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Il Recovery Plan non risolve niente

“Nel Recovery Plan c’è il destino dell’Italia”, ha detto Draghi al Senato mentre illustrava il piano di spesa di 248 miliardi di euro che è stato votato da tutti i partiti in Parlamento (anche Fratelli d’Italia si è solo astenuta) e inviato alla Commissione europea. Gli hanno fatto eco i giornali della borghesia italiana ma ancora di più quelli internazionali, per i quali l’Italia è passata, nel breve intervallo di un cambio di governo, dall’essere l’ultima della classe a modello.

Tuttavia, i toni epici che si danno a questo progetto sono del tutto sproporzionati rispetto alla sua reale portata.

Il Recovery Plan europeo vale 750 miliardi di euro, circa 2mila dollari a persona. La fetta italiana è la più ricca (191 miliardi), e il Pnrr, aggiungendo altri fondi, arriva a 248 miliardi: circa 5mila dollari a persona. Nel frattempo Biden in pochi mesi ha presentato tre piani per un totale di 5900 miliardi di dollari, circa 18mila dollari procapite.

Il piano italiano rispecchia la debolezza dell’Italia nel capitalismo mondiale, e non sarà in grado di cambiare nulla di significativo. L’Italia ha perso l’8,9% del Pil nel 2020, e a fine 2022 non avrà ancora recuperato questa perdita. E il Pil del 2019 non aveva ancora recuperato i livelli pre-crisi 2009. Secondo le stime del governo, basate sullo scenario più ottimistico, il Pnrr dovrebbe aumentare del 3% l’occupazione fra 5 anni, creando 750mila posti di lavoro. Solo nell’ultimo anno se ne sono persi 950mila, e il 30 giugno verrà tolto il blocco ai licenziamenti, per cui si stima una perdita di un milione e mezzo di posti di lavoro nei prossimi mesi.

 

Dove vanno i soldi?

Non c’è pagina del piano in cui non si legga di digitalizzazione, transizione ecologica, donne, giovani, Sud. Questo un po’ per immagine politica ma soprattutto per rispettare le richieste del piano europeo, che prevede quote obbligatorie di spesa per queste voci.

In realtà, dietro a questa apparenza, il piano si può riassumere come una lista di centinaia di voci di spesa messe insieme senza una visione strategica (in questo caso “more is less”), divisi in:

– una quota maggioritaria di trasferimento di soldi diretto alle aziende, con priorità per quelle più forti sul mercato internazionale e del settore delle costruzioni;

– una quota di spesa pubblica diretta per infrastrutture basilari di cui l’Italia è drammaticamente carente e di cui il privato non si fa carico, concentrata su digitalizzazione e alta velocità, in pura linea keynesiana;

– alcuni interventi tampone su situazioni critiche, sotto le reali necessità e spesso lasciati in mani private (come ediliza scolastica, asili nido, dissesto idrogeologico, rete idrica);

– un insieme di riforme per rendere la pubblica amministrazione, il sistema degli appalti, l’istruzione, la ricerca, più adatte alle esigenze del capitale privato.

Chi deve guadagnare lo spiega Cottarelli, ex commissario alla spending review: “Il piano vuole creare le condizioni perché a lungo termine le aziende private prendano la guida del processo di crescita […] perché l’Italia diventi un posto migliore per fare investimento privato”.

La parte sulla salute è ultima in ordine e quella che riceve meno fondi e già il fatto che la sezione dedicata si apra dicendo che “nel complesso il Servizio Sanitario nazionale presenta esiti sanitari adeguati, un’elevata speranza di vita alla nascita…” fa capire che chi ha scritto il piano vive in una dimensione parallela diversa dalla realtà in cui c’è stato il collasso delle strutture nella pandemia, l’aspettativa di vita si è abbassata di un anno e sei mesi nel 2020 e tutte le cure non legate al covid (prevenzione, diagnostiche e terapeutiche) hanno ritardi il cui prezzo si vedrà nel prossimo decennio.

Alla voce digitalizzazione, 10 miliardi vanno alla pubblica amministrazione e al sistema giudiziario per svecchiare un po’ la macchina burocratica (Spid, piattaforme PagoPa, app IO, ecc). Da segnalare che, come in tutto il piano, non sono previste assunzioni stabili ma solo giovani con competenze informatiche o giuridiche con contratti di 3 anni, a cui poi sarà data una pacca sulla spalla e una bella lettera di merito.

La voce maggiore però sono 14 miliardi che vanno direttamente alle aziende per acquisto macchinari “4.0”, a cui si aggiungono altri 2 miliardi come sostegno sul mercato internazionale.

