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Il M5S e le elezioni comunali a Roma: la fine di un’epoca

Nel giugno di 5 anni fa il Movimento 5 Stelle otteneva un plebiscito alle comunali a Roma eleggendo Virginia Raggi sindaco con il 67,15%. Questa vittoria, un vero e proprio tsunami con consensi che arrivavano a sfiorare l’80% in alcune delle più popolose periferie romane, era parte dell’ascesa che avrebbe spinto i grillini al governo nazionale. In tutta la campagna elettorale gli avversari della Raggi e del M5s non erano mai stati in partita come dimostra il fatto che mentre i pentastellati raggiungevano oltre il 35% il Pd aveva raccolto circa la metà del loro consenso e Fratelli d’Italia poco più di un terzo.

L’ampia maggioranza di cui godeva il nuovo sindaco ha creato da subito enormi illusioni in un settore significativo dei cosiddetti movimenti sociali composto da comitati territoriali e centri sociali oltre che dall’Unione Sindacale di Base, sindacato aveva visto crescere significativamente il suo consenso tra i dipendenti comunali e nelle aziende partecipate.

La nomina ad assessore all’urbanistica di Paolo Berdini, oggi candidato a sindaco del Prc, con il suo retroterra di sinistra, ha alimentato queste illusioni. Peccato che Berdini sia stato rapidamente marginalizzato fino ad essere dimissionato, non prima di aver fatto dichiarazioni ambigue come sulle Olimpiadi, poi saltate per scelta del Movimento, sulle quali si era dichiarato possibilista “a condizione che arrivino finanziamenti che possano permettere di migliorare gli impianti in periferia”.

Possiamo dire senza margine di errore che il Comune di Roma è stato il primo banco di prova del governo dei Cinque Stelle. Un osservatorio privilegiato nel quale i limiti della loro politica interclassista sono emersi scontrandosi, uno dopo l’altro, con i poteri forti che governano la Capitale, primi fra tutti i costruttori edili.

Negli anni precedenti il consenso attorno ai grillini era cresciuto in conseguenza della vera e propria crisi sociale e politica che attanagliava Roma. La città è stata lungamente governata dal centrosinistra, poi dal centrodestra e infine da un commissario prefettizio senza che vi fosse alcuna discontinuità. Una città schiacciata dall’enorme debito accumulato e nella quale i servizi sono crollati a partire dal trasporto pubblico e dalla raccolta dei rifiuti. I dati dell’emergenza abitativa sono allarmanti con 7500 sfratti l’anno, 14000 famiglie in lista d’attesa per un alloggio popolare e 200.000 persone che vivono in alloggi precari mentre le grandi imprese immobiliari continuano a gestire il mercato degli affitti senza che nulla sia stato fatto.

Nel 2016 il debito della capitale ammontava a 13 miliardi di euro di cui quasi 5 miliardi di interessi da versare alle banche. Per risarcire tale debito il Comune di Roma paga una rata annuale di 500 milioni di euro (di cui 300 erogati dallo Stato e 200 reperiti dalla fiscalità del Comune).

Proprio la questione del debito, e delle conseguenti scelte di bilancio, è stato uno dei primi banchi di prova e delle prime capitolazioni delle giunta.

Mentre in campagna elettorale la Raggi si era impegnata a portare avanti un audit sul debito e una ricontrattazione questi “buoni propositi” si sono sciolti come neve al sole una volta arrivata alla carica di primo cittadino. Davanti al parere negativo dell’OREF (l’organismo di revisione economica e finanziaria del comune di Roma) sul bilancio del Comune di Roma la sindaca si è piegata senza lottare abbandonando tutte le promesse per abbracciare una politica di tagli.

Il bilancio della giunta Raggi è impietoso. Nulla è cambiato se non in peggio per milioni di lavoratori romani. Il Movimento è stato attraversato da scandali corruzione come quello nel quale l’ex capogruppo Marcello De Vito, ora approdato a Forza Italia, è stato coinvolto insieme al costruttore Parnasi attorno alla vicenda del progetto per lo Stadio di Tor di Valle.

