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La scossa di terremoto dei Gilet gialli

Nel 2019 Macron potrà realizzare il suo programma di riforme?” (Le Figaro, 2 gennaio 2019).

Il movimento dei Gilets gialli ha aperto una nuova fase nell’ascesa della lotta di classe in Francia. È comprensibile quindi la profonda inquietudine espressa da Le Figaro, voce della classe dominante. Nel discorso televisivo del 10 dicembre, un nervoso presidente della repubblica è stato costretto ad alcune concessioni, mescolate a false promesse e a tanto fumo. Una marcia indietro del governo non si vedeva, in Francia, dalle lotte studentesche del 2006.

Macron ha in programma austerità per pensionati, disoccupati e dipendenti pubblici: ogni mossa in quella direzione potrebbe sollevare un movimento ancora più profondo di quanto visto finora. Al tempo stesso, il grande capitale francese perde quote di mercato in Europa e nel mondo da più di tre decenni e ha bisogno di continui attacchi ai diritti sociali per recuperare competitività e profitti. Alcuni commentatori suggeriscono a Macron di prendere “una pausa” nelle riforme, ma la situazione economica rende poco praticabile questa pista.

Ormai il movimento non è più centrato soltanto su rivendicazioni economiche. La richiesta delle dimissioni di Macron è unificante e, sin dall’Atto V del 22 dicembre, la parola d’ordine del Ric (referendum di iniziativa civica, ossia dei cittadini) ha aperto un conflitto anche sul terreno democratico. L’idea è semplice: se un numero sufficiente di persone lo richiede, si deve organizzare un referendum vincolante sulla revoca di un eletto, su una manovra economica o su un qualsiasi testo di legge. Che il Ric stia emergendo come rivendicazione democratica centrale del movimento riflette una profonda sfiducia nella democrazia borghese in nome di un tentativo, ancora confuso, di decidere direttamente della propria vita. Il punto essenziale non è tanto la scontata debolezza della proposta in sé, e certamente i marxisti devono difendere l’idea che una vera democrazia è impossibile senza l’esproprio degli sfruttatori, quanto piuttosto la direzione nel processo di presa di coscienza che essa indica. I pennivendoli della classe dominante, d’altra parte, attaccano il Ric in nome della “stabilità delle istituzioni”. Per questi signori, il popolo francese dovrebbe farsi spogliare da Macron senza fiatare fino al 2022, scadenza del mandato del “presidente dei ricchi”.

 

Di nuovo sulla composizione di classe

La stampa italiana ha rilanciato l’idea, presa a prestito dall’ufficio stampa di Macron, che la mobilitazione dei Gilet gialli sia un fatto di padroncini e abbia l’estrema destra, in particolare Marine Le Pen (leader di Raggruppamento Nazionale), come proprio riferimento politico. Il tutto serve a presentare lo schema invariante dei liberali illuminati – in questo caso Macron preoccupato della transizione ecologica – contro i “bifolchi” incapaci di capire la modernità, euroscettici, magari anche razzisti e senz’altro elettori della destra populista. La realtà è, in un certo senso, il capovolgimento di tale interpretazione ideologica.

Innanzitutto, la Le Pen non s’è mai fatta vedere ai blocchi o in un qualunque corteo; la paladina dello slogan “legge e ordine”, poi, non ha mai solidarizzato coi tanti manifestanti arrestati e malmenati dalle forze speciali. Si vede che, per questa miserevole demagoga, la Francia “dei dimenticati” non può alzare troppo la testa. Inoltre, la Le Pen si è espressa contro la rivendicazione di aumento del salario minimo che figurava tra le questioni più pressanti avanzate dai manifestanti.

La prima inchiesta sul campo, promossa da ricercatori della massima istituzione culturale francese, il Cnrs, e pubblicata nelle pagine centrali di Le Monde (11 dicembre) segnala che un terzo dei partecipanti ai blocchi sono impiegati, una percentuale superiore al loro peso numerico nella società, il 14 per cento operai industriali e circa un quarto disoccupati o pensionati. Ciò significa che la composizione sociale è essenzialmente proletaria, senza che ciò neghi una presenza significativa degli strati inferiori della piccola borghesia (artigiani, piccoli commercianti o agricoltori). Lo strato sociale più assente sono i quadri superiori d’azienda. Anche rispetto alle opinioni politiche pregresse, i risultati sono degni di interesse: un terzo delle persone intervistate si dichiara apolitica, tra i restanti il 42 per cento è di sinistra ed il 15 per cento, addirittura, di estrema sinistra. Le ragioni della protesta sono individuate nella necessità di accrescere il proprio potere d’acquisto – perché non ci si può quasi mai “permettere un piacere della vita” – e in una reazione al disprezzo di classe di chi comanda. Soltanto l’1,2 per cento degli intervistati menziona la questione dell’immigrazione.

