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La crisi infiamma le contraddizioni dell’Unione europea

Un’analisi dello scontro oltre la propaganda

 

Gli Stati dell’Unione europea stanno affannosamente cercando una via d’uscita dalla più grande crisi economica che si è manifestata a partire almeno dalla grande depressione degli anni ’30.

Tutte le sue nefaste conseguenze non si sono ancora pienamente dispiegate.

L’emergenza epidemiologica è stata l’elemento esogeno che ha fatto precipitare la situazione a livello mondiale che già evidenziava un palese rallentamento con il progressivo esaurirsi della fase ascendente del ciclo economico che si è innescato dopo la crisi finanziaria dei sub prime nel 2008.

Già allora si era detto che quella crisi, innescata dal fallimento di Lehman Brother’s, era la più grave nelle sue dimensioni che il mondo capitalistico avesse conosciuto almeno dagli anni 30.

La crisi attuale ha dimensioni ancora maggiori ed i contrasti all’interno della Unione europea, in particolare fra i Paesi dell’eurozona, sono emersi in maniera evidente. È utile ricordare che nessuno dei nodi fondamentali che a partire appunto dal 2008 gravano sul mercato mondiale e sui singoli paesi è stato risolto: sovrapproduzione, disoccupazione, crescita dell’indebitamento sia pubblico che privato, crescita delle politiche protezioniste.

Non trattiamo qui le previsioni dei diversi istituti sulla durata e la profondità della crisi, in quanto sono stime continuamente riviste data la assoluta mancanza di punti di riferimento e di paragone credibili. Non a caso lo stesso governo cinese ha deciso di non fissare alcun obiettivo di crescita del Pil per il 2020, a dimostrazione della sostanziale impossibilità della classe dominante di tracciare una prospettiva.

Le misure prese dall’Ue

L’intervento finanziario da parte dei vari organismi comunitari. ha posto in essere un pacchetto complessivo di 540 miliardi di euro di cui 200 miliardi di prestiti della Bei (Banca europea degli investimenti) per le imprese, il Sure (Cassa integrazione guadagni europea) per 100 miliardi, 240 miliardi con l’attivazione del Mes (Meccanismo di stabilità europea cioè il Fondo salva Stati) questa volta senza il regime vincolistico del “memorandum” per quei paesi che ne richiedono l’attivazione.

Inoltre la Bce (Banca centrale europea) è intervenuta con un ripristino ingente del Quantitative Easing, ossia del suo programma di acquisto di titoli, dapprima per 750 miliardi, successivamente esteso a 1350 miliardi.

L’azione della Bce è finalizzata ad iniettare liquidità sul mercato finanziario e bancario nella speranza che le banche concedano prestiti a imprese e privati, ma questo implica una espansione impressionante del bilancio della Banca centrale. Stampare moneta significa aumentare le passività della Banca stessa, controbilanciate dai titoli ritirati sul mercato e dagli attivi degli stati patrimoniali delle banche alle quali viene erogata la liquidità.

In questa azione la Bce è limitata dalle regole europee e dalle sue stesse regole interne in tema di raccolta di titoli obbligazionari e azionari (il suo Capital Key), per cui, per esempio, l’acquisto di titoli di Stato di un Paese è limitato alla percentuale che quello stesso paese detiene nel capitale della banca centrale (per l’Italia è il 13,8%). A questa regola la Bce ha già derogato, soltanto che la deroga non può essere a tempo indeterminato, se così fosse la Corte di giustizia europea o a livello nazionale una Alta Corte (non ultima la Corte costituzionale tedesca) potrebbero bloccare l’intervento della Banca centrale.

Questo a grandi linee è il meccanismo messo in atto e il suo sistema di funzionamento.

Ci sono due aspetti fondamentali, uno economico ed uno di tipo politico-istituzionale.

Il primo aspetto è di gran lunga il più importante, si tratta di massiccia immissione nel sistema di capitale fittizio.

Il secondo aspetto riguarda i rapporti fra gli organismi della Ue e gli Stati membri e le divisioni che erano già in essere ma che l’emergenza Covid-19 ha reso più acute.

