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La democrazia che vogliamo

Il 4 dicembre è stato convocato un referendum sulle riforme costituzionali proposte dal governo Renzi e approvate dalla maggioranza del Parlamento. I cambiamenti apportati alla Costituzione vanno tutti in un’unica direzione: quello di aumentare i poteri dell’esecutivo e diminuire quelli del Parlamento.
Naturalmente Renzi sta sviluppando una campagna martellante a favore del Sì. “Si riducono i costi della politica”, “finisce il bicameralismo”, “il governo sarà più vicino ai cittadini”… Spot e manifesti elettorali invadono i canali televisivi e ogni angolo delle città. La realtà è quanto mai lontana dalla propaganda.
Il Senato della Repubblica non viene abolito, ma sarà composto da consiglieri regionali (74) e da sindaci (21), e da 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica. Quindi non sarà più eletto direttamente dai cittadini. I costi del suo mantenimento non scenderanno sensibilmente, dato che le indennità parlamentari rappresentano meno del 10% dei costi di gestione.
Il nuovo Senato non voterà la fiducia al governo ma continuerebbe a eleggere il Presidente della Repubblica, a votare, tra l’altro, le leggi costituzionali e i trattati internazionali, compresi quelli relativi all’Unione europea, nonché le leggi elettorali.
I poteri dell’esecutivo aumentano dato che, con il meccanismo del “voto a data certa”, il Governo potrà chiedere alla Camera di iscrivere all’ordine del giorno, con priorità, provvedimenti che ritiene essenziali.
La riforma costituzionale è accompagnata da una nuova legge elettorale, già approvata: l’Italicum, che consegna alla lista che vince il ballottaggio, anche se al primo turno aveva ottenuto il 20% dei voti, la maggioranza assoluta dei seggi.

Una svolta autoritaria

Un giorno come un altro alla Camera...

Un giorno come un altro alla Camera…

Il progetto di Renzi non è isolato. La borghesia a livello internazionale, nel contesto della più profonda crisi economica della storia del capitalismo e di crescente instabilità sociale, chiede che ci siano governi sempre meno vincolati da qualsiasi controllo popolare, capaci di guidare la nave dell’ “economia di mercato” in un mare in tempesta. Il ragionamento di fondo è che nei paesi occidentali c’è troppa democrazia, la quale intralcia l’adozione delle “riforme” necessarie: leggasi austerità senza fine e attacchi ai diritti.
La banca d’affari Jp Morgan nel 2013 ammoniva che le costituzioni del sud Europa “mostrano una forte influenza delle idee socialiste” e invitava i governi ad eliminare da esse ogni tutela dei diritti dei lavoratori.
C’è così tanto in gioco, che i maître à penser del capitale sono disposti a togliersi la maschera di ogni “progressismo” residuo. Eugenio Scalfari, il fondatore de “la Repubblica” si produceva il 9 ottobre scorso in un suo editoriale in un elogio dell’oligarchia, “la sola forma di democrazia”, dove “sono pochi al volante e molti i passeggeri”, schierandosi contro la supremazia della “democrazia diretta”.
Come marxisti difendiamo tutti i diritti democratici contenuti nella legislazione italiana che tutelano le libertà individuali e favoriscono l’organizzazione della classe lavoratrice, e dunque contrastiamo ogni cambiamento della Costituzione verso una direzione autoritaria.
Allo stesso tempo, non facciamo nostra la parola d’ordine della “difesa della Costituzione” che rappresenta l’architrave della campagna ufficiale del No, almeno a sinistra. Non possiamo accontentarci del cambiamento di alcuni articoli invece dei 47 modificati da Renzi.
Dirigenti riformisti, professori universitari, opinionisti alla Travaglio non riconoscono il carattere di classe dello Stato e credono che il sistema di leggi esistente, di cui la Costituzione è la “Legge fondamentale”, possa “definire i valori comuni tra le parti sociali”. (dal materiale dei comitati per il No).
Il sistema capitalista non può permettere tutto ciò. Questa società è divisa in classi ed è la classe dominante, i capitalisti, a detenere i mezzi di produzione, nonché il sistema finanziario. Costituendo una minoranza fin dalla divisione della società in classi, nel corso della storia le classi dominanti si sono poste il problema di come tutelare il proprio dominio a livello economico dalla minaccia della maggioranza dalle classi sfruttate. Ed ecco nascere lo Stato, con i suoi “corpi di uomini armati” come li definiva Engels, con il sistema legislativo e l’apparato giudiziario, che emergono parallelamente all’esigenza di garantire le proprietà e il dominio di una minoranza.

