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Ipocrisia e menzogne sulla pelle dei braccianti

I campi svuotati dai lavoratori bloccati all’estero a causa della chiusura delle frontiere, contadini e aziende agricole che devono decidere quale parte del raccolto di frutta e verdura prendere e quale lasciar marcire. Questa è l’immagine inedita che le campagne hanno mostrato in questi mesi di emergenza, svelando le contraddizioni che negli anni si sono accumulate nel settore agricolo del nostro paese.

La verità da cui bisognerebbe partire ma di cui si tende a non parlare, è che il lavoro nei campi nel nostro paese è caratterizzato da un ipersfruttamento intensivo e senza pietà, non solo delle colture, ma soprattutto delle persone.

Senza braccianti, raccolti a rischio

La richiesta di manodopera del comparto agricolo vuole persone disposte a lavorare per salari da fame, per periodi brevi (la cosiddetta stagione), senza orari e in condizioni spesso disumane. Questo, negli anni, non solo ha favorito il lavoro nero e il caporalato (che non riguarda solo il sud), ma ha fatto in modo che i lavoratori impiegati fossero soggetti sempre più deboli, e quindi sempre più spesso immigrati, senza permesso di soggiorno o con un permesso temporaneo. Stagionali che vengono nel nostro paese solo per la stagione, poi costretti al rimpatrio sia dalle leggi che dalle condizioni economiche (quando non diventano loro malgrado clandestini).

È solo per questo che la chiusura delle frontiere ha messo a rischio i raccolti primaverili. Non manca la manodopera, mancano diritti e condizioni di lavoro dignitose.

A fronte del problema e delle pressioni che arrivavano dalle associazioni di categoria (Coldiretti ecc.) si è scatenata tutta la stupidità della nostrana classe politica (e dei giornalisti). Scattati subito sugli attenti, mentre il governo rimuginava sul da farsi, c’è chi ha cominciato a immaginare come correre ai ripari.

Alcuni proponevano di meccanizzare al 100% la raccolta (fra l’altro possibile solo in alcuni casi), altre menti straordinarie hanno partorito l’idea: “mandiamo nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza!”. Colpo di genio, tra l’altro bipartisan, destra e pseudo-sinistra, tutti d’accordo. Se non si possono sfruttare gli immigrati, sfruttiamo i nostri disoccupati.

Peccato che gli agricoltori hanno risposto picche, sfruttare si ma non indiscriminatamente, serve gente che sa lavorare. E così le associazioni di categoria hanno cominciato a organizzare i “corridoi verdi”, speciali voli dal Marocco e altri paesi, per portare i lavoratori stagionali in Italia. Se gli sfruttati non vanno dai contadini, i contadini se li vanno a prendere!

Mentre sui giornali si consumava questo teatrino, un altro sipario si apriva nel governo. Lo scontro tra Cinque Stelle, Pd e Italia Viva, si è basato da una parte su un astratto idealismo e dall’altro sul mero servilismo. Se si fosse parlato della realtà di chi nei campi ci lavora, il dibattito sarebbe stato forse più chiaro.

La domanda invece è stata: come si salvano i profitti, odierni e futuri?

La risposta ovviamente non è stata di mettere in discussione le basi dello sfruttamento, ma di fare una sanatoria temporanea, in modo che finita l’emergenza tutto possa tornare come prima.

Ed è proprio quello che è avvenuto: viene concesso un permesso di soggiorno di sei mesi agli immigrati presenti sul territorio che hanno già lavorato nel settore (agricolo o di cura, visto che il problema riguarda anche colf e badanti). Una volta assunti, il permesso diventa di quattro mesi (il tempo di essere sfruttati). Se il lavoro lo hanno già, in regola, possono chiedere un permesso di quattro mesi. Se invece è in nero è prevista una procedura di emersione a pagamento: 400 euro per il datore di lavoro che si autodenuncia, 100 euro per il lavoratore che denuncia. Non bazzecole per chi guadagna pochi euro al giorno!

Un provvedimento salutato dalla Cgil come “una conquista storica” e presentato dal ministro Bellanova (ex-Cgil) con le lacrime agli occhi, ma che è un vero e proprio specchietto per le allodole. Il meccanismo perverso che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, e viceversa, non solo non è messo in discussione ma anzi è confermato. Ed è questo meccanismo che crea artificialmente la clandestinità e l’emarginazione sociale e quindi la ricattabilità su cui si basa l’ipersfruttamento, il lavoro nero, il caporalato, e la penetrazione e il rafforzamento della microcriminalità organizzata. Senza scardinarlo non sarà mai possibile risolvere alcun problema legato all’immigrazione.

Serve un programma

Così come questo provvedimento del governo è sbagliato e insufficiente, ogni proposta rispetto all’agricoltura che non si leghi alla programmazione della produzione, alla sua regolamentazione democratica fondata sui bisogni e sulla distribuzione dei prodotti, non potrà mai risolvere alcun problema. Oggi le aziende agricole lamentano di subire il giogo della grande distribuzione organizzata, che facendo leva su una posizione di forza dominante impone politiche dei prezzi al ribasso. Per quanto questo non giustifichi il comportamento degli agricoltori, il ruolo della Gdo (Grande distribuzione organizzata) non può essere sottostimato.

Quando parliamo di prodotti agricoli parliamo di prodotti di prima necessità. Questo sistema non è in grado né di produrli in modo razionale e dignitoso, né di distribuirli. Serve quindi un programma complessivo, sostenuto dalla lotta che, a partire dagli scioperi dei braccianti come si sono visti anche di recente a Foggia e in altre province, si estenda a tutti i settori.

Un programma che rivendichi la nazionalizzazione della grande distribuzione organizzata e delle grande industria agroalimentare, per poter riorganizzare tutta la filiera democraticamente e razionalmente, garantendo diritti e dignità a chi lavora, tutela dell’ambiente, e cibo per tutti.

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