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La realtà delle lavoratrici della ristorazione: il piatto piange

L’8 marzo è alle porte, peccato che le donne non abbiano proprio nulla da festeggiare.

Giusto appunto, proprio in questi giorni, le grandi testate giornalistiche hanno pubblicato articoli con titoli a caratteri cubitali in cui si denuncia che nel solo mese di dicembre 2020 i posti di lavoro persi nel 98% dei casi sono posti di lavoro di donne. In 10 mesi di pandemia, nonostante il blocco dei licenziamenti, sono stati 444mila i posti di lavoro persi di cui 312mila donne (Corriere economia del 2 febbraio 2021).

A tal proposito proprio un settore particolarmente a rischio è quello della ristorazione/mense collettive di cui l’80% della manodopera è femminile. Quando si parla di campo della ristorazione non si intendono solo i ristoranti ma anche un intero settore di mense collettive aziendali presenti sia all’interno di sedi pubbliche come province, comuni e università e sia in edifici privati del settore impiegatizio. Queste mense sono chiuse perché i commensali, a loro volta lavoratori del settore pubblico, privato e studenti universitari sono tutti a casa a lavorare da remoto.

Prima della crisi sanitaria, il settore della ristorazione, solo per quanto riguarda le mense, dava lavoro a 97mila persone per un totale di 860 milioni di pasti all’anno. Il fatturato di queste aziende è crollato del 60%, secondo il Fipe, federazione italiana dei pubblici esercizi, pare che il danno sia di 8 miliardi di euro e ci sono 20mila posto di lavoro a rischio.

Quindi questa parte di lavoratori percepiscono da ormai 1 anno il Fis (Fondo integrazione salariale); anche se una parte di lavoratrici e lavoratori sono rientrati a settembre, perché impiegati sul fronte mense scolastiche, comunque una grossa fetta è ancora a casa.

A giugno dello scorso anno c’è stata una mobilitazione sindacale importante che ha visto una maggioranza di donne in piazza per protestare contro il disagio sociale che stanno vivendo in questo settore.

In queste manifestazioni le protagoniste sono state principalmente le lavoratrici del settore che, con un’età media di 50 anni, hanno denunciato di essere troppo giovani per la pensione e troppo vecchie per trovare un altro lavoro, caso mai ci fosse.

Il Fis, un ammortizzatore sociale previsto per le categorie che non hanno diritto alla cassa integrazione ordinaria, non prevede l’obbligo di anticipo in busta paga. Per questo i lavoratori sono costretti ad attendere l’erogazione da parte dell’Inps che prevede mesi di attesa.

Le lavoratrici di questo settore già prima dell’emergenza vivevano in condizioni di affaticamento per diverse ragioni: la prima è che sono soggette a continui cambi di appalti che mettono a repentaglio la stessa sicurezza del mantenimento del posto di lavoro, secondo è che spesso gli inquadramenti orari sono part- time, a volte anche di 15 ore settimanali quindi lo stesso Fis va comunque calcolato in base all’orario previsto contrattualmente e quindi riduce ulteriormente un salario già poverissimo, senza contare che il periodo di Fis viene considerato per il calcolo figurativo pensionistico ma non rientra nel calcolo contributivo con effetto negativo sull’importo finale della pensione.

Quelle poche che a settembre sono rientrate al lavoro, non solo hanno dovuto fare i conti anche con calcoli pensionistici iniqui che le sfavoriscono sui versamenti contributivi, ma inoltre per quanto riguarda il settore delle mense scolastiche, come prima dell’emergenza, non hanno ricevuto nessun tipo di aiuto per i mesi estivi, quelli in cui le scuole sono chiuse.

Il sindacato ha indetto solo una sola giornata di mobilitazione il 24 giugno, dopo questa data è caduto tutto nel silenzio, mentre avrebbe dovuto stendere una piattaforma di rivendicazione comune e organizzare un piano di attacco. Mai come in questo momento le lavoratrici e i lavoratori hanno bisogno di confrontarsi, organizzarsi e costruire insieme un reale percorso per migliorare le proprie condizioni di vita che coinvolga tutti i lavoratori, anche in questo caso, quel 20% rappresentato da lavoratori che vivono lo stesso disagio lavorativo che abbiamo descritto in questo articolo.

Questa è solo una delle realtà in cui si “festeggia” il prossimo l’8 marzo.

In una società divisa in classi dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri è difficile essere donne. Su di noi è stato scaricato tutto il peso della sfera familiare: lavoro domestico, casa e gestione dei figli. in questa emergenza sanitaria essere donna ha significato avere molto coraggio e determinazione, che non verrà certo ripagata da lor signori.

Questa crisi economica e sanitaria ha rimarcato che non c’è niente da festeggiare ma che anzi c’è ancora tanto da lottare!

Il 6 e 7 marzo ci sarà “Libere di lottare!” il convegno marxista sulla condizione femminile, partecipa e sostieni la lotta!

 

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