Svilupperemo più avanti questi aspetti.

Il secondo intervento messo in campo dalla Commissione europea il 23 aprile scorso, il Recovery Fund. ha visto il Parlamento Europeo votare a metà maggio una risoluzione con 505 voti a favore, 119 contrari e 69 astensioni.

Questa votazione ha visto la spaccatura del centrodestra italiano: Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti, Forza Italia ha votato a favore).

 

Cos’è il Recovery Fund e come può essere utilizzato?

L’idea del Recovery Fund (letteralmente “fondo per la ripresa”) nasce su proposta francese per tentare di ovviare al persistente diniego da parte dei Paesi del nord Europa (Germania, Olanda, Austria, Norvegia, Svezia) all’emissione degli Eurobond o Coronabond che avrebbe significato creare per la prima volta un debito pubblico europeo, socializzando quindi tra diversi Paesi l’onere di sostenerlo (mutualizzazione del debito).

L’attuale meccanismo elaborato dalla Commissione europea dopo un lungo braccio di ferro tra Paesi del sud Europa appoggiati dalla Francia e quelli del Nord Europa prevede uno stanziamento del fondo di ben 2000 miliardi di euro da finanziarsi con l’emissione di obbligazioni (Recovery Bond) da collocarsi sul mercato finanziario. Il Fondo avrebbe la garanzia del bilancio pluriennale dell’Unione 2021-2027 che però deve essere ancora approvato e che comunque dovrebbe essere sensibilmente incrementato con il contributo dei vari Stati membri. Questo progetto è stato fortemente voluto anche dalla Presidente della Commissione europea Ursula van der Leyen.

La proposta ha visto, come ricordato sopra, il voto favorevole a maggioranza del Parlamento europeo, ma quello che ha votato il Parlamento è una risoluzione, non un progetto di legge definito.

Una prima questione molto importante è chi saranno i destinatari dei fondi, e secondo quali criteri. Nulla è chiaro al riguardo. C’è una proposta della Spagna che destinerebbe più soldi ai paesi con una maggiore contrazione del Pil e maggiore disoccupazione, proposta che trova favorevole l’Italia, ma contrari ancora una volta i Paesi del nord.

La ragione di questa opposizione è facilmente intuibile: i Paesi con debito pubblico meno gravoso dovrebbero contribuire alla garanzia del Fondo con ulteriori stanziamenti, ma la maggior parte dei finanziamenti andrebbero a quei Paesi che subiranno un maggiore contraccolpo economico e che hanno già maggiore debito e deficit di bilancio, senza garanzie su come verranno impiegate queste risorse.

Per questo anche nella dichiarazione di Macron e Merkel è scritto chiaramente che l’accesso al Recovery Fund dovrà essere vincolato all’applicazione di “un’ambiziosa agenda di riforme”, vale a dire a nuovi piani di austerità.

Sembra inoltre che le somme erogate agli Stati non contemplino il rimborso, quindi i titoli emessi giunti a scadenza verrebbero rifinanziati sempre con la garanzia del Bilancio dell’Ue.

Un altro punto riguarda la tempistica di approvazione del bilancio della Ue 2021-2027 che se dovesse arrivare a fine anno potrebbe essere troppo tardiva per attivare i salvataggi che si cerca disperatamente di porre in atto. La possibilità di erogare anticipi nell’anno in corso è a sua volta oggetto di scontro e di trattative serrate.

Il verdetto della Corte costituzionale tedesca

Il 5 maggio scorso ha fatto sentire la sua voce la Corte costituzionale tedesca, che è intervenuta in questi scontri nella Ue. L’occasione è stato un verdetto inerente alla politica della Bce in relazione al Pspp (Public Sector Purchase Programme), vale a dire il Quantitative easing posto in essere dal 2015, ed anche della sostanziale approvazione che questa politica monetaria ha avuto dalla Corte di giustizia europea la quale ha rilasciato un giudizio di sostanziale conformità di detta politica monetaria ai Trattati dell’Unione.

