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La battaglia del fisco

Il 18 marzo è stato approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge delega per la riforma del fisco.

Il punto che ha suscitato maggiore scontro politico è la cosiddetta flat tax, storico cavallo di battaglia della destra in Italia e non solo: la proposta, cioè, che l’imposta sui redditi venga pagata da tutti secondo una stessa percentuale, abolendo così la progressività del sistema attuale secondo la quale chi più guadagna, più paga.

Prima di entrare nel merito va chiarito che la legge delega, se approvata dal parlamento, lascerebbe mano libera al governo che avrebbe poi due anni di tempo per approvare i decreti attuativi, validi senza ulteriore passaggio parlamentare.

In realtà il testo del DDL è su molti punti generico, ma proprio per questo lo strumento della legge delega lo rende più pericoloso, dato l’ampio margine di manovra che lascerebbe al governo.

La questione dell’IRPEF, ossia l’imposta sui redditi, è indubbiamente centrale in qualsiasi politica fiscale. Dei 544,5 miliardi di entrate fiscali (2022), con 205,8 miliardi l’Irpef costituisce la voce più importante, seguita dall’IVA con 171,6 miliardi.

Già da questi dati appare chiaro come il sistema fiscale si regga largamente sul gettito fornito dalle classi popolari. L’IVA, come tutte le imposte indirette, è ingiusta per definizione nella misura in cui, essendo applicata sul prezzo dei prodotti alla vendita, pesa in modo uguale su tutte le tasche: il miliardario e il disoccupato quando comprano il pane o fanno benzina, la pagano nella stessa esatta misura.

L’IRPEF, che invece si calcola sul reddito, deriva in gran parte dalla classe lavoratrice: 85,6 miliardi dai lavoratori dipendenti del settore privato e 81,7 da quelli del settore pubblico, mentre 12 miliardi vengono dai lavoratori autonomi. (Dati pubblicati dal Ministero economia e finanze).

Insomma vige pienamente il principio enunciato dal comico (e fascista) Ettore Petrolini, che circa un secolo fa diceva: “i soldi vanno presi dai poveri: ne hanno pochi, ma sono tanti”.

 

L’attacco alla progressività

Quando nel 1974 venne introdotta l’IRPEF, essa aveva un carattere fortemente progressivo, con 32 aliquote che salivano dal 10 al 72%. Da allora la progressività dell’imposta è sempre stata nel mirino (un processo che non è stato solo italiano ma internazionale) e attraverso diversi passaggi le aliquote sono state ridotte fino alle attuali 4, innalzando la minima e soprattutto riducendo fortemente quella massima.

Oggi le aliquote sono:

  • 23% reddito fino a 15.000
  • 25% da 15.000 a 28.000
  • 35% da 28.000 a 50.000
  • 43% oltre i 50.000

La legge prevede una ulteriore riduzione da 4 a 3. Tuttavia non specificando quali sarebbero le nuove aliquote è impossibile dire chi guadagnerebbe e chi perderebbe. La direzione di marcia è tuttavia segnata dalla intenzione esplicita di puntare alla flat tax.

Poiché la Costituzione prescrive la progressività del sistema fiscale (già ampiamente compromessa), la legge prevede che questa venga ripristinata con le detrazioni: diverse voci di spesa potrebbero essere detratte dal reddito tassato, come già avviene ad esempio per parte delle spese sanitarie.

È una vera e propria presa in giro oltre che una infamata bella e buona, come ora diremo. Naturalmente seguendo la sua consueta retorica, il governo elenca come voci detraibili quelle relative a casa e salute (già esistenti) e quelle per i figli (“Caro, sarebbe bello avere un bambino. Adesso con le detrazioni fiscali potremo dargli un futuro!”… non suona bene?).

Al di là della retorica familista il fatto grave è che la logica delle detrazioni è strettamente funzionale allo smantellamento dei servizi pubblici: invece di organizzare uno stato sociale decente (scuola, sanità, edilizia pubblica, ecc.) si lascia qualche spicciolo in più alle famiglie che poi si devono arrangiare cercando sul mercato dei servizi privati. Non a caso è prevista anche l’esenzione per i versamenti alle pensioni private.

 

Qualche regalino ai padroni

Nell’attesa di capirci meglio, la delega prevede alcuni graziosi presenti per le imprese. L’IRES, ossia la tassa che grava sugli utili di impresa, attualmente al 24%, sarà ridotta al 15% per due anni per chi “investe in Italia o crea occupazione”.

Si prevede inoltre di integrare le tassazioni, oggi distinte, per i redditi da capitale. Il meccanismo è complesso, ma la risultante sarebbe che se una persona investe, poniamo, in titoli di Stato e azioni, potrebbe usare eventuali perdite subite in Borsa per ridurre le tasse che paga sui titoli.

Si prevede poi di abolire anche l’IRAP, altra tassa pagata dalle imprese, che con circa 17 miliardi annui copre buona parte della spesa sanitaria delle Regioni. L’IRAP andrebbe sostituita da una non meglio specificata nuova imposta, della quale nulla si sa: chi la pagherebbe, come e quanto. Non è azzardato ipotizzare che questa proposta sia funzionale a una ulteriore frantumazione del sistema sanitario su base territoriale, in accordo ai progetti di “autonomia differenziata” in corso di approvazione.

Il sottotesto di tutta la vicenda, non va dimenticato, sono gli oltre 90 miliardi di evasione fiscale, per tre quarti provenienti da imprese e lavoratori autonomi.

Con le attuali prospettive economiche, la verità è che nessun governo può pensare di ridurre in modo significativo le entrate fiscali, semmai il contrario.

Già solo l’aumento dei tassi d’interesse in atto a livello internazionale graverà pesantemente sul bilancio dello Stato, che dovrà pagare interessi maggiori sul debito pubblico.

La delega più che a ridurre le tasse, servirà a redistribuirne il peso mescolando, secondo necessità, nuovi regali ai ricchi e al padronato con le scelte elettoraliste che consolidano l’elettorato di questo o quel partito. Il tutto accompagnato dai nuovi tagli alla spesa sociale (reddito di cittadinanza, sanità, scuola, pensioni…) che il governo sta approntando.

Di fronte a questo scempio, la scelta di CGIL, CISL e UIL di limitarsi a convocare tre innocue manifestazioni di sabato è ai limiti della presa in giro. Sono mesi che Landini elemosina “tavoli di confronto” al governo, per poi restare regolarmente con un pugno di mosche a lamentarsi che il sindacato non viene ascoltato. Serve invece una mobilitazione seria, con assemblee e scioperi, per respingere questo attacco al mittente e invertire la rotta, sul fisco come su tutto il resto.

I lavoratori non hanno più tempo per aspettare.

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