Forse ancora più importante il fatto che quasi la metà degli intervistati ha dichiarato di non aver mai partecipato ad uno sciopero prima di questo autunno. Quel dato, confermato da mille altri rilevatori, può essere fonte di delusione soltanto per chi non riesca a guardare oltre le schiere del mondo degli attivisti. Si tratta invece di un elemento che attesta la profondità del movimento dei Gilet gialli. E nessun processo rivoluzionario, sia detto per inciso, s’è mai dato senza che settori meno organizzati e tradizionalmente più inerti della classe e dei cosiddetti ceti medi siano entrati in lotta, portandosi ovviamente dietro tutti i pregiudizi che la classe dominante instilla a iosa nella società.

Ci preme aggiungere una nota che ci riporta all’origine del movimento, ovvero la tassazione del carburante per finanziare la transizione ecologica. Le prediche altezzose di Macron sull’ecologia non hanno incantato nessuno e sono state viste, giustamente, nella loro ipocrisia. L’ipocrisia dei ricchi che vorrebbero fare pagare la crisi ecologica a chi, per ragioni di povertà, ha una macchina a diesel e, anche in ragione dei tagli al trasporto pubblico locale, non può che andare al lavoro in auto.

 

Il ruolo dei sindacati

L’esplosione sociale è stata spontanea e le direzioni sindacali non vi hanno giocato alcun ruolo. Al contrario, il segretario della centrale sindacale Cfdt, vicina al Partito Socialista, ha bollato come “totalitario” il movimento. Il segretario generale della Cgt, equivalente francese della Cgil, ha tenuto un atteggiamento più ondivago ma, al momento decisivo, si è piegato alla richiesta di unità nazionale formulata dal primo ministro Philippe e ha deplorato i “metodi violenti” nel formulare le rivendicazioni sociali. Non è stata nemmeno neutralità. Firmando il vergognoso comunicato congiunto del 6 dicembre, i segretari dei tre principali sindacati hanno anche facilitato, politicamente, l’impressionante dispiegamento militare che ha “accolto” e represso i manifestanti in tutta la Francia i sabati 8 e 15 dicembre: 90mila poliziotti di cui 8mila a Parigi, 14 blindati nelle strade della capitale, uso di ordigni non letali ma vietati in tutto il resto dell’Europa occidentale, tiri tesi di flashball che hanno causato diversi feriti gravi e lacrimogeni a pioggia.

La direzione della Cgt non ha mosso un dito perché la sua giornata nazionale d’azione del 14 dicembre divenisse uno sciopero generale e si unisse al movimento in corso, paralizzando l’economia. Su quella stessa linea, i segretari generali dei trasporti della Cgt e di Fo di area socialista, hanno annullato uno sciopero dopo che il governo ed il padronato di settore, per paura di un allargamento del conflitto, avevano accettato la piattaforma sindacale – dimostrando con ciò anche quanto una lotta avrebbe potuto ottenere oltre la piattaforma. Questa linea di capitolazione ha provocato reazioni dure, talora di autentica indignazione, specialmente all’interno della Cgt. La rabbia dei militanti ha spinto importanti Camere del lavoro, Marsiglia e Tolosa su tutte, ad esprimere il proprio dissenso con toni molto intensi. A Marsiglia, peraltro, l’intervento del servizio d’ordine della Cgt davanti ad una scuola superiore ad evitare la repressione della Celere contro gli studenti, ha mostrato in modo plastico la forza potenziale del movimento operaio.

In sintesi, le azioni di blocco dell’economia promosse con coraggio dai Gilet gialli anche contro grandi multinazionali come Amazon hanno toccato il massimo di ciò che possono dare in assenza di uno sciopero generale. Questo vuoto è interamente responsabilità delle attuali direzioni sindacali. Così e solo così si spiega la presenza non massiccia ai presidi ed ai blocchi dei lavoratori più organizzati e sindacalizzati delle grandi concentrazioni dei servizi e, ancor di più, dell’industria.

Dal punto di vista di classe opposto, Le Figaro (12 dicembre) ha confermato l’analisi dei marxisti sul ruolo delle direzioni sindacali quando gli è scappata la confessione che la Cgt “ha incanalato per un secolo il malcontento popolare. La crisi dei “Gilet gialli” ha mostrato quanto fosse prezioso questo saper fare. E quanto fosse un problema la crisi del sindacalismo”. C’è altro da aggiungere?