Pur se non riferito alle politiche attuali, il verdetto ha ovviamente delle ricadute politiche.

I giudici tedeschi mettono in discussione la politica monetaria della Banca Centrale, perché secondo loro, avrebbe agito non rispettando il principio di proporzionalità fra i vari Stati membri pur avendo rispettato la proporzionalità fra gli strumenti finanziari. Detto in maniera più semplice avrebbe favorito l’acquisto di una maggiore quantità di titoli di uno Stato rispetto ad altri. Questo andrebbe a configurarsi come aiuto agli Stati cosa espressamente vietata dai Trattati. Anche il giudizio della Corte di giustizia europea è sotto accusa in quanto, sempre secondo i giudici tedeschi, il non avere verificato a fondo la conformità della condotta della Bce rispetto ai Trattati lascia aperto la porta ad una indagine “ultra vires” (oltre i poteri) più approfondita da parte di uno degli Stati membri per il tramite di un organismo a ciò deputato che intravvedesse una palese violazione dei Trattati medesimi.

Non va dimenticato che la Corte costituzionale tedesca potrebbe intimare alla Bundesbank di non partecipare al Quantitative easing, dato che la Banca centrale tedesca è soggetta alla legge del proprio paese.

Va detto che questo è poco probabile che possa accadere e vista anche la tempistica di questo pronunciamento è più da intendersi come arma di pressione sulla Merkel.

Comunque questo fatto ha suscitato la rabbiosa presa di posizione della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ha dichiarato l’assoluta competenza finale della Corte di giustizia europea sulla questione del rispetto dei Trattati.

Comunque lo si voglia valutare lo scontro non è di poco conto e si inserisce nel più vasto arsenale dei conflitti in atto dentro l’Ue.

I conflitti dentro l’Ue e la propaganda mediatica

Le contrapposizioni in corso nell’Ue fra Stati del nord e quelli del sud Europa con in mezzo Francia e Germania a tentare di ricucire gli strappi hanno come principale oggetto del contendere la prospettiva della mutualizzazione dei debiti pubblici futuri degli Stati membri, che significherebbe rendere “europeo” cioè comune a tutti tali debiti.

Gli Stati con minore incidenza dei rapporti debito/Pil e deficit/Pil e con una più ridotta partecipazione al Pil europeo si considerano più svantaggiati da questa prospettiva anche perché le “politiche di austerità”, che nel futuro prossimo verranno messe in campo per contenere i disavanzi pubblici, ricadrebbero su di loro in misura maggiore di quanto accaduto fino ad ora.

Va detto che i tentativi di mutualizzazione di tutti i debiti pubblici compresi quelli ante “coronavirus” che prevedevano l’emissione di “Eurobond” è stato respinto ed accantonato.

La proposta del Recovery Fund, approvata dalla Commissione Europea tra mille contrasti e ratificata dal voto del Parlamento Europeo (che, occorre ribadirlo, non è una legge organica), va invece nella direzione della mutualizzazione dei debiti futuri con le caratteristiche prima descritte.

Questo “risultato” ha ringalluzzito il governo italiano, ha “smarrito” e diviso le opposizioni ed ha fatto suonare la grancassa ai media in particolare a La Repubblica.

In questo periodo di emergenza sanitaria ne abbiamo sentite di tutti i colori si è parlato e titolato di “manovra imponente”, “terapia shock” per rilanciare l’economia. Il governo ha affermato ossessivamente che “nessuno verrà lasciato solo”.

Eccoci all’ultimo annuncio in ordine di tempo, il “bazooka”, cioè l’intesa tra Macron e la Merkel, per uno stanziamento di 500 miliardi (dentro il Recovery Fund?) per denari da dare agli Stati in difficoltà, senza rimborso.

La stampa italiana si è subito scatenata: all’Italia spetterebbero circa 100 miliardi!

In realtà nulla è stato deciso sugli eventuali criteri di ripartizione e neppure sull’ammontare.

Ma cosa significa denari erogati a “fondo perduto”?

