Il Decreto di Conte è una farsa! Bloccare tutte le produzioni non essenziali, garantire pieno salario, espropriare tutte le risorse necessarie

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Il Decreto di Conte è una farsa! Bloccare tutte le produzioni non essenziali, garantire pieno salario, espropriare tutte le risorse necessarie

Con il Dpcm del 3 novembre l’Italia ritorna ad applicare restrizioni e lockdown, anche se per ora non generalizzati.

Diciamo subito che questo decreto ha tutti i caratteri della farsa. È un riconoscimento tardivo e cialtronesco di quanto era ormai evidente da settimane, ossia che la seconda ondata non solo ci investe in pieno, ma è nettamente più diffusa di quella primaverile. Ma è anche un decreto in larga misura inefficace, oltre che pieno di ingiustizie e arbitrii.

I dati sono impietosi e inequivocabili e per nulla misteriosi. Almeno da ottobre era chiaro che l’Italia seguiva con un ritardo di due o tre settimane paesi europei come Spagna, Gran Bretagna, Francia, dove la seconda ondata era già esplosa. Mentre scriviamo, in Francia si è appena registrato il giorno col maggior numero di decessi, 854 (3 novembre) di questo autunno. In Italia il numero di morti quotidiane si è moltiplicato per 12 volte nel giro di un mese e la tendenza non può che continuare, considerato che il contagio è in piena espansione.

Per settimane il governo ha nascosto la testa sotto la sabbia. I ministri straparlavano della ripartenza, dell’Italia virtuosa che aveva fatto da esempio per gli altri paesi, dei miliardi dell’Europa e di come li avrebbero spesi. Conte spergiurava che non sarebbero stati necessari nuovi lockdown e prometteva il Natale sereno. Nel giro di poche settimane è crollato tutto nel modo più vergognoso.

Il disastro delle scuole “riaperte in sicurezza” e chiuse dopo un mese rimarrà come l’immagine scolpita delle colpe di questo governo. La vicenda dell’app Immuni, che più viene usata, meno funziona, aggiunge il tocco della farsa.

Il decreto è stato il risultato di un grottesco scaricabarile tra governo e regioni, e si capisce il perché: sono finiti i tempi in cui si faceva a gara tra presidenti di regione e ministri a chi faceva (a parole, almeno), l’ordinanza più restrittiva. I sindaci non hanno più tanta voglia di esibirsi sui social mentre invocano i droni per sorvegliare la cittadinanza o mentre conducono con sprezzo del pericolo (e del ridicolo) operazioni di ordine pubblico per le strade.

De Luca ci ha provato, e ha scatenato una rivolta. Ci ha quindi ripensato e ha affermato con gravità che tocca al governo chiudere la Campania. Gli altri “governatori” hanno preso buona nota.

Dopo aver faticosamente stabilito 21 parametri per catalogare il grado di allarme per ogni regione, si sono riuniti e hanno scoperto… che i dati a disposizione non erano completi e affidabili. Si decide quindi in base a dati vecchi di 10 giorni.

L’emergenza di oggi discende direttamente da questi precedenti. La seconda ondata non poteva probabilmente essere evitata, ma si poteva e si doveva arrivarci preparati.

Oggi sono quindi di nuovo indispensabili misure drastiche, almeno per contenere i danni. Ma dal decreto manca precisamente la questione fondamentale: rallentare o fermare la produzione. Fermare lo spostamento quotidiano di milioni di lavoratori che fanno rimbalzare il virus tra l’ambiente domestico, i trasporti pubblici e i reparti di fabbriche e uffici.

Sui contagi nei luoghi di lavoro è calata una vera e propria congiura del silenzio. Anche i giornali più “rigoristi”, sempre pronti a fare titoloni per una piazzetta troppo affollata, diventano improvvisamente afoni quando si parla di fabbriche e aziende.

Ma nelle fabbriche, nei servizi, i contagi ci sono eccome, da mesi. Sono stati segnalati, pesanti, nell’industria alimentare già dall’estate (il caso Aia, l’industria delle carni in Emilia). A Pio Albergo Trivulzio di Milano, già sotto inchiesta, si segnalano 67 positivi. Sono circolate in rete le immagini dei pullman pieni che trasportano gli operai alla Sevel, in Abruzzo (6000 dipendenti, oltre 20 contagi accertati), viaggi fino a 50 minuti per tratta su mezzi pieni. L’Usb denuncia 71 positivi alla St Mircoelectronics di Agrate Brianza.

