così il Pd sarà il mio partito. Io le faccio molti auguri, vedo anche gli aspetti delle potenzialità di quello che è riuscita a fare. Certamente però ci sono anche dei rischi” (Il Sole 24ore, 27 febbraio 2023).

Reazioni agrodolci sul fronte dei 5 Stelle. Le dichiarazioni-fotocopia rilasciate dai dirigenti del M5S, il cui senso è che “Schlein ha vinto perché ha copiato i nostri temi, ma c’eravamo prima noi”, tradiscono la evidente preoccupazione di una maggiore competizione da parte del PD. Ci saranno sicuramente delle convergenze parlamentari fra i due partiti, ma il possibile fronte tra PD e M5S sarà più il terreno di un scontro per l’egemonia nel campo dell’opposizione che non una effettiva collaborazione che possa moltiplicarne l’impatto nella società.

La vittoria di Schlein avrà indubbiamente un effetto sulla CGIL, della quale ha cercato l’appoggio riportando nel proprio programma diversi punti tratti dalle proposte del sindacato.

Quale prospettiva?

È necessaria una analisi seria su quale sarà la profondità e gli effetti della svolta del PD. A sinistra non sono pochi quelli che cercano di esorcizzare la vittoria della Schlein sostenendo che si tratta di un fenomeno superficiale, effimero, privo di relazioni con divergenti interessi di classe presenti nella società. Non siamo d’accordo. I principali elementi oggettivi della situazione spingono nella direzione opposta. Li elenchiamo brevemente:

1) La situazione sociale (inflazione, precarietà dilagante, effetti della guerra e delle sanzioni, ecc.) genera un malcontento profondissimo fra i lavoratori, i giovani e in generale le classi popolari. È implicita la possibilità di un movimento di scioperi per cercare di recuperare il potere d’acquisto perso e per contrastare ulteriori peggioramenti introdotti dal governo, sulla linea di quanto sta accadendo in paesi come Gran Bretagna, Francia, Canada, Usa, ecc. Allo stesso modo è inevitabile ad un certo punto lo sviluppo di mobilitazioni per la difesa del reddito di cittadinanza e contro i progetti di Valditara sulla scuola, così come contro i progetti di “autonomia differenziata” che affosseranno ancora di più scuola e sanità pubbliche.

Tuttavia questo influenzerà anche, sia pure in modo indiretto, anche i partiti di opposizione. La stessa concorrenza fra PD e M5S potrebbe generare una parziale rincorsa per non lasciarsi scavalcare troppo a sinistra dagli alleati-concorrenti.

2) Il governo Meloni dispone di una ampia maggioranza, e nonostante le sue contraddizioni interne non è prevedibile una sua crisi seria, che possa portare ad una sua caduta in tempi brevi. Anzi, la vittoria nelle recenti elezioni regionali ha rafforzato la sua determinazione. Arriveranno altri attacchi e provocazioni che susciteranno proteste e forse anche movimenti più generali. Non esiste più una destra che possa ammantarsi dell’immagine di forza di opposizione, come fece Salvini durante il governo Monti e poi Meloni durante il governo Draghi. Pertanto la ricerca di alternative, soprattutto sul piano elettorale, dovrà rivolgersi verso le forze di opposizione più visibili a livello di massa, considerando l’estrema debolezza di Unione Popolare e la totale subalternità di Sinistra Italiana.

3) A differenza del decennio passato, la borghesia non ha lo stesso bisogno del passato di ricorrere al contributo del PD. Questo significa che la fase di opposizione per il PD si prospetta non breve, e già questo è un fattore importante: se vogliono tornare nelle stanze del potere, se la devono sudare riconquistando un sostegno nella società, e questo può venire solo dai quei settori popolari che hanno abbandonato la sinistra in favore dell’astensionismo e del voto ai 5 Stelle.

Tutto questo indica che lo spostamento a sinistra del PD potrebbe essere una strada obbligata per tutta una fase.