Bisognerebbe proprio essere degli ingenui per pensare che ci sia qualcuno nel mercato dei capitali che sottoscrive i Recovery bond sapendo che, quantomeno in parte, non otterrà il rimborso dei titoli giunti a scadenza. Quindi si tratterebbe del fatto che il debito rimarrebbe a carico del bilancio europeo che infatti fa da garante. Ma a sua volta il bilancio europeo è alimentato dai contributi dei singoli Stati oppure da nuove imposte che ricadrebbero sui consumatori (plastic tax, carbon tax, ecc.). Cari signori borghesi e pifferai al seguito, come vogliamo chiamare nella sostanza queste manovre? Chiamiamole, con parole semplici ma che rendono il concetto, “partite di giro”.

L’informazione dei media è menzognera e svolge la funzione di occultare le conseguenze reali di queste “manovre”.

Ci sono ancora due questioni da porre in evidenza. Da dove prendono i soldi gli Stati, anche quelli da conferire nel bilancio comunitario? Dai contribuenti ed i primi contribuenti sono i lavoratori, sissignori perché anche i soldi che le imprese pagano al fisco sono prodotti dai lavoratori che li producono come plusvalore, vale a dire come lavoro prestato e non retribuito. Già, poiché l’unica vera fonte del “valore” è il lavoro.

C’è il secondo punto. A chi andranno queste risorse distribuite agli Stati?

Non abbiamo dubbi che la parte del leone la faranno i padroni con le loro pressioni sui governi nazionali. Per quanto riguarda l’Italia ne abbiamo avuto un esempio con la vicenda delle riaperture e degli escamotage per non chiudere le aziende in piena crisi pandemica e relativi cedimenti del governo Conte. Non è difficile immaginare la “campagna” che accompagnerà questa “divisione della torta” a vantaggio dei padroni: “aiutiamo le imprese così si rilancia l’economia e di conseguenza l’occupazione”. In realtà riteniamo che tantissime aziende verosimilmente utilizzeranno le risorse per ristrutturarsi in vari modi, come normalmente accade in situazioni di crisi, e da questo non ne discende affatto un meccanico aumento dell’occupazione.

In questi giorni stiamo vedendo Angela Merkel affannarsi in tentativi di ricucitura fra le varie posizioni in campo, compresa quella di parte del capitalismo tedesco, i così detti “falchi”, che non vogliono derogare in nessun modo allo “spirito dei trattati” e che fanno sentire la loro voce anche attraverso i verdetti della Corte costituzionale tedesca, ma che al momento sembra essere minoritaria.

Le divisioni fra le borghesie dell’Ue sono profonde già ora e sono destinate ad approfondirsi nell’immediato futuro.

In ogni modo siamo dell’avviso che tutto questo non comporti l’abbandono delle politiche di austerità. Ci sarà una temporanea attenuazione vista la recessione oramai in corso, ma prima o poi riappariranno minacciose all’orizzonte.

Le misure prese rappresentano un rimedio sostenibile ed efficace nel tempo?

A questa crisi si sta quindi rispondendo con le stesse politiche utilizzate nella precedente, con alcuni artifici ulteriori, in particolare nella Ue, ma con manovre monetarie e fiscali che quantitativamente non hanno precedenti per dimensioni. Questo significa un aumento esponenziale del debito sia della famiglie, delle imprese e degli Stati. Il potenziale inflattivo che si accumula è impressionante, anche se attualmente rimane compresso per la depressione della domanda aggregata.

Lo shock della domanda non fa altro che aggravare la crisi di sovrapproduzione portando tantissime imprese al fallimento. Ci sarà una ulteriore concentrazione del capitale con imprese che falliranno e altre che se ne avvantaggeranno occupando il mercato. Le prospettive per l’occupazione sono drammatiche.

I debiti sono debiti e vanno o pagati, se no si fa default. Vale per le imprese, per le famiglie e per gli Stati.

Per i lavoratori, per le loro famiglie, cercare di pagare i debiti significa stringere sui consumi non essendo ipotizzabile in questa situazione conquistare aumenti di reddito. S si svilupperanno lotte in questa direzione, ma ci sarà soprattutto da lottare per difendere i posti di lavoro.

