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Il capitalismo è il vero virus – Il socialismo è la cura

Siamo nel mezzo di una pandemia globale, che ha fatto 150mila morti, due milioni di contagiati, e siamo solo all’inizio. Immaginiamo cosa potrà accadere quando questo virus si diffonderà nel subcontinente indiano, in Africa, in America Latina, dove le difese sono sicuramente inferiori.

Le immagini dell’Ecuador, con i morti che vengono bruciati nelle strade ci mostrano fino a che punto la barbarie si sta facendo strada.

Ma anche nei paesi a cosiddetto capitalismo avanzato abbiamo visto come la sistematica distruzione della sanità pubblica, che è andata avanti negli ultimi 30 anni, stia provocando la sostanziale incapacità di reazione dei governi contro questo virus.

La situazione negli Usa è particolarmente grave, la gente muore perchè non ha una assicurazione sanitaria. Oltre 40 milioni non la possiedono. E sono agghiaccianti le immagini di New York City dove centinaia di persone vengono gettate nelle fosse comuni.

C’è una gestione spietata, classista di questa crisi.

Una crisi che non è solo sanitaria, è economica, politica e sociale. Con la classe dominante che non ha risposte da offrire. Brancola letteralmente nel buio.

L’unica cosa che sanno fare è iniettare capitale fittizio nell’economia che equivale a iniettare eroina nelle vene di un tossicodipendente.

Fare debito o distribuire la ricchezza esistente?

In un contesto del genere rivendicare a gran voce politiche in deficit come fanno i riformisti di sinistra è a dir poco fuorviante. Non c’è alcuna volontà da parte dei governi di fare nuovi debiti per sostenere politiche sociali, le uniche politiche che hanno messo in conto sono quelle tese a salvare le banche e le aziende che altrimenti rischiano di fallire.

Sono particolarmente comiche le parole d’ordine avanzate in una petizione del Partito della Sinistra europea: “Usiamo il denaro della Bce per la salute e non per la finanza”.

E per quale ragione la Bce dovrebbe erogare prestiti per finanziare politiche sociali in un contesto i cui i debiti degli Stati sono arrivati a livelli mai visti nella storia e diventano sempre più insostenibili?

La Bce può allargare la massa monetaria (quantitative easing), ma i debiti restano, a meno che non si ripudino o non si mettono le mani sulle enormi ricchezze accumulate in questi anni dai grandi capitalisti. Ma non è questo che ci propongono i compagni di Rifondazione Comunista e della Sinistra europea, ma niente di meno che una “via finanziaria al socialismo”.

La proposta di accumulare nuovi debiti in un contesto capitalistico, non fa che preparare nuove e più feroci politiche di austerità, guerre valutarie e in futuro impennate inflazionistiche, che certo non sono fattori che favoriscono i settori meno abbienti nella società.

L’idea dei riformisti equivale a proporre che un capo famiglia, che si è appropriato del 99% delle entrate familiari e che vive nella ricchezza più sfrenata lasciando i parenti in povertà, contragga nuovi debiti, e usi quei soldi (non si capisce per quale ragione) per alleviare le sofferenze del nucleo familiare.

La nostra idea è che invece di contrarre nuovi debiti, al “patrigno” vengano tolte le sue ricchezze e lo si espella dal nucleo familiare, magari con un bel calcione nel deretano. Si è persino imbarazzati a dire certe cose, per quanto sono elementari.

Il problema è che certe idee si fanno strada quando si è persa ogni minima concezione di classe della società.

Politiche protezioniste

La questione non ha un’importanza secondaria perché su questa china si finirà col dare copertura politica alle misure che le borghesie europee e mondiali si apprestano ad assumere nella prossima fase. Se questo non varrà per Rifondazione Comunista è solo per la sua manifesta marginalità, ma il problema si porrà per forze come Unid@s Podemos in Spagna, e in Italia Liberi e Uguali, che sono al governo e che con questi presupposti politici si renderanno responsabili di pesanti salvataggi economici e conseguenti feroci politiche di austerità contro le classi popolari.