La natura della Costituzione italiana

La Costituzione italiana viene approvata nel 1947 a questo scopo. Ha caratteristiche particolari dato che arriva immediatamente dopo un’insurrezione popolare, la Resistenza al nazifascismo, dove i lavoratori italiani lottarono non solo contro la barbarie nazifascista ma anche per farla finita con la barbarie capitalista. Per dirla con Piero Calamandrei, “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”.
Le promesse di uguaglianza e libertà contenute nella prima parte della costituzione furono negate fin dall’inizio: dal 1948 al 1950, furono 62 i lavoratori uccisi delle forze dell’ordine, 3126 i feriti e oltre 92mila gli arrestati per motivi politici che si contavano alla fine del 1950.
Magistratura e forze dell’ordine si sono sempre preoccupate di far rispettare solo il famoso articolo 42, che spiega che “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”. D’altra parte l’apparato dello Stato era in assoluta continuità con quello fascista. Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti erano stati funzionari sotto il fascismo, così come tutti i 135 questori e i loro 139 vice. Non dimentichiamoci che la XII disposizione finale della Costituzione vieta la riorganizzazione del Partito fascista eppure l’Msi non è mai stato dichiarato illegale, né lo sono oggi Forza nuova o Casapound.
Lenin lo spiegava bene nel 1918: “Prendete le leggi fondamentali degli Stati moderni, i loro apparati governativi, prendete la libertà di riunione o di stampa, la ‘eguaglianza dei cittadini davanti alla legge’, e troverete ad ogni passo l’ipocrisia della democrazia borghese (…). Non vi è un solo Stato, anche il più democratico, nella cui Costituzione non esistano scappatoie o clausole che assicurano alla borghesia la possibilità di procedere manu militari contro gli operai, di dichiarare lo stato di assedio, ecc. ‘in caso di perturbazione dell’ordine pubblico’, in realtà nel caso in cui la classe sfruttata turbi il proprio stato di schiavitù o tenti di agire come una classe non schiava. (La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky).
In Italia, ad esempio, “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano” (art. 40). Quindi per la Costituzione può essere limitato o vietato, come nei trasporti o nei servizi pubblici.
I diritti contenuti nella famosa prima parte della Costituzione (lavoro, istruzione, sanità gratuita, ecc.) non sono arrivati per grazia ricevuta, o perché ben 25 anni dopo la sua approvazione, Governo e Parlamento si ricordarono improvvisamente che dovevano attuare i diritti previsti dalla Carta ma furono conquistati con la forza della lotta di classe, con lo straordinario movimento dei lavoratori italiani cominciato con l’Autunno caldo (1968-69) e proseguito lungo gli anni settanta. La borghesia è stata costretta a concederli, ma dal giorno successivo ha lavorato per riprenderseli. Dagli anni ottanta in poi è avvenuto un progressivo svuotamento di tutti gli aspetti progressivi del sistema legislativo di questo paese, compresa la Costituzione. Il suggello è avvenuto con la modifica dell’Articolo 81, che impone all’interno della Carta il pareggio di bilancio (col voto a favore di molti sostenitori attuali del No), rendendo impossibile “per legge” l’attuazione dei contenuti progressivi della prima parte della Costituzione e imponendo di fatto politiche di austerità permanente.
La Costituzione italiana dunque non è “la più bella del mondo” e non potrà mai esserlo nel futuro. Il ritorno alla “democrazia ideale” è impossibile, è un’utopia riformista già smascherata da Lenin. “Gli Scheidemann e i Kautsky parlano di “democrazia pura” o di “democrazia” in generale per ingannare le masse e per nascondere loro il carattere borghese della democrazia attuale. Va da sé che la borghesia si compiace di definire “libere”, “eguali”, “democratiche”, “universali” le elezioni effettuate in queste condizioni, poiché tali parole servono a nascondere la verità, servono a occultare il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione e il potere politico rimangono nelle mani degli sfruttatori e che è quindi impossibile parlare di effettiva libertà, di effettiva eguaglianza per gli sfruttati, cioè per la stragrande maggioranza della popolazione.” (Democrazia e dittatura, 3 gennaio 1919).

Oggi il sistema di “inganno” e di “occultamento” descritto da Lenin è in grave crisi. Contemporaneamente all’erosione del ceto medio, si erodono anche le basi della democrazia parlamentare. La borghesia nei fatti ha dimostrato di essere disposta a ignorare le decisioni democratiche compiute dai popoli e le Costituzioni, quando lo ritiene necessario, ed oggi nei suoi editoriali e documenti lo esplicita in maniera chiara.
lenin_democraziaHa ignorato il “No” espresso dal 61% dei greci nel luglio 2015 ai ricatti della Troika, imponendo la capitolazione e il tradimento del governo Tsipras. Ha sostituito governi legittimamente eletti come quello di Dilma in Brasile a colpi di impeachment. Ha imposto governi “tecnici” come quello di Mario Monti nel 2011.
La legalità e l’onesta non sono dunque valori assoluti, come ritiene il Movimento cinque stelle, ma dipendono dai rapporti di forza fra le classi.
Milioni di persone possono vedere nell’esperienza di tutti i giorni la farsa della democrazia borghese, (“Nei parlamenti non si fa che chiacchierare, con lo scopo determinato di turlupinare il ‘popolino’ ”, scriveva Lenin), l’evidenza che il loro voto viene vanificato da sistemi elettorali sempre più maggioritari e non conta nulla, che le aule parlamentari vengono sottratte sempre più della loro capacità decisionale.
Le mobilitazioni che si sviluppano a livello internazionale hanno fra le principali rivendicazioni quella che a decidere non siano più un gruppo di banchieri e capitalisti, i 62 miliardari che controllano metà della ricchezza mondiale.
Come marxisti rifiutiamo di essere relegati nel recinto della battaglia di retroguardia di una difesa di un vuoto simulacro, quello della Costituzione repubblicana. Al governo del capitale degli oligarchi contrapponiamo il governo dei lavoratori.