6 miliardi vanno alla rete internet, (fibra, 5G). Su questo è in atto uno scontro perché è un appalto appetitoso ed è stata messa in discussione la posizione di monopolista privato di Telecom, per aprire ad altre aziende.

 

La favola della “rivoluzione verde”

La “rivoluzione verde” è la voce più cospicua (60 miliardi) ma è tutto tranne che una rivoluzione. La voce singola più alta (14 miliardi) è la copertura del Superbonus 110% per l’efficientamento energetico degli edifici, un incentivo introdotto dal governo precedente, diretto a sostenere l’edilizia più che l’ambiente, oltre a banche e finanziarie che fanno profitti sicuri grazie al meccanismo della cessione del credito.

Sull’energia, anche le associazioni ambientaliste più moderate dichiarano che l’obiettivo di 4,2 GW in più da fonti rinnovabili presentato nel piano è largamente insufficiente anche rispetto ai non ambiziosi obiettivi europei. Sugli investimenti manca completamente un piano organico e i soldi si spargono su mille voci: un po’ di biometano (peraltro dannoso ad ambiente e salute), una spolverata di pannelli solari sui campi e nei piccoli centri, un po’ di eolico vedremo dove (si parla anche si piattaforme offshore!). Una certa centralità viene data all’idrogeno, la fonte preferita dalle multinazionali del fossile perché sviluppabile in combinazione con il gas. Non una parola sui 19 miliardi annui di incentivi fiscali sulle fonti fossili.

Sul trasporto locale, si coglie l’occasione per rinnovare parte del vetusto parco autobus con 3360 veicoli, circa un terzo del necessario secondo una stima fatta nel 2020 dai gestori del trasporto pubblico locale, e descritti genericamente descritti come “a basse emissioni” (elettrici? idrogeno? fossili? Non si sa).

Sulle infrastrutture (25 miliardi), la parte del padrone la fanno le grandi opere per l’Alta Velocità con 13 miliardi, contro 1 miliardo per le linee regionali. Si tratta in buona parte di opere già programmate, in alcuni casi avversate dai movimenti ambientalisti, che per poter usare i fondi europei diventano improvvisamente parte della rivoluzione verde.

Nel piano è previsto un taglio dei tempi per appalti pubblici e concessioni. Andranno accorciate le verifiche antimafia, ridotte le ispezioni e… le Valutazioni di impatto ambientale. La ricetta è di accentrare le autorizzazioni permettendo al governo di sostituire o scavalcare Comuni e Regioni, approfondendo il modello già introdotto da Renzi con lo “sblocca Italia”. In altre parole, il governo decide e la discussione è chiusa. Il ministro Giovannini ha commentato esplicitamente che “senza un cambiamento nelle procedure autorizzative e delle procedure esecutive noi non mancheremmo solo l’obiettivo del 2026, ma perderemmo anche altri capitali disposti a scommettere positivamente sul rimbalzo dellì’Italia”.

 

Scuola e università sempre più asservite alle imprese

La parte riguardante l’istruzione è quella dove è più presente un disegno politico organico, già annunciato dal ministro dell’istruzione Bianchi, cioè riformare tutti i livelli di istruzione per avere una forza lavoro rispondente alle esigenze delle aziende, su diversi livelli: operai, tecnici, ricercatori, ecc.

Tutta la parte umanistica è completamente ignorata dal piano e sarà verosimilmente lasciata senza investimenti. Nella scuola la priorità è “allineare i curricula degli istituti tecnici e professionali alla domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo”, raddoppiare le iscrizioni agli Istituti Tecnici Superiori (corsi di due anni per inserimento nelle aziende, alternativo alle università).

Per essere sicuri che le priorità di Confindustria diventino quelle degli studenti, già dal terzo anno di superiori gli studenti saranno soggetti a ore di orientamento in cui sarà loro indicato il percorso da scegliere.

Analogamente nelle università si annuncia una riforma delle classi di laurea per avere la massima flessibilità nei programmi nel singolo ateneo, perché riflettano anche qui le esigenze delle aziende del territorio. Infine, si ipotizza l’abolizione degli esami di Stato per diverse professioni, rendendo sufficiente la laurea che è gestita dal singolo ateneo, dando totale spazio all’autonomia. Un passo importante verso l’abolizione del valore legale del titolo di studio uguale per tutti, altra storica rivendicazione del padronato che vuole un sistema formativo totalmente dominato dalla logica di mercato.

Merita di essere citato il paragrafo sugli studentati universitari, per i quali è prevista addirittura una “riforma della legislazione sugli alloggi per studenti”, per permettere che siano aperti e gestiti da privati. Lo Stato garantirà le entrate previste per i primi tre anni di gestione e i posti non occupati da studenti potranno essere offerti sul mercato. Per renderli più appetibili per il mercato, saranno ridotti gli spazi comuni a beneficio delle camere singole.