Il programma che è stato avanzato da Mario Draghi è precisamente questo: che gli Stati si facciano carico di tutti i debiti inesigibili, il più grande salvataggio del capitale mai concepito.

L’altra spinta ormai irresistibile è quella al protezionismo, una posizione che non sarà più solo il leit-motiv delle forze sovraniste, ma di tutta la borghesia, su scala mondiale.

Una cosa che piacerà molto anche ai dirigenti sindacali che subiscono un naturale richiamo per questo tipo di politiche.

È dunque opportuno ricordare quanto avvenne negli anni ’30, quando queste politiche si imposero su scala internazionale, citando allo scopo da un articolo di Franco Bavila, pubblicato di recente sulla nostra rivista teorica:

“Complessivamente all’inizio degli anni ’30 ben cinquanta paesi aumentarono i dazi commerciali, mentre quote di importazione o altri meccanismi di restrizione (proibizioni, sistemi di licenze, ecc.) furono imposti in trentadue paesi. Questo ebbe conseguenze devastanti sul commercio mondiale, che tra il 1929 e il 1932 subì una contrazione del 25%, il che a sua volta contribuì ad aggravare pesantemente la Grande Depressione. I più penalizzati in questa situazione furono proprio gli Usa, che avevano dato il via alla corsa verso il protezionismo: le esportazioni americane nel mondo crollarono complessivamente del 49% e la quota americana dell’export mondiale passò dal 15,6% nel 1929 al 12,4% nel 1932. Se nel 1929 le esportazioni rappresentavano il 5% del Pil americano, nel 1931 questa quota era precipitata all’1,5%.” (F. Bavila, il protezionismo ha provocato la crisi del ’29?, falcemartello n° 8).

La classe operaia pagò un prezzo pesantissimo per quelle politiche in termini di licenziamenti, bassi salari e supersfruttamento e per giunta si uscì dalla crisi solo a costo di una nuova guerra mondiale.

Comprare italiano?

Più che in ogni altro momento è decisivo oggi per il movimento operaio saper distinguere il grano dal loglio, mantenendo un’assoluta indipendenza di classe e non entrando in una logica di unità nazionale. Nei prossimi mesi a fronte di una crisi economica devastante potremmo vedere persino delle nazionalizzazioni, ma questo di per sé non deve generare alcun entusiasmo, in quanto si tratterebbe di nazionalizzazioni borghesi, che si propongono di socializzare le perdite risanando aziende che in un secondo momento verranno restituite ai privati.

Bisogna dire chiaramente e a chiare lettere, che fare politiche in deficit non è sinonimo di politiche redistributive e che il protezionismo non “protegge” i lavoratori e i settori meno abbienti della società

Quando Di Maio o Salvini ci parlano di acquistare italiano non fanno il nostro interesse, in primo luogo perché i lavoratori sono una classe internazionale, ma anche perché per mille lavoratori che lavorano in aziende italiane ce ne sono altrettanti che lavorano per aziende controllate dal capitale straniero. Su questa strada non c’è alcuna soluzione.

L’unico modo che hanno i lavoratori per proteggere se stessi e le loro famiglie è di lottare contro questo sistema creando il massimo di unità possibile con i propri compagni di lavoro a prescindere dalla loro nazionalità, colore della pelle, religione, orientamento sessuale, ecc.

La borghesia “protegge” solo se stessa e se si indebita è per tutelare le sue aziende, le sue banche, il suo sistema, a noi tocca solo il conto.

Esattamente quello che hanno fatto nel 2008-2009, con la differenza che allora ci hanno impiegato quattro mesi per prendere queste decisioni, oggi non ci hanno messo neanche quattro giorni per annunciare politiche di quantitative easing e di nuovo indebitamento degli Stati.

I dati della crisi

I dati di previsione di crescita per il 2020 sono disastrosi.

