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La crisi economica e il crollo del prezzo del petrolio

Negli ultimi giorni abbiamo assistito ad un crollo senza precedenti delle Borse mondiali, ma la questione della pandemia da Covid-19 non è la sola causa e il crollo del prezzo del petrolio ha contribuito in buona parte alla crisi generale che si è innescata.
Era nell’aria da parecchi mesi, bastava sfogliare qualsiasi giornale economico finanziario, ma il diffondersi della pandemia è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il mercato del petrolio ormai viaggia in una crisi senza precedenti con ripercussioni imprevedibili su parecchi fronti e questo si è visto con il crollo del prezzo sotto i 30 dollari al barile.
Il motivo dello scontro è da ricercare nell’attuale sovrapproduzione petrolifera a livello mondiale, generata a sua volta dal rallentamento dell’economia (e quindi della domanda) lo scorso anno. In un mercato in calo, è esploso lo scontro tra i produttori, e in particolare tra l’Opec capitanata dai sauditi, e la Russia. Il 6 marzo, durante il vertice Opec di Vienna, la Russia ha abbandonato il tavolo, rifiutando l’appoggio ai tagli di produzione extra che le erano stati richiesti. In un solo giorno il prezzo è crollato del 9%, toccando i 45 dollari al barile, un minimo che non si vedeva da tre anni.
La richiesta era di un taglio di 1,5 milioni di barili al giorno, che sommato ai tagli già in vigore, rimuoveva dal mercato il 4% dell’offerta globale. Il petrolio è un ottimo indicatore dello stato di salute dell’economia mondiale, anche perchè è la principale fonte energetica utlizzata nei consumi e nella produzione. Sono mesi che i prezzi subiscono un calo e la domanda, con i primi effetti del virus in Cina, ha subito un ulteriore contraccolpo.

La guerra innescata tra Paesi arabi e Russia non ha precedenti ed era dal 1991 che non si registrava una crisi simile.
Il coronavirus ha fatto un’altra vittima: l’alleanza dei produttori – afferma Roger Diwan, vicepresidente di IHS Markit sul quotidiano il Sole 24 ore del 7 marzo –. Di fronte a un drammatico declino della domanda stanno gettando la spugna. È probabile che nel prossimo trimestre vedremo scendere il prezzo del petrolio ai minimi da vent’anni”.

 

Guerra dei prezzi tra sauditi e Russia

Neppure una settimana dopo, arriva la decisione dell’Arabia Saudita di aumentare le forniture di 2,6 milioni di barili al giorno. Una vera e propria “bomba atomica” per il mercato del greggio che era già in sofferenza da mesi. Basti pensare che il prezzo da inizio anno era già crollato di un terzo. Con questa misura estrema l’Arabia ha fatto crollare il prezzo del 30% in un giorno, in una guerra di prezzi contro la Russia.
La Russia da parte sua ha annunciato di essere pronta a bruciare tutte le riserve valutarie del fondo sovrano pur di non perdere terreno sul mercato internazionale, dichiarando di essere in grado di resistere per 10 anni con il petrolio attorno ai 25-30 dollari. Secondo Energy Intelligence, l’Arabia Saudita ha predisposto misure per fronteggiare una discesa del prezzo fino a 12 -20 dollari al barile. Una guerra dei prezzi che potrebbe avere incognite imprevedibili in tutto il mondo, a partire dal mercato dello shale americano.
Con questi prezzi ci saranno anche conseguenze serie all’interno del regime di Riad, visto che le entrate del petrolio sono necessarie per le “riforme” interne al regime, con conseguenze serie per la casa reale. Già in questi giorni abbiamo assistito ad uno scontro interno con il “fallimento” di un colpo di Stato di palazzo nei confronti del principe ereditario Mohammed bin Salman. Questo “colpo di Stato” interno alle stanze di potere ha portato all’arresto dei principi Ahmed bin Abdulaziz e Mohammed bin Nayef, cugini del principe in carica. Ambedue i principi erano ministri dell’interno e nella purga di MbS son finiti centinaia di funzionari. Il crollo del prezzo del barile e le mancate entrate sono una mina vagante per un regime già in estrema difficoltà, dopo i debiti della guerra in Yemen. Una crisi del regime saudita avrebbe ripercussioni per tutto il Medioriente.
Non se la passa di certo meglio la Russia, che rischia un contraccolpo economico senza precedenti. Non è un caso che la situazione politica russa sia sempre più accesa, con il tentativo di Putin di blindare ulteriormente la sua presa sul potere attraverso la riforma costituzionale.
Il crollo dei prezzi potrebbe avere ripercussioni per i bilanci statali di moltissimi paesi che si basano sulla produzione e l’esportazione del petrolio. Già in passato, il crollo sotto i 100 dollari al barile aveva aperto crisi economiche in moltissimi paesi, a partire dal Venezuela.