Per non parlare del personale sanitario, di nuovo mandato al macello tanto che si emanano circolari che autorizzano a mandare al lavoro anche i positivi asintomatici.

Eppure fra le tante restrizioni introdotte nel Dpcm (coprifuoco, divieti di circolazione, chiusura dei locali, delle palestre, autocertificazoni, ecc.) spicca una gigantesca macchia bianca, ossia le aziende. L’articolo 2 si limita a riconfermare i protocolli firmati ad aprile, alla vigilia della riapertura, senza altre prescrizioni se non un generico invito a massimizzare il lavoro da casa. Tutto rimane come prima! La lezione della Val Seriana evidentemente non è servita a niente. Solo che oggi il contagio è diffuso su gran parte del territorio nazionale, e focolai come quello della Val Seriana possono crearsi in decine di province.

Se si vuole seriamente contrastare il contagio oggi è necessario fermare tutte le produzioni non essenziali nell’industria e nei servizi. Solo così si può dare un senso alle restrizioni già imposte a milioni di cittadini.

Questo decreto è una farsa, rispetto a quelli di marzo, per un solo motivo: in marzo gli scioperi spontanei in decine e decine di aziende, e la minaccia di uno sciopero generale, costrinsero il governo a un blocco più serio della produzione, che era assolutamente necessario.

Bisogna riprendere esattamente da lì: la classe lavoratrice deve prendere in mano la situazione e imporre misure serie all’altezza del rischio immediato. Tutto quello che non è essenziale deve essere fermato.

Sappiamo la risposta: con queste misure l’economia affonda. Milioni di lavoratori sono logicamente preoccupati per la crisi economica, così come milioni di piccoli esercenti, artigiani, partite iva, che rischiano il fallimento. Di questa paura si fanno scudo i padroni e il governo per tenere aperte le aziende anche in presenza di un evidente rischio sanitario.

Questo ricatto tra lavoro e salute va spezzato, e c’è un solo modo per farlo: costringere i ricchi a pagare.

Ci dicono ogni giorno che dobbiamo rinunciare al superfluo per salvare l’essenziale? Benissimo. Per la società il superfluo sono le grandi ricchezze, il parassitismo dei ricchi.

Senza andare a scomodare i super ricchi di oltre oceano come Bezos, limitiamoci a guardare in casa nostra. Secondo le classifiche di Forbes, i miliardari in dollari residenti in Italia sono passati da 36 a 40, e il loro patrimonio tra aprile e luglio 2020 è cresciuto del 31% passando da 125,6 a 165 miliardi di dollari. Un balzo avvenuto non “nonostante” la pandemia, ma grazie ad essa. Parliamo qui di patrimoni personali, non di capitale aziendale, in mano a personcine come i Benetton, Berlusconi, Ferrero, Dolce e Gabbana, Campari, Armani, Del Vecchio, ecc.

Nessuno può negare che sono ricchezze superflue, che dovrebbero essere espropriate e messe al servizio della collettività, sacrificando il superfluo per tutelare l’essenziale, come ci si ripete tutti i giorni.

Non basta? Quest’anno lo Stato italiano pagherà circa 65 miliardi di euro in interessi sul debito pubblico. Un debito, ricordiamo, di cui solo il 6 per cento è in mano alle famiglie italiane, mentre il resto è nei portafogli di grandi investitori (banche e fondi). Bene. Data l’emergenza è pienamente giustificabile la sospensione del pagamento di questi interessi o la loro cancellazione, salvaguardando il piccolo risparmio.

Due semplici misure che metterebbero a disposizione decine di miliardi con i quali finanziare la spesa sanitaria, le assunzioni necessarie nella scuola, nei trasporti pubblici, ecc. e garantire una vera copertura economica a tutti quei lavoratori, dipendenti o autonomi, che altrimenti resterebbero senza reddito durante il fermo produttivo.

