15 Febbraio 2023 Francesco Giliani

La polveriera del Kosovo

Sin dall’estate 2022 il conflitto su base nazionale tra serbi e albanesi del Kosovo è nuovamente esploso. Lo scontro è stato precipitato dall’azione del governo kosovaro guidato da Albin Kurti, leader di Vetëvendosje!  (Autodeterminazione), partito che mescola un feroce nazionalismo albanese ad un’ideologia socialdemocratica.

Già a maggio 2022, a seguito della domanda di adesione all’UE da parte del Kosovo, la Serbia riprese la sua campagna per il disconoscimento del Kosovo, rompendo l’accordo col quale s’era impegnata a trattenersi dal provare a convincere i paesi a non riconoscere più il Kosovo per un anno, mentre il Kosovo aveva promesso di non richiedere l’adesione alle organizzazioni internazionali.

Il governo Kurti è andato allo scontro: prima con l’obbligo della re-immatricolazione dei veicoli con targa serba e poi con l’invio di forze speciali di polizia composte da albanesi nelle zone del nord del paese, dove è concentrata la minoranza serba (10% circa del totale della popolazione). Queste manovre indicano la volontà di rompere lo stallo, rafforzare l’indipendenza di fatto del Kosovo e porre le basi per una successiva riunificazione con l’Albania. Prima nel luglio e poi nel dicembre, quindi, nelle quattro province a maggioranza serba la reazione alla politica di Kurti è stata quella di erigere barricate e blocchi stradali sotto la guida della “Lista Serba”. Nel secondo caso, centinaia di serbi inseriti nell’apparato statale kosovaro (sindaci, poliziotti e magistrati), si sono dimessi. L’arresto di uno di questi, Pantic, considerato responsabile di attacchi armati, ha innescato nuove barricate con la chiusura da parte del governo dei confini tra Kosovo e Serbia.

La KFOR, la missione NATO in Kosovo, ha respinto la richiesta del governo di Belgrado di inviare un proprio contingente a difesa dei serbi in Kosovo – la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU ne prevede la possibilità fino ad un massimo di mille militari, da stanziare ai valichi di frontiera, nei siti religiosi cristiano-ortodossi e nelle aree a maggioranza serba. A sua volta, il Ministero degli Esteri del Kosovo ha invitato l’UE ad adottare misure contro la Serbia e la NATO a rafforzare la sua presenza.

Il primo ministro kosovaro Albin Kurti

La situazione, peraltro, è inasprita dalla guerra in Ucraina. Se, infatti, le autorità di Pristina sono filo-NATO, la Serbia cerca di bilanciarsi tra l’UE, alla quale ha richiesto l’adesione nel 2009, e la Russia – contro la quale il governo serbo non applica le sanzioni occidentali. Sul Kosovo, infatti, Mosca sostiene apertamente la posizione della Serbia, la quale a sua volta è impegnata in una politica di massiccio incremento del bilancio della Difesa (1,4 miliardi di dollari nel 2021).

Soltanto la revoca della detenzione per Pantic ha indotto i serbi del Kosovo, con la mediazione del premier di Belgrado Vučić, a togliere i blocchi stradali. Già alla vigilia del Natale ortodosso, però, il ferimento di due giovani serbi da parte di un poliziotto albanese nell’enclave serba di Štrpce/Shtërpcë ha riacceso le tensioni. Uno dei temi caldi resta la formazione dell’Associazione dei comuni serbi del Kosovo, organo previsto dagli accordi del 2013 ma mai creato dal governo di Pristina, che teme la nascita di una “Republika Srpska” in Kosovo simile all’entità serba esistente in Bosnia.

 

Caos nazionalista o internazionalismo

Il Kosovo dichiarò unilateralmente la propria indipendenza nel 2008, sulla scia dell’intervento NATO contro la Serbia a fine anni ’90. Da quel momento, s’è trasformato in un protettorato statunitense, retto da un ceto politico corrotto ed in gran parte proveniente dall’UCK, la guerriglia indipendentista che operò di concerto con la NATO.

Questa situazione è stata sfruttata dall’imperialismo USA, autoproclamatosi protettore del movimento indipendentista albanese in Kosovo. Gli imperialisti non lo fecero per una reale preoccupazione per la libertà del popolo albanese, ma per estendere la loro presenza militare nei Balcani anche in Kosovo.

Più di due decenni dopo l’arrivo della NATO, il paese è ancora un protettorato. Inoltre, la politica sciovinista dell’UCK nei confronti della minoranza serba in Kosovo ha spinto questa comunità nelle braccia di protettori nazionalisti in Serbia, aprendo così la porta a nuove divisioni territoriali nel Kosovo settentrionale. Queste continue tensioni forniscono una scusa per le forze straniere per avere una presenza costante sul terreno per tenere sotto controllo i “conflitti etnici”.

Il sostegno al diritto degli albanesi del Kosovo all’autodeterminazione non implica né l’appoggio al regime della borghesia soggiogata all’imperialismo che lo governa dal 1999, né quello all’occupazione imperialista del Kosovo. Al contrario, sostenendo questo diritto, la strada per la classe operaia del Kosovo resta quella di unirsi per espellere tutte le forze imperialiste e i loro servitori dai Balcani.

I negoziati tra Belgrado e Pristina sono condotti con l’obiettivo di trovare una mediazione che assicuri un ordine, per quanto precario, e la dominazione imperialista. Questi accordi portano sia la Serbia che il Kosovo in una più profonda dipendenza economica dall’imperialismo. La liberazione nazionale dei popoli balcanici è possibile solo attraverso una federazione socialista dei Balcani, con pieni diritti democratici per le minoranze, che assicurerebbe alle masse lavoratrici il controllo delle loro risorse, delle loro infrastrutture e dell’industria che hanno costruito.

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