Come ogni processo, avrà le sue contraddizioni e i suoi contraccolpi. L’elemento più forte contro questa ipotesi non è solo nel carattere moderato e superficiale delle proposte della Schlein, ma nel profondo discredito, potremmo dire disprezzo, che lungo molti anni si è sedimentato fra ampi settori di lavoratori verso il PD. Risalire la china non è affare da poco.

Tuttavia la politica, quando si parla della politica che coinvolge masse di milioni di persone e non le conventicole di un ristretto numero di attivisti frustrati, è sempre questione di alternative. Secondo Alessandro Di Battista, basta ignorare il PD perché questo si estingua in silenzio, come avvenuto ai socialisti francesi. Ma è proprio l’esito delle primarie a smentire questa prospettiva semplicista.

La vittoria di Schlein non toglie certo il sonno ai padroni, che per ora si limiteranno a vigilare che non vada troppo a sinistra e che non apra crepe nel fronte “atlantista” di sostegno all’Ucraina. La classe dominante non manca di strumenti per condizionare le scelte del PD, come di tutti i partiti riformisti, che siano i tradizionali partiti socialisti o quelli di “nuovo conio” come Podemos in Spagna o la France Insoumise in Francia. Ma più che in questa fase di opposizione, sarà in un momento successivo, quando dovesse nuovamente avere necessità del PD per formare un governo, che questi verranno impiegati in modo determinante.

Con Schlein non ha vinto né una chiara posizione di classe, né tantomeno un programma anticapitalista o rivoluzionario. Dal punto di vista della struttura del PD, i compromessi con i settori più moderati non mancheranno, a partire da quelli che già in questa campagna hanno fiutato che il vento poteva soffiare da sinistra e hanno sostenuto la sua candidatura, Franceschini in primis.

Tuttavia il pericolo maggiore oggi non è che la svolta a sinistra si fermi troppo presto, ma al contrario che essa, proseguendo, generi facili illusioni. Il modo per combatterle non è negare che la svolta sia avvenuta, o ridurla a mero fatto di opinione.

Piaccia o meno, lo scontro nel PD è connesso, in modo indiretto, a una reale contraddizione di classe. Possiamo dire che la lotta di classe reale sta alle primarie come la luce di un bel mattino d’inverno sta al suo riflesso in una pozzanghera di acqua stagnante e malsana: l’evidente differenza tra i due non nega che il riflesso e il raggio di sole siano l’uno conseguenza dell’altro…

E sarà proprio la futura lotta di classe a fare chiarezza sulla traiettoria della neo segretaria. Chi come noi si pone il problema di lottare contro le illusioni che inevitabilmente sorgeranno contro questa reincarnazione del riformismo in Italia, deve partire da questa consapevolezza. Il riformismo non può semplicemente “sparire” dal quadro politico, perché trae la sua forza non solo dal sostegno della borghesia, ma in primo luogo dalla necessità delle classi sfruttate di influire di far valere i propri interessi.

Il tratto fondamentale della nostra epoca non sono quindi le illusioni nel riformismo, ma il fatto che esse sono destinate a scontrarsi molto rapidamente con la realtà di un sistema capitalista che attraversa la sua crisi più profonda. Basi materiali per una politica di riforme sociali e di compromesso fra le classi non ne esistono, meno ancora per dare loro un carattere duraturo.

Proprio per questo non ci sorprende e tantomeno ci preoccupa la vittoria di Elly Schlein. Una contraddizione di classe ancora latente e mediata finche si vuole l’ha spinta alla sua attuale posizione, ma sarà la lotta di classe reale e dispiegata a mettere a nudo tutta la vacuità del suo programma di conciliazione fra le classi. Lì, come sempre, sarà il nostro posto, per contribuire con la nostra azione a una reale presa di coscienza della assoluta inconcludenza del riformismo e dei dirigenti che lo incarnano.

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