Nonostante la crisi incombente, ci sono aziende che continuano a macinare ricavi e profitti. Con i decreti di primavera, le aziende italiane hanno ricevuto qualcosa come 53 miliardi di finanziamenti diretti, che salgono a 104 con le altre forme di sostegno. Per non parlare di quelle che hanno approfittato della cassa integrazione Covid per far pagare gli stipendi allo Stato, pur continuando a lavorare. La maggior parte di loro sono perfettamente in grado di coprire alcune settimane di salario. Per quelle che, dopo effettiva verifica, dimostrassero di non esserlo, lo Stato deve intervenire direttamente nazionalizzandole per garantire la continuità produttiva e i posti di lavoro.

Proseguiamo: ci sono in Italia milioni di posti letto in ricettività alberghiere e turistiche che sono largamente inutilizzati: serve requisirne almeno 200.000 per garantire l’isolamento di quei malati asintomatici o lievi, che non necessitano un ricovero ospedaliero ma che oggi, confinati a casa, rischiano di infettare i propri familiari. Sono risorse già esistenti, che andrebbero semplicemente requisite, pagando un indennizzo equo se si tratta di aziende familiari, ma senza dare un soldo alle grandi catene alberghiere che si sono arricchite a sufficienza con le speculazioni nei nostri centri urbani.

Lo stesso discorso si applica al trasporto pubblico, come molti hanno sottolineato segnalando che esistono grandi flotte di pullman turistici immobilizzate dalla crisi che andrebbero requisite e impiegate. Altro che prevedere la riduzione del trasporto pubblico, come prevede invece il Dpcm di Conte!

Tutte queste sono misure di emergenza, che potrebbero e dovrebbero essere applicate immediatamente. Ma abbiamo ormai tutti chiaro che la pandemia non verrà sconfitta facilmente. Un vaccino è ancora di là da venire e la sua efficacia nel tempo sarà tutta da verificare, oltre ai tempi e ai costi necessari per una sua distribuzione capillare.

La difesa della salute si conduce sicuramente con le misure urgenti di precauzione, ma soprattutto mettendo il sistema sanitario e in generale i servizi pubblici (scuola, università, trasporti, edilizia pubblica, ecc.) in condizioni di gestire i momenti di maggiore pericolo.

Durante la prima ondata la speranza diffusa era che si sarebbe potuto sconfiggere il virus e ritornare alla normalità in tempi relativamente brevi. Questa speranza ha sostenuto un enorme sforzo di autodisciplina e di sacrifici e ha anche garantito un notevole sostegno sociale ai provvedimenti restrittivi del governo. Milioni di persone hanno tenuto duro guardando a un orizzonte che pareva non troppo lontano.

Oggi tutto questo è svanito. Che “andrà tutto bene” non osa ripeterlo nessuno, la speranza ha lasciato il posto alla rabbia e alla disillusione.

Visto che si fanno paragoni con una situazione di guerra, ricordiamo che la classe dirigente di questo paese è quella che storicamente ha mandato i suoi soldati a combattere in Russia con le scarpe di cartone. Entrarono in quella guerra dicendo che con “poche migliaia di morti” si sarebbero seduti al tavolo dei vincitori. Certo, oggi non piovono le bombe. Ma il cinismo, l’ipocrisia e l’avidità e l’incompetenza che guidano la borghesia italiana e i suoi galoppini politici (non importa il colore) sono rimaste esattamente le stesse.

Tra milioni di persone comuni si sta facendo strada questa consapevolezza: che chi comanda la società è disposto a tutto, a far crollare la scuola, a desertificare le nostre vite, a trattarci come carne da macello, pur di non abbandonare le sue ricchezze e il suo potere.

È un processo doloroso e pieno di contraddizioni e di ostacoli, ma chiunque abbia occhi per vedere lo percepisce.

La società va nella direzione sbagliata non per fatalità, ma perché chi ha il potere ci conduce verso l’abisso. C’è solo una strada per difendere la salute, il lavoro e il nostro futuro: quella di rovesciarli, di abbattere questo sistema marcio con una rivoluzione che metta il potere nelle mani dei lavoratori organizzati, per ricostruire la società nell’interesse della maggioranza.

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