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Iran – Le proteste fanno tremare il regime

A cavallo tra il 2017 e il 2018 l’Iran ha assistito alle proteste più estese dai tempi della Rivoluzione del 1979. I numeri dei partecipanti sono inferiori al “Movimento verde” del 2009, ma il movimento si è esteso ben oltre i quartieri della piccola borghesia di Teheran e le università, coinvolgendo oltre settanta città in tutto il paese.

Le mobilitazioni affondano le radici nella crisi economica e nel declino del tenore di vita delle masse iraniane. La crisi è stata approfondita dalle sanzioni, ma causata anche dalla politica di liberalizzazioni e di privatizzazioni dei “riformatori” guidati dal presidente Rouhani.

Tra il 2012 e il 2015 le esportazioni della principale industria iraniana, quella petrolifera, sono crollate da circa 2,5 milioni a 1 milione di barili al giorno. La produzione nel settore automobilistico, che rappresenta il secondo datore di lavoro nel paese, è diminuita di quasi il 60%.

La crescita dell’economia del 4,3 per cento nel 2016 ha controbilanciato solo parzialmente il crollo di circa il 9 per ceto tra il 2012 e il 2015. La disoccupazione ufficiale si attesta al 20 per cento, mentre ormai l’80 per cento degli iraniani lavora con un contratto a termine, o nell’economia “sommersa”.

Una rivolta popolare

Il detonatore della protesta è stato l’annuncio (per la prima volta in pubblico) dei contenuti della finanziaria 2018 da parte di Rouhani. La manovra prevede, tra l’altro, un taglio di 5,3 miliardi di dollari nelle varie forme di sussidio alle classi povere, l’aumento del 50 per cento del prezzo della benzina, ulteriori misure di privatizzazione dell’istruzione. Lo stesso presidente ha denunciato, in un discorso al parlamento, una “mafia finanziaria” composta da fondazioni ed enti vicini ai conservatori che osteggiano il governo e che sono favoreggiati nell’allocazione dei fondi statali.

Non è a caso caso dunque, che le proteste siano cominciate a Mashad, seconda città dell’Iran, tradizionalmente conservatrice e sede della Fondazione del santuario dell’imam Reza, con un patrimonio di 15 miliardi di dollari. Le mobilitazioni in un primo momento hanno ricevuto l’appoggio dell’Imam conservatore della città, ma velocemente sono passate dalla contestazione a Rouhani a quella di tutto il regime. Dalla proteste per le condizioni economiche si è passati a rivendicazioni politiche. Gli slogan maggiormente scanditi a Mashad come nella città santa di Qom erano “Morte a Hezbollah” e “Seyad Ali [Khamenei] vattene, lascia il potere” e anche “Morte alla Repubblica islamica”, “Riformisti e principalisti (i conservatori, ndt), la vostra storia è alla fine”.

Se nel 2009 “l’Onda verde” aveva i suoi punti di riferimento nei riformisti che si opponevano alla rielezione di Ahmadinejad, questo movimento forse non ha ben chiaro cosa vuole, ma sa sicuramente cosa non vuole: tutto ciò che viene fatto in nome della Repubblica islamica. Maldestramente celata dietro i versetti del Corano il regime iraniano persegue una politica di tagli e di austerità come ogni altro paese capitalista.

Se nel 2009 l’epicentro della protesta si trovava fra i giovani universitari e della piccola borghesia della capitale, oggi i settori trainanti sono le classi popolari, i mostaferin, letteralmente i “senzascarpe”, i diseredati protagonisti assieme alla classe operaia della rivoluzione del 1979. Questi settori sono stati in tutti questi anni i fedeli sostenitori del regime. La perdita del loro appoggio potrebbe significare l’inizio della fine per la Repubblica islamica.

Non sorprende dunque che la repressione del regime sia stata particolarmente feroce, con 21 morti e oltre 3mila arrestati. Usando il pugno duro e una retorica anti-imperialista, il governo è riuscito a isolare, temporaneamente, i manifestanti e a stroncare la protesta.

Il ruolo dell’Occidente

Come avvoltoi Trump e le altre potenze occidentali sono piombate sull’Iran, criticando la dittatura degli ayatollah e fornendo l’appoggio alle proteste.

L’ipocrisia dell’imperialismo occidentale è sfacciata. Criticano la mancanza di democrazia dell’Iran, ma sono ciechi, muti e sordi di fronte alle violazione dei diritti umani in Arabia saudita o davanti ai soprusi quotidiani di Israele nei confronti del popolo palestinese. Non dimentichiamoci che la situazione economica, è peggiorata anche per colpa delle sanzioni imposte dalla “comunità internazionale” a Teheran dal 2012.

Fra le ragioni delle temporanea popolarità di Rouhani vi era proprio la promessa che, tramite l’accordo sul nucleare con Washington, le sanzioni sarebbero state tolte e l’economia sarebbe ripartita. Le promesse non sono state mantenute e ora le masse presentano il conto.

Se Obama nel suo secondo mandato aveva fatto buon viso a cattivo gioco, data la crescente influenza dell’Iran nella regione, stringendo un accordo sul nucleare con Teheran, così da evitare l’isolamento completo di Washington, Trump ha compiuto un’inversione di rotta a 180 gradi per quanto riguarda la politica estera in Medio oriente. Ha consolidato il legame con Israele e Arabia Saudita, mai così stretto come oggi, e lavora attivamente per un “cambiamento di regime” in Iran, ovvero a una guerra civile.

Gli Usa cercano di dirottare il movimento e spingerlo in una direzione reazionaria, provando a sfruttare a loro vantaggio la confusione all’interno delle mobilitazioni, inevitabile nello stadio iniziale del risveglio delle masse.

Tuttavia, le figure che cercano di utilizzare, come Reza Pahalavi, l’ultimo erede della dinastia che ha dominato l’Iran fino alla rivoluzione del 1979, difficilmente potranno godere di grande popolarità fra le masse. Se infatti l’odio verso il regime degli ayatollah sta crescendo, quello verso l’imperialismo americano non si è mai sopito.

I marxisti devono opporsi a qualsiasi intervento contro l’Iran, sia militare che sotto le vesti delle sanzioni economiche, e svelare le vere intenzioni dell’imperialismo.

Una tendenza marxista all’interno dell’Iran dovrebbe avere il compito di costruire, fin dall’inizio delle mobilitazioni, una direzione rivoluzionaria con una linea di indipendenza di classe sia dal regime iraniano che dalle sirene delle “democrazie” occidentali. La vittoria di una rivoluzione socialista in Iran costituirebbe la scintilla per il fuoco della rivoluzione in Medio oriente, spazzando via tutti i venti di barbarie e di reazione che hanno soffiato impetuosi negli ultimi anni.

*Basato sul materiale di Hamid Alizadeh, www.marxist.com

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