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Inflazione – I buoi sono già scappati dalle stalle

Con un aumento dei prezzi del 7%, in dicembre l’inflazione negli Usa tocca il massimo da 40 anni. L’Unione europea viaggia attorno al 5%, il Regno unito era al 5,1% in novembre e la Bank of England prevede che si arriverà al 7%. Persino in Giappone, patria mondiale della deflazione, l’indice dei prezzi è tornato in territorio positivo, sia pure di poco.

Quando nel 2021 i prezzi hanno iniziato a crescere, governi ed esperti hanno sentenziato in coro che si trattava di un aumento temporaneo, dovuto alla brusca oscillazione della ripresa dopo il crollo economico del 2020. Qualche mese dopo l’ottimismo era già svalutato e si puntava il dito sulle strozzature delle catene di fornitura, soprattutto nelle materie prime e nella componentistica (ad esempio i semiconduttori). Oggi regna una totale confusione su cause e rimedi.

La causa più evidente dell’aumento dei prezzi è indubbiamente nell’alluvione di liquidità messa in circolo dalle banche centrali: circa 16mila miliardi di dollari solo per fare fronte al crollo economico seguito all’esplosione della pandemia. Una massa senza precedenti di capitale fittizio che ha drogato la domanda mondiale.

Ma ci sono altre cause. Il protezionismo crescente porta con sè un inevitabile aumento dei prezzi, ma anche della rendita, come testimoniano i superprofitti distribuiti dalle aziende estrattive, l’aumento dei prezzi agricoli, ecc. Inoltre la produttività rimane stagnante: le aziende sono riluttanti ad investire massicciamente e se lo fanno pretendono ampie coperture da parte degli Stati. Questo significa che i prezzi di produzione crescono (si fa fronte agli aumenti di domanda senza una vera espansione della base produttiva), oltre a gravare ulteriormente i bilanci pubblici, a loro volta coperti da nuove iniezioni di valuta da parte delle banche centrali.

Per la prima volta da anni si parla quindi di passare dalle politiche monetarie espansive a una linea restrittiva: alzare i tassi d’interesse, ridurre i programmi di acquisto di titoli pubblici e privati che hanno gonfiato all’inverosimile i bilanci delle banche centrali (la Bce e la Fed hanno ciascuna “in pancia” circa 9mila miliardi di dollari di titoli pubblici e privati rastrellati sul mercato per impedire crolli e fallimenti).

La Federal Reserve annuncia la svolta per i prossimi mesi, lo stesso fa la Bank of England. Ma un cambio brusco di rotta in queste condizioni equivale a inchiodare i freni su una strada ghiacciata. Un netto rialzo dei tassi potrebbe strozzare la ripresa negli Usa, generare fughe di capitali da paesi più deboli (primi indiziati: Brasile, Turchia, Egitto, Argentina, Sudafrica), aprire una forte contraddizione tra Usa e Unione europea.

Ma soprattutto l’esplosione dei prezzi chiama in causa il movimento operaio. In numerosi paesi c’è una crescita delle lotte salariali per fare fronte al carovita galoppante e non a caso si inizia a risentire la vecchia cantilena della “spirale prezzi-salari”, che era stata riposta in soffitta da circa trent’anni.

Ma la vera “spirale” sarà quella di un nuovo ciclo della lotta di classe, che dopo l’effetto choc generato dal Covid sta maturando su scala internazionale, sullo sfondo di un sistema economico sempre più parassitario, pervaso da contraddizioni insolubili e incapace di offrire una prospettiva degna alla maggioranza del genere umano.

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