L’ultimo anello della catena è la ricerca, a cui sono destinati 11 miliardi ed è tutto orientato ai partenariati università – centri di ricerca – imprese e alla promozione di “campioni nazionali” in cui concentrare i fondi fuori da un reale controllo, mentre il resto della ricerca viene lasciata sottofinanziata. Un modello già esistente nel centro Human Technopole da cui provengono diversi ministri e che viene sancito nei finanziamenti e da una riforma dei dottorati di ricerca.

Le altre riforme previste seguono tutte la stessa direzione. Nella pubblica amministrazione la priorità è snellire le pratiche e avere canali di assunzione diretta per figure manageriali e tecniche per sviluppare il piano, così come nella ricerca e università si prevedono incentivi economici per reclutare manager e ricercatori privati. Il piano impegna a emanare leggi sulla concorrenza ogni anno, con l’obiettivo di aprire al mercato tutti gli ambiti di spesa, dalla gestione dei porti agli appalti dove le amministrazioni pubbliche dovranno giustificare a priori l’eventuale affido in house (a controllate pubbliche). Anche in campo energetico si prevede una maggiore apertura sul mercato del gas naturale (alla faccia delle rinnovabili) e si pone l’obiettivo del passaggio totale al mercato libero per l’energia elettrica.

C’è qui tra le righe un attacco velenoso ai lavoratori dei servizi locali, in primo luogo del trasporto, ma anche ai portuali (revisione delle concessioni) e di altri settori, che si vedono messi nel mirino di nuovi processi di privatizzazione e di concorrenza al ribasso.

Per la formula del Recovery Plan, tutte queste riforme sono irrinunciabili, perché se non venissero applicate secondo i tempi illustrati, l’Ue potrebbe sospendere i pagamenti del piano e Draghi ci ha tenuto a ricordarlo in Parlamento.

 

E i lavoratori?

I lavoratori sono i grandi assenti di questo piano, variabile dipendente che deve modellarsi secondo le richieste padronali, quando serve e per quanto tempo serve. Il 30 giugno riaprono i licenziamenti nelle grandi aziende e il Pnrr traccia le linee generali della riforma degli ammortizzatori sociali, che dovrà dare luce a un sistema “capace di far fronte alle trasformazioni”, a far da ponte su una occupazione sempre più discontinua. Il vicepresidenza di Confindustria, e responsabile lavoro, Stirpe, si è affrettato ad esprimere il proprio appoggio al Pnrr, con particolare entusiasmo per la riforma dell’istruzione, e ha chiesto che si tolga l’obbligo di causale per i contratti a tempo determinato.

Oltre a questa riforma il governo dovrà mettere mano alla scadenza di quota 100 e a una riforma necessariamente peggiorativa sulle pensioni.

Il 30 giugno scade anche il blocco degli sfratti, e la moratoria sui mutui alle famiglie.

Il 45% delle aziende sono a rischio strutturale, soprattutto le medie e piccole, che sono ignorate dal piano.

A tutti questi problemi il Recovery plan non offre soluzione e infatti i toni trionfalistici con cui è stato presentato si sono dissolti rapidamente, e le aspettative che pure esistevano hanno lasciato spazio a un generale scetticismo. La popolarità di Draghi, che partiva dal 68%, in due mesi di governo è scesa di 9 punti. Nei prossimi mesi i settori sociali che sono stati ignorati chiederanno il conto, e fra questi i lavoratori. Con un piano da 248 miliardi alle spalle, il governo non potrà dire che non ci sono i soldi. Né potranno farlo i padroni nei settori che stanno macinando profitti, e dove infatti vediamo condizioni migliori per la lotta sindacale.

I dirigenti sindacali, che continuano a pietire “tavoli” di trattativa e “coinvolgimento” da parte del governo, rimangono completamente spiazzati. Draghi e i suoi ministri sono prodighi di belle parole ma nei fatti li ignorano completamente. L’immobilismo sindacale è al capolinea, ma non c’è traccia di una strategia di mobilitazione. Eppure, ai lavoratori sarà sempre più evidente che solo attraverso la mobilitazione potranno strappare qualcosa.

Il governo, i padroni, i media hanno promesso miracoli che non si materializzeranno, tutto il contrario.

Se si aggiunge la provocazione della riforma dell’istruzione verso i giovani, già esasperati dalla politica schizofrenica sulle scuole e le restrizioni, è probabile che questo piano sarà alla fine un ulteriore elemento di destabilizzazione sociale, l’esatto opposto di quello per cui era stato pensato.

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