Il governo dei lavoratori

La soluzione per l’attuale crisi dell’umanità risiede nella rivoluzione socialista internazionale. Il potere economico deve essere espropriato dalle mani di una classe capitalista parassitaria, le multinazionali, le grandi aziende nazionali, il sistema finanziario, i trasporti, le reti di comunicazione e i mass media devono essere nazionalizzate e poste sotto il controllo dei lavoratori.
A un sistema economico totalmente rivoluzionato dovrà corrispondere un sistema politico altrettanto nuovo che deve sostituire quello esistente.

Miradiori, anni Settanta - Un esempio di democrazia dei lavoratori

Mirafiori, anni Settanta – Un esempio di democrazia dei lavoratori

Oggi nel capitalismo, la classe dominante, attraverso il suo sistema parlamentare, ci concede di votare ogni quattro o cinque anni i membri del parlamento. Se li volessimo mai cambiare, ci è proibito fino alle prossime elezioni. Per non parlare della magistratura o degli alti funzionari dello stato, i cosiddetti “boiardi”. Vere e proprie caste inamovibili, che anche grazie al loro status speciale costituiscono una tutela preziosa per la borghesia quando gli interessi di quest’ultima sono in pericolo.
Un governo dei lavoratori, cioè dei salariati, che ormai ovunque nel mondo costituiscono con le loro famiglie la maggioranza della società, dovrà basarsi sull’autorganizzazione. I lavoratori decideranno tutto, attraverso i consigli (soviet) e le assemblee popolari, organismi di discussione, di decisione e di azione permanenti.
Lenin alla vigilia della rivoluzione d’Ottobre delineò quattro condizioni per un tale regime di democrazia operaia, che riteniamo del tutto attuali.
1) tutto il potere ai soviet, cioè ai Consigli degli operai, dei soldati e dei contadini;
2) tutti i funzionari siano eletti e revocabili in qualsiasi momento e non ricevano un salario maggiore a quello di un operaio qualificato;
3) tutte le cariche siano a rotazione. Nelle parole di Lenin, “anche una cuoca deve poter fare il Primo ministro”;
4) nessun esercito permanente, ma la sua sostituzione con una milizia operaia.
C’è chi potrebbe obiettare che questi sono propositi irrealizzabili, che quando hanno provato ad attuarli in Unione Sovietica hanno miseramente fallito. Lenin in Stato e rivoluzione, forniva la chiave di volta per illustrare la fattibilità di un tale sistema.
La civiltà capitalistica ha creato la grande produzione, le officine, le ferrovie, la posta, il telefono, ecc.; e su questa base, l’immensa maggioranza delle funzioni del vecchio “potere statale” si sono a tal punto semplificate e possono essere ridotte a così semplici operazioni di registrazione, d’iscrizione, di controllo, da poter essere benissimo compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un normale “salario da operai”; si può (e si deve) quindi togliere a queste funzioni ogni minima ombra che dia loro qualsiasi carattere di privilegio e di ‘gerarchia’”.
I lavoratori oggi, a differenza della Russia del 1917, possiedono tutte le capacità tecniche, amministrative e culturali per gestire una macchina statale. Anzi, ci sono enormi capacità inespresse. Quanti ingegneri lavorano in un call center o quanti laureati in fisica si spaccano la schiena in un’impresa di pulizie?
Lo sviluppo di un sistema di autorganizzazione di questo tipo non si può naturalmente creare in provetta. È un compito che solo un movimento di massa, un movimento rivoluzionario che metta in discussione il sistema porrà all’ordine del giorno.
È l’unica alternativa alla putrefazione della democrazia borghese. La sua affermazione sarà garantita solo se si saprà costituire una direzione rivoluzionaria all’altezza della situazione, che abbandoni ogni illusione sulla riforma del sistema esistente e imbocchi la strada dell’intransigenza rivoluzionaria sul terreno economico, politico e sulla questione, decisiva, dello Stato.

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