Il governo più a destra di sempre approfondisce la crisi di Israele
Lo scorso 29 dicembre si è insediato in Israele un nuovo esecutivo a guida Netanyahu, al suo sesto mandato. È senza ombra di dubbio il governo più a destra della storia di Israele, risultato delle elezioni del novembre scorso che hanno conferito una vittoria netta al Likud (partito di Netanyahu) e ai partiti dell’estrema destra religiosa ultra-ortodossa. Il loro nome è già un programma: Ebraismo della Torah Unito, Potere Ebraico, Sionismo Religioso e Noam.
In base al suo stesso programma, il nuovo governo di coalizione “promuoverà e svilupperà la colonizzazione di tutte le parti della Terra d’Israele – in Galilea, nel Negev, nel Golan e in Giudea e Samaria”, esplicitando così l’obiettivo di annettere la Cisgiordania.
Una banda di reazionari
Il nuovo ministro della Pubblica Sicurezza, Itamar Ben-Gvir di Potere Ebraico, è stato in passato condannato per incitamento all’odio e sostiene il diritto di sparare impunemente ai palestinesi – il suo idolo è Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron nel 1994. Come primo atto da ministro, Ben-Gvir ha passeggiato sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, terzo luogo sacro dell’Islam, e ha dichiarato che “è tempo di tornare padroni di questo paese”. Avrà il controllo della polizia nazionale e di quelle di frontiera con i territori dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Bezalel Smotrich, del Partito Sionista Religioso, si è assicurato il ministero delle Finanze, con delega agli affari civili in Cisgiordania, vale a dire alla costruzione degli insediamenti israeliani. Anche Smotrich è stato in precedenza condannato per atti di terrorismo contro i palestinesi.
Avi Maoz ha assunto la carica di vice-ministro a tutela dell’“identità nazionale ebraica”. Il suo partito, Noam, è ferocemente omofobo e vuole vietare le sfilate del Pride.
Dalla crisi politica prolungata che ha portato a cinque elezioni politiche in quattro anni, Israele prova dunque a uscire spostandosi a destra. Tuttavia il nuovo governo è ben lungi dall’essere stabile e deve affrontare, dopo poche settimane dalla nascita, un’ondata di proteste contro una “riforma” della giustizia che sottopone la magistratura al controllo del parlamento. Lo scopo è da una parte risolvere i guai giudiziari del primo ministro e dall’altra avere mano libera nella costruzione degli insediamenti per i coloni. Il 13 febbraio uno sciopero generale, che ha coinvolto sia il settore pubblico che quello privato, ha portato 90mila manifestanti a protestare davanti al parlamento.
La fuga in avanti di Netanyahu è stata criticata anche da Biden e dal presidente della repubblica Herzog e rivela le profonde spaccature nella borghesia israeliana. L’imperialismo ha generato un mostro di Frankenstein che non esita a ribellarsi al proprio creatore.
Il crollo della sinistra sionista
Alle ultime elezioni la bancarotta delle liste di sinistra e dei partiti arabi è stata totale. Per la prima volta Meretz, partito della “sinistra” sionista, non entra in parlamento. Il Partito Laburista, un tempo pilastro della borghesia israeliana, è ridotto al 3,6%. Vengono punite anche le liste arabo-israeliane: la lista comune nel 2015 aveva ottenuto ben 15 seggi, ma era una coalizione senza principi, che includeva islamisti, sionisti, nazionalisti arabi e i comunisti di Hadash, che è andata a pezzi riguardo al sostegno al governo Bennett-Lapid, (appoggiato dagli islamisti della Lista Araba Unita, mentre Hadash si è opposto).

26 gennaio : il raid dell’esercito israeliano a Jenin provoca nove morti
Tale governo, caduto la scorsa estate, non aveva nulla di progressista, si basava solo sull’opposizione a Netanyahu. A tal fine i partiti arabi e la sinistra si erano subordinati a reazionari come Bennett, che tra l’altro nel 2018 fu tra i promotori della legge che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”, discriminando così anche legalmente quasi 2 milioni di arabo-israeliani.
Il collante di ogni governo succedutosi negli ultimi anni è stata la tutela della “sicurezza nazionale”, espressione dietro cui si maschera la guerra contro i palestinesi. Puntare il dito sul nemico esterno è utile per mascherare il fatto che gli israeliani non sono tutti uguali: in Israele il 20% della popolazione è povera e nel 2021 era il secondo paese con maggiori diseguaglianze fra quelli OCSE.
L’ipocrisia dell’imperialismo
Il sesto governo Netanyahu intensificherà l’escalation già in atto contro i palestinesi. In un solo mese e mezzo dall’inizio del 2023, il numero di palestinesi uccisi è pari a 47, tra cui 10 bambini.
Tutto questo avviene nella totale impunità: non sentirete mai parlare di guerra di “aggressione” alla Palestina da parte di Israele sui mass media. Il diritto internazionale tanto invocato in Ucraina è lettera morta in questo caso. Le risoluzioni ONU che condannano Israele non si contano: solo nel 2021 sono state ben 14. Eppure hanno valore pari a zero, dato che Israele è l’alleato più affidabile degli Stati Uniti nell’area.
Di recente il segretario di Stato americano Blinken è stato in visita in Israele e Palestina. Ha naturalmente invitato a riprendere i colloqui di pace e ha annunciato lo stanziamento di 50 milioni di dollari per i campi profughi palestinesi. Pura ipocrisia, dato che ogni anno gli USA inviano a Israele attrezzature militari per 3,8 miliardi di dollari!
L’imperialismo USA ha inoltre ingabbiato la lotta per la liberazione della Palestina con la creazione dell’ANP, che è diventata il cane da guardia dell’occupazione israeliana. La lotta delle masse palestinesi è stata tradita non solo da Washington, ma anche dalla propria borghesia e dalle borghesie dei paesi arabi. Alcune di esse (in Egitto, Giordania ed Emirati Arabi) hanno riconosciuto Israele, un vero e proprio spartiacque nella loro politica.
Sempre di più le masse palestinesi comprendono che non possono fidarsi di queste classi dominanti corrotte. Il primo passo in questa presa di coscienza è stato lo sciopero generale del maggio 2021. La costituzione di brigate di autodifesa come quella di Jenin o come la Tana dei Leoni a Nablus, con largo appoggio popolare e indipendenti dai tradizionali riferimenti come Fatah e Hamas, è un altro segnale.
La crisi di credibilità senza precedenti dell’élite al governo rende possibile e urgente un programma di classe e anti-capitalista, rivolto ai lavoratori e ai giovani sia israeliani che palestinesi, l’unico che possa operare una spaccatura nello Stato sionista e assicurare il diritto ai palestinesi a una propria patria.
23 febbraio 2023
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