 

Le conseguenze sugli USA

Se i due giganti petroliferi non se la ridono, gli Stati Uniti rischiano moltissimo. Gli Usa sono diventati negli ultimi anni il principale paese esportatore di petrolio, grazie alla “rivoluzione” del fracking e degli idrocarburi da shale: tecnologie che hanno allargato la produzione, ma a costi nettamente superiori rispetto a quelli del Golfo o della Russia. Un crollo dei prezzi potrebbe portare al totale default l’intero sistema americano, approfondendo una recessione americana sempre più vicina. Un calo dei prezzi del greggio in un range compreso tra 30 e 40 dollari al barile, può spedire in passivo ampie aziende dello shale, che raggiungono la parità coi costi di produzione a prezzi fra i 48 e i 54 dollari. Un mercato, quello americano, già in difficoltà, visto che molte aziende dello shale sono fortemente indebitate. Con il crollo di questi giorni, Marathon Oil ha annunciato sforbiciate agli investimenti del 21%. Altri protagonisti del fracking come Diamondback Parsley Energy hanno fatto scattare riduzioni dell’estrazione dai loro pozzi.
Washington sta già ora valutando misure di salvataggio estremo per le aziende dello shale. Secondo indiscrezoni rilanciate da Bloomber, si tratterebbe di sostenere le quotazioni del barile acquistando greggio per la Strategic Petroleum Reserve. Secondo il Washington Post gli interventi allo studio comprenderebbero prestiti agevolati per i frackers, in forte difficoltà nel trovare banche e investitori disposti a finanziamenti. Secondo un sondaggio della Fed di Dallas, un prezzo tra i 27 e i 37 dollari al barile incentiva la chiusura degli impianti.
E con il crollo delle Borse di lunedì 16 marzo, negli Usa, 110 miliardi di dollari di obbligazioni del settore Oil & Gas, il 12% del totale, sono finiti nel territorio “distressed”, cioè a forte rischio finanziario.
Il crollo dei prezzi del greggio, come già detto, ha ripercussioni imprevedibili, a partire dalla tenuta di un equilibrio geopolitico già instabile. La prospettiva di un accentuarsi di guerre imperialiste per accaparrarsi fette di mercato sarà sempre più forte.
Ma soprattutto verranno minate tutte le prospettive della transizione ecologica nella guerra al cambiamento climatico. Con questi prezzi del greggio, le energie rinnovabili perderanno ulteriormente competitività sul mercato, aprendo la prospettiva di una ulteriore rinuncia attuale per la transizione.
Era già successo nel 2008, con lo scoppio della crisi, dove le ampie prospettive di transizione ecologica si sono infrante di fronte alla materialità del mercato reale dei prezzi dell’energia.
Ed era proprio nel 2008 che veniva lanciata la parola d’ordine del Green New Deal, su proposta del Gnd Group. Proposta poi del tutto abbandonata per il crollo dei prezzi del petrolio.
Tutte le “belle” parole di questi mesi, di un Green New Deal europeo, dopo le mobilitazioni imponenti dei giovani a livello mondiale, potrebbero essere riviste in un sol giorno.
In una società capitalistica i profitti privati valgono molto di più delle aspettative del futuro dei giovani, ed è per questo che il movimento Friday’s for Future a livello mondiale deve completamente sganciarsi dalle illusioni di un capitalismo dal volto umano. Solo una lotta anticapitalista di unità con la classe lavoratrice per un’economia pianificata dai lavoratori e dai cittadini può rispondere al problema del cambiamento climatico e alle conseguenze generali della crisi del capitalismo che oggi esplode più profonda che mai.

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