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Ilva – Nessun licenziamento, lottiamo per la nazionalizzazione!

Dopo 5 anni di decreti ad hoc e quattro di commissariamento, la situazione dell’Ilva è giunta ad un punto di svolta. Il ministro Calenda ha formalizzato, con un decreto, il cambio di proprietà. A rilevare la società sarà l’AM Investco Italy, joint venture composta dal colosso franco-indiano AlcerolMittal (il più grande gruppo siderurgico al mondo), che deterrà l’85% delle azioni, e il gruppo Marcegaglia che avrà il restante 15%, a cui si aggiunge il sostegno di Banca Intesa.

La proposta di AM prevede dal 2018 4800 esuberi, che saliranno nel 2023 a 5800, un numero esorbitante, pari al 40% dei lavoratori!

Come se non bastasse, dalla proposta del gruppo, di cui ancora non si conoscono i dettagli del piano ambientale, emerge che i parchi minerari, che causano la dispersione di polveri inquinanti per la città di Taranto, verrebbero coperti solo nel 2023. Mancano tra l’altro tecnologie volte a trasformare radicalmente il processo produttivo. Dal punto di vista ambientale si fa il minimo prescritto dal ministero, e dall’Aia (autorizzazione integrata ambientale), le prescrizioni a cui l’acciaieria deve confermarsi per poter produrre. La stessa Aia probabilmente verrà rimessa in discussione dai nuovi acquirenti.

Per i tecnici che hanno analizzato i piani, gli investimenti presentati non sono congrui rispetto ai volumi che si dice di voler produrre, inoltre “tutte le tecnologie proposte puntano ad abbattere l’emissione di anidride carbonica, un aspetto importante ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall’uso del carbone”(Il Fatto quotidiano, 31/ 5/ 2017).

L’ipotesi della decarbonizzazione era già stata dichiarata impraticabile da parte di Geert Van Poelvoorde, manager europeo del gruppo, che considera non competitiva questa soluzione per i siti europei. Il paradosso è que1lo di una riproposizione dell’Ilva molto simile a quella che era a regime sotto la gestione Riva, con meno addetti e un maggiore sfruttamento dei lavoratori, considerando che il gruppo vuole portare la produzione da 6 milioni di tonnellate nel 2018(a cui si aggiungeranno semilavorati importati da stabilimenti esteri), con i tre altiforni attualmente in funzione, a 9,5 milioni di tonnellate annue dopo la ristrutturazione degli impianti bloccati perché non a norma.

Il governo ha rassicurato che nessun posto di lavoro andrà perso, non solo con il ricorso alla cassa integrazione; coloro i quali non rientreranno nel piano previsto dagli acquirenti rimarranno in capo all’amministrazione straordinaria, che dovrebbe occuparsi tra l’altro delle bonifiche dell’area. Si prospetta cioè una bad company, dove finirebbero i lavoratori in esubero, che può tranquillamente essere l’anticamera ai licenziamenti.

Il governo rassicura anche sulla disponibilità degli acquirenti a discutere degli esuberi, a patto che si metta mano al costo del lavoro…si preannuncia quindi, come abbiamo già visto per le altre aziende in crisi, l’ennesimo ricatto per i lavoratori, come se non bastasse quanto hanno subito in questi anni!

A Taranto c’è stato il primo giugno un primo sciopero di 4 ore, convocato dalle diverse sigle sindacali, mentre oggi a Genova sono scesi in corteo con otto ore di sciopero i lavoratori dell’Ilva di Cornigliano e di Novi Ligure. In entrambi i casi la partecipazione allo sciopero è stata alta e il clima, data la portata dello scontro, non può essere che incandescente.

La difesa dei posti di lavoro e il rifiuto di qualsiasi peggioramento delle condizioni di lavoro deve essere sostenuto con ogni mezzo. Il punto centrale però è che nessuno degli acquirenti può risolvere il problema della salvaguardia occupazionale e del diritto alla salute e ad un ambiente salubre. L’altra cordata che ha presentato una propria offerta, AcciaItalia, capitanata dall’indiana Jindal, con la presenza della Delfin di Del Vecchio, e inizialmente anche Arvedi e Cassa depositi e prestiti, prevedeva comunque un massiccio numero di esuberi.

La stessa Mittal ha rilevato nel 2006 lo siderurgico di Zenica, in Bosnia, promettendo di fare tutti gli investimenti del caso per la salvaguardia ambientale, ma a distanza di dieci anni, gran parte dei piani sono rimasti lettera morta e al pari dell’Ilva l’acciaieria è una fabbrica di tumori per i lavoratori e gli abitanti della città.

Per i padroni l’idea della nazionalizzazione dell’industria siderurgica, che tra l’altro è un settore strategico, è un tabù, come sintetizza un editoriale del Sole 24ore:

Con il passaggio dalla patologia dell’amministrazione straordinaria alla fisiologia di una realtà gestita secondo criteri industriali – appunto l’assegnazione alla cordata di Arcelor Mittal – il tema del numero di addetti assume una nuova valenza. I 9.400 addetti che Arcelor Mittal prospetta per il 2018 sono tanti o sono pochi? Al di là della naturale disponibilità a negoziare su questo numero che potrà avere una multinazionale abituata a confrontarsi in ogni parte del mondo con mille scenari e mille problemi, questo piano interrompe l’incantesimo onirico della agognata neo-statalizzazione che, chi frequenta Taranto, conosce bene. È tornata l’Iri. È tornata l’Iri.

Per molti a Taranto è stato così, negli ultimi anni. Invece, non è mai stato così. Per niente. Il Governo Renzi non ha pensato di statalizzare l’Ilva, tanto che la Cdp – mai convinta della propria funzione, quasi timidamente felice di perdere l’aggiudicazione – ha avuto l’effetto di una tazza di camomilla sulla sua cordata. Ora è stato ristabilito il principio di realtà. Non vi piace la parola mercato? Usiamo la parola industria. È stato reintrodotto nel discorso sull’Ilva il principio di realtà industriale della sostenibilità del numero dei dipendenti rispetto alla finanza di impresa e all’attività produttiva.

Per loro la sostenibilità del numero dei lavoratori è solo un altro nome con cui chiamano il profitto, ma è questa ottica che sacrifica all’interesse di pochi il lavoro e la saluta di migliaia di persone che va completamente ribaltata. Taranto nel corso di questi anni ha pagato un tributo altissimo, in termini di morte e malattie create dall’acciaieria, tanto da far aumentare le richieste di chiusura del sito, con le inevitabili ricadute occupazionali.

La verità è che l’unica strada per uscire da questa situazione è la nazionalizzazione e la piena proprietà pubblica dell’Ilva. Questo è l’unico presupposto per garantire investimenti e nuove tecnologie, che non siano inquinanti, ma anche per attuare il controllo da parte degli operai sulla produzione e sull’intero processo di bonifica.

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