 

Melenchon, la spontaneità e “il popolo”

Mélenchon, capo della France Insoumise (Fi, principale forza della sinistra), ha sostenuto fin dall’inizio il movimento dei Gilet gialli e ha criticato la condotta delle direzioni sindacali, intente a ricercare “l’uscita dalla crisi” attraverso negoziati col governo. Hamon, ex candidato a presidente del moribondo partito socialista dal quale è peraltro uscito, ha provato a fare la lezione a Mélenchon scandalizzandosi per la dichiarazione di stima fatta da questi a Eric Drouet, leader dei Gilet gialli arrestato per la seconda volta. Hamon ha affermato che Drouet sarebbe stato un elettore della Le Pen, ma la notizia è stata derubricata a fake news dal quotidiano Libération nel giro di poche ore.

Tuttavia la Fi non ha cercato di offrire una strategia al movimento, puntando su una sconfitta elettorale di Macron alle Europee. Il problema è che i dirigenti della Fi considerano questo movimento come una conferma eclatante delle loro teorie di ispirazione populista, in versione di sinistra alla Laclau e Mouffe, sulla “rivoluzione civica”. In altre parole, oggi non esisterebbe più la centralità della classe lavoratrice che avrebbe ceduto il posto ad un nuovo attore storico: il “popolo”. A partire da tale assunto, l’azione indipendente dei lavoratori, per mezzo dello sciopero, non è più considerata come decisiva per sconfiggere l’avversario. Altra nota dolente è l’accodarsi alle naturali – visto che siamo agli inizi di un processo – illusioni democratiche che ritroviamo nella fiducia riposta dai Gilet gialli nel Ric.

Politicamente, dunque, Mélenchon sembra cantare le lodi delle debolezze attuali del movimento piuttosto che partire dai punti di forza per favorire ulteriori passi in avanti.

(Nota a piè di pagine per l’Italia. Toni Negri ha cercato, ancora una volta, di piegare il movimento dei Gilet gialli alla sua eterna ma polimorfa dottrina sulle moltitudini. Con poche variazioni linguistiche, valgono le critiche che abbiamo diretto al “popolo” di Mélenchon. Per gli amanti del genere, resterebbe da sapere cosa resta del cosiddetto cognitariato negriano, del quale tutto si può dire tranne che sia stato alla punta di questa lotta. Il Maestro, però, non ha comunicato nulla al riguardo.)

 

Simboli, inni e bandiere

Diciamolo con chiarezza: il tricolore e la “Marsigliese” sono stati i simboli che questo movimento ha adottato. È bene non farsi confondere scambiando spezzoni animati dai militanti del sindacato Sud-Solidaires o dell’estrema sinistra col grosso dei cortei. Naturalmente, l’assenza di simboli del movimento operaio riflette un problema ma non c’è da farne un piagnisteo. Sarebbe stato sorprendente il contrario. Non c’è bisogno di tornare agli anni ‘30 quando fu il Pcf (Partito comunista francese) stalinizzato a ridare spazio al tricolore ed alla Marsigliese nei cortei operai, o al “produrre francese” del Pcf degli anni ‘80, o ancora alla campagna elettorale del 2017 quando gli organizzatori dei comizi di Mélenchon distribuivano bandiere tricolori. Dopo decenni nei quali i partiti di sinistra sono stati lungamente al governo e non hanno lasciato un gran ricordo di sé, gestendo a più riprese la crisi del capitalismo, non è sorprendente che certi riferimenti simbolici abbiano perso forza.

Priva di punti di riferimento, gran parte dei manifestanti ha usato i simboli che ha percepito come immediatamente utilizzabili per cementare il fronte di lotta. Non è, poi, da sottovalutare che il ritornello della “Marsigliese” (frutto di una grande rivoluzione, anche se borghese) e le sue parole caratterizzanti “Alle armi, cittadini!” sono stati spesso intonati con irruenza e collera verso il potere borghese di oggi.

Ma non sarà possibile che gli inni e le bandiere del movimento operaio tornino ad essere sentiti come propri dalla maggioranza degli sfruttati senza che la questione decisiva della nostra epoca, la proprietà dei mezzi di produzione, sia al centro della battaglia. Perché nessuna sovrastruttura politica può realizzare la democrazia che cercano i Gilet gialli senza che sia spezzato il potere dei capitalisti sulla società. È il tempo di agire.

14 gennaio 2019

 

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