La subalternità alle grandi opere e ai palazzinari è dimostrata dal sostegno al progetto, poi naufragato, dello stadio della As Roma. La situazioni dei rifiuti è al collasso con continue emergenze sanitarie senza alcun piano generale che non sia spendere milioni di euro per portare i rifiuti in discariche fuori dalla città.

Si è perso il conto dei rimpasti con un valzer di assessori, dimessi o silurati ad ogni passaggio critico della maggioranza capitolina. Il recupero degli spazi dismessi ha lasciato il campo agli sgomberi, a volte degli stessi centri sociali che erano stati abbagliati dalla stella nascente del sindaco.

Ogni volta che avrebbero potuto scontrarsi con le forze che da sempre comandano Roma come l’ACER (Associazione Costruttori Edili Romani) o il Vaticano i pentastellati invece di mobilitare gli ampi settori popolari che gli hanno permesso di avere la maggioranza in Campidoglio hanno cercato accordi e manovre di palazzo finendo per capitolare. Anche sul referendum sulla privatizzazione dell’Atac promosso dai radicali si sono guardati bene dal mobilitare i lavoratori per rilanciare il servizio pubblico.

Non sappiamo che risultato avrà Virginia Raggi ma è chiaro che della spinta popolare verso il cambiamento che l’ha portata ad essere sindaco non c’è più nulla. Il suo sostegno entusiasta alla candidatura di Roma per Expo 2030 proposto da Mario Draghi è la fotografia più nitida della sua parabola.

Il panorama delle elezioni del 3-4 Ottobre è abbastanza desolante. Non è casuale che queste elezioni si svolgano in un clima di vasto disinteresse con la campagna elettorale meno partecipata della storia. La coalizione di centrosinistra guidata dall’ex ministro dell’economia del Pd Roberto Gualtieri, seppur condita da una lista di Sinistra Civica Ecologista con candidati dei centri sociali Spartaco e Spin Time, è un elogio dell’imprenditoria capitolina ed ha come fiore all’occhiello la proposta di fusione tra Acea e Ama.

Appena un pizzico meglio della furia privatizzatrice del candidato di Azione, Carlo Calenda, che ripercorre la strada dell’imprenditore Alfio Marchini, proponendo un programma di efficienza imprenditoriale che i lavoratori di Alitalia ricordano molto bene quando era Ministro dello Sviluppo Economico.

Lo stesso centrodestra, che pure ha un radicamento storico a Roma, si è ben guardato da scegliere figure nazionali come candidato sindaco. Dopo una serie di rifiuti il cerino è rimasto in mano ad Enrico Michetti, candidato semisconosciuto così mediocre che il Ministro leghista Giorgetti ha dichiarato che il sindaco migliore per il dopo Raggi sarebbe…Calenda.

Certamente la destra mantiene un bacino di consensi che emergerà dalle urne ma manca di una base sociale e di un programma in grado di dare risposte ad una città ancora più impoverita dalla crisi covid.

A sinistra del Pd assistiamo ad un moltiplicarsi di candidature, ben 5! Potere al Popolo e il Prc, dopo un balletto immobile di mesi di trattative, non hanno trovato un accordo pur avendo un programma molto simile mentre il PCI, ha presentato un suo candidato perché il suo simbolo non sarebbe stato sufficientemente visibile sostenendo il candidato sindaco Berdini. A questi pretendenti si aggiunge la candidata del PC Micaela Quintavalle, che in passato ha sostenuto il M5s e Franco Grisolia per il Pcl.

Tutte queste candidature, aldilà di qualche sfumatura programmatica, sono accomunate dal fatto di essere completamente incapaci di rappresentare le mobilitazioni che hanno attraversato la città in questi anni. Nascono tutte dall’idea di costruire un’egemonia nel campo ristretto della sinistra politica che c’è. Hanno certamente il pregio di essere fuori dai giochi di potere che comandano la Capitale, di contrastare la subalternità ai padroni e agli affaristi presente nel campo del centrosinistra ed per questo il nostro voto andrà a queste liste. Ma ciò che è chiaro da questa tornata elettorale è che una sinistra rivoluzionaria e di classe non uscirà dalle urne il 3-4 ottobre ma nascerà dalle mobilitazioni del futuro ed è tutta da costruire. Sinistra Classe Rivoluzione anche a Roma è impegnata in questa direzione.

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