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La Francia in rivolta indica la strada!

L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione

 

La lotta di classe torna di prepotenza nel cuore dell’Europa. Lo scorso 5 dicembre la Francia è stata paralizzata da uno sciopero generale imponente. Oltre un milione e mezzo di lavoratori sono scesi in piazza contro l’attacco alle pensioni proposto da Macron. Una “riforma” volta a eliminare i “privilegi” che, secondo i padroni, consisterebbero tra le altre cose nella possibilità di andare in pensione a 62 anni! Nel paese transalpino non si vedevano manifestazioni operaie così massicce dal 1995, quando un altro politico borghese, Juppè, cadde proprio per aver cercato di mettere mano alle pensioni.

Nei prossimi giorni si gioca una parte importante dello scontro: dal 10 dicembre nuovi settori scenderanno in sciopero e decisivo sarà il coinvolgimento dei “battaglioni pesanti”, dei lavoratori dell’industria privata.
Lo spirito dei gilet gialli non si è sopito. Dopo il passo indietro di un anno fa sull’aumento della benzina, un dietrofront sulle pensioni potrebbe essere fatale a Macron. Anche perché, nonostante i vertici sindacali limitino le rivendicazioni al ritiro della controriforma, per le masse in piazza il vero bersaglio è l’inquilino dell’Eliseo.
Ancora una volta è la Francia a indicarci la strada: quella della lotta, l’unico strumento di difesa per le classi oppresse.

C’è qualcuno che ne prende nota in Italia? Se si guarda alle direzioni del movimento operaio, sembrerebbe proprio di no. È proprio di questi giorni un’intervista su Repubblica del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, che traccia un percorso ben diverso: “Una grande alleanza per il lavoro”. “Facciamo un progetto condiviso da esecutivo, imprese e sindacati per evitare che il paese si sbricioli”.
Un’ingenuità simile sarebbe accettabile da un alunno della scuola materna, peccato che Landini sia nato nel 1961. Di patti sociali ne sono stati firmati molti negli ultimi trent’anni e sono stati sempre i lavoratori a perderci: scala mobile, pensioni, diritti sui luoghi di lavoro…
Ma poi, chi sarebbero questi imprenditori coi quali “rilanciare l’Italia”? Unicredit, che ha appena annunciato 8mila esuberi? ArcelorMittal, che vuole 4.700 licenziamenti? Oppure Whirlpool, che nel giro di pochi mesi ha disatteso tutti gli accordi presi con governo e sindacati? O forse vogliamo chiedere ai Benetton di fare fronte comune “per evitare che il paese si sbricioli”, dopo il crollo del ponte Morandi e lo scandalo dei mancati controlli da parte di Autostrade rivelato dalla Magistratura?
Il governo Conte conferma ogni giorno di più la sua politica filopadronale. Sull’Ilva, dopo annunci roboanti e visite a Taranto del Primo ministro in persona, il governo propone 1.800 esuberi e altri regali, sostanzialmente a fondo perduto, ad ArcelorMittal.
Anche su Alitalia le voci di una nazionalizzazione sono tramontate. Con la nomina del supercommissario Leogrande si procederà all’ennesimo “risanamento” a spese dello Stato, volto alla successiva svendita della compagnia di bandiera a partner privati. Traduzione: almeno 2.500 lavoratori sono di troppo.

Sullo sfondo c’è la crisi permanente dell’esecutivo e del suo “azionista di maggioranza”, il Movimento 5 stelle. Il risultato delle elezioni in Umbria (dove i pentastellati non sono arrivati all’8%) potrebbe addirittura peggiorare in Emilia-Romagna, dove Beppe Grillo ha candidamente ammesso che chi voterà per la sua lista lo farà “per beneficienza” e che il ruolo del movimento è quello di far da tramite “per una sinistra che si deve formare anche lì”. Ma una stabile collocazione dei 5 Stelle nel centrosinistra non sarà indolore e causerà nuove convulsioni nel sistema politico.
In questa continua crisi strisciante, l’intervento del segretario della Cgil è una dichiarazione esplicita di appoggio al governo Conte, di cui “apprezziamo il cambiamento di rotta”.
Ma i lavoratori di cambiamenti di rotta ne hanno visti ben pochi, a parte i miseri 40 euro che arriveranno in busta paga (forse) dal giugno 2020, derivanti dal taglio del cuneo fiscale, e che pagheremo indirettamente con i tagli ai servizi pubblici.
Chi, compreso Landini, grida all’emergenza democratica e al pericolo della destra, se lo dovrebbe mettere bene in testa: parlare di pace sociale e collaborazione col governo e i padroni mentre le masse vedono le loro condizioni peggiorare ogni giorno, significa spianare la strada alla destra. O pensiamo che bastino le manifestazioni delle sardine a fermare Salvini e la Meloni? Ricordiamo che l’ultima volta che la Cgil ha portato in piazza i lavoratori con uno sciopero generale era 5 anni fa, contro il Jobs Act: e anche allora, si mosse a giochi ormai fatti. Non è chiaro anche a un cieco il rapporto diretto tra la passività del movimento operaio e l’ascesa della destra? Di questa passività la prima responsabilità è dei vertici della Cgil.

Ma la situazione sociale in continuo peggioramento e la crisi in arrivo non permetteranno alcuna pace sociale. Forse dovremo passare per un nuovo governo della destra, o forse questa maggioranza riuscirà a prolungare la propria agonia, ma una cosa è certa: le scene che oggi vediamo nelle strade di Parigi si ripeteranno anche qui, e sarà sulla base del movimento di massa che si potrà costruire una direzione politica e sindacale del movimento operaio che sia all’altezza dei compiti.

 

10 dicembre 2019

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