Per i padroni la strada è quella di cercare un aumento della produttività ristrutturandosi, aumentando il tasso di sfruttamento della classe lavoratrice, il basso costo del denaro non sarà sufficiente ad arginare questa tendenza.

Al riguardo è significativa la presa di posizione di Bonomi, presidente in pectore di Confindustria, che in una recente intervista ha dichiarato che bisogna superare la contrattazione collettiva, quindi sviluppare quella azienda per azienda e quella individuale. È questo quello che hanno in mente: frantumare i diritti collettivi dei lavoratori.

Per quanto riguarda i bilanci degli Stati le preoccupazioni delle classi dirigenti sono altissime.

Aumentano il debito perché non hanno altra strada dentro le compatibilità del loro sistema economico. Infatti si interrogano anche su cosa succederà in futuro.

Si pensa a come ristrutturare il debito pubblico, cioè allungare le scadenze, anche con l’emissione di titoli di Stato perpetui, cioè obbligazioni con non hanno scadenza e quindi non prevedono la restituzione del capitale, ma questo aumenterebbe l’onere degli interessi.

Si pensa anche alla monetizzazione parziale del debito che equivarrebbe ad una dichiarazione di default, una sorta di soluzione finale. Questa strada condurrebbe ad una disintegrazione dell’Euro, ad una iperinflazione con conseguenze drammatiche sul potere d’acquisto dei salari.

Sono nodi inestricabili che mettono a nudo l’irrazionalità e l’anarchia del sistema capitalistico, nonché l’impasse delle sue classi dirigenti, le quali però, sia ben chiaro, non stanno ferme, cercano di imbrigliare lo scontro inevitabile con la classe lavoratrice attraverso l’azione dei governi e quella della pressione sulle burocrazie sindacali affinché possano intervenire facendo deragliare le lotte.

Ma tutto questo non può durare in eterno.

Le due crisi, quella del 2008 e l’attuale hanno visto dissolversi il precedente equilibrio. È aumentata la contrapposizione fra grandi potenze, fra macro aree economiche, abbiamo visto e stiamo tuttora osservando un crescendo di politiche protezionistiche che impattano negativamente sul mercato mondiale.

Tutti i punti di equilibrio futuri saranno instabili e di breve durata.

Ci stiamo occupando in questo articolo della situazione dell’Unione europea e possiamo osservare che tutti i parametri di Maastricht posti a base del mercato unico e dell’unione monetaria sono saltati, esacerbando le contrapposizioni fra gli Stati membri dell’Unione.

Un nuovo equilibrio stabile e duraturo nelle attuali condizioni non è più possibile.

I nostri compiti

La nuova epoca apre alla possibilità e alla necessità di un superamento del sistema capitalistico.

Le mobilitazioni che vedremo nel prossimo futuro, e che già in parte si stanno manifestando, avranno un carattere molto diverso dal passato anche recente. Il conflitto di classe è inevitabile.

Le masse salariate hanno assunto un peso enorme nella popolazione attiva mondiale ed è cresciuto notevolmente il peso anche numerico della classe operaia.

Inoltre l’orientamento della gioventù si può oggettivamente unire ad un movimento della classe operaia. I giovani nella loro stragrande maggioranza hanno davanti a se un avvenire di precarietà e di dipendenza familiare.

All’ordine del giorno della nostra epoca ci sarà la questione del potere. Affinché le occasioni che si presenteranno non sfuggano di mano come molto spesso è accaduto nella storia del movimento operaio, occorre una organizzazione delle classi lavoratrici ed una direzione consapevole del fine da raggiungere.

Queste sono le ragioni e lo spirito che animano la Tendenza marxista internazionale.

Il nostro sforzo è quello di rafforzare l’organizzazione, di formare quadri politicamente attrezzati, per questa ragione ci rivolgiamo ai giovani ed ai lavoratori tutti affinché si uniscano a noi.

Vogliamo assolvere ad un compito storico di immensa importanza per le classi lavoratrici e per l’umanità intera.

 

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