La Cina con un calo della produzione nel primo trimestre del 30%, secondo il Fmi nel 2020 non crescerà più dell’1,2%. Gli Usa potrebbero vedere un calo del Pil del 5,9%. Regno Unito -6,5%, Germania -7,0%, Spagna -8,0%, Italia -9,1%. Paesi cosiddetti emergenti come Brasile, Argentina e Messico avrebbero cali compresi tra il 5 e il 6%.

Si tratta della più grave crisi economica dagli anni ’30, come ha affermato la stessa direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva, in un contesto in cui l’economia è molto più integrata e internazionalizzata di quanto lo sia mai stata nella sua storia.

Dopo il crack del ’29 a Wall Street ci vollero 4 anni perché la crisi arrivasse in Europa. Oggi tutto avviene in modo simultaneo, dal crollo delle Borse, al crollo del prezzo del petrolio, al crollo dell’occupazione. Drammatiche le cifre americane dove in quattro settimane 22 milioni di persone hanno fatto richiesta del sussidio di disoccupazione, con un tasso di disoccupazione che schizzerebbe in un anno dal 3,7 al 10,4%). In Europa il Fmi prevede una disoccupazione in aumento dal 10 al 12,7% per l’Italia, in Portogallo il tasso raddoppierà fino al 14%, In Spagna salirà al 20,8%, in Grecia al 22,3%. Guerre commerciali sono all’ordine del giorno e non faranno che peggiorare i termini della crisi.

L’Organizzazione internazionale del lavoro paventa 200 milioni di nuovi disoccupati su scala mondiale nei prossimi tre mesi.

Alla base di questa crisi non c’è il coronavirus, che ha solo aggravato il problema, ma una gigantesca crisi di sovrapproduzione, che Marx ha descritto nel Capitale e che si sta realizzando sotto i nostri occhi.

Le misure antagonistiche al calo del saggio di profitto di cui Marx parla nel terzo volume del Capitale, sono state ampiamente utilizzate dal capitalismo. Dall’espansione del commercio mondiale (oggi in forte calo per gli effetti della crisi) a un’espansione del credito senza precedenti (con la formazione di bolle finanziarie ed immobiliari) a una intensificazione dello sfruttamento della manodopera, con l’aumento del plusvalore relativo (intensità del lavoro) e del plusvalore assoluto (allungamento dell’orario di lavoro e del numero delle giornate lavorative nel corso dell’anno). Questi strumenti hanno in gran parte esaurito la loro efficacia.

L’alternativa socialista

L’emergenza sanitaria ha evidenziato il ruolo fondamentale della classe lavoratrice, dopo decenni in cui si sono moltiplicate le posizioni sulla fine del lavoro. A metà degli anni ’90 Jeremy Rifkin scrisse un libro sull’argomento, che raccolse grandi consensi a sinistra, così come oggi trova consenso il suo libro altrettanto scorretto sul “Green New Deal”.

Da allora su scala internazionale c’è stata una proletarizzazione senza precedenti e, in molti dei paesi che una volta avremmo definito del terzo mondo, i tassi di urbanizzazione sono arrivati all’80-90%.

I lavoratori sono la classe fondamentale in questa società, l’unica che è in grado di offrire un’alternativa coerente al capitalismo. Ne abbiamo avuto prova in questi giorni quando i governi, mentre facevano appello a restare a casa, fermavano sport, fiere, turismo, aerei e treni, obbligavano la classe lavoratrice, particolarmente quella industriale, di interi settori produttivi anche non essenziali, a continuare a produrre. Questa è un’ulteriore riprova del ruolo fondamentale della classe operaia nella società capitalista.

Senza di essa il sistema si ferma perché è l’unica che con il suo lavoro, permette al capitale di fare profitti. Il capitale si valorizza infatti solo attraverso lo sfruttamento del lavoro umano e l’estrazione di plusvalore.

Ed è così che le borghesie mondiali incuranti della sicurezza dei lavoratori non hanno esitato un solo istante a sottoporli a un grave rischio sanitario pur di non perdere quei profitti. Il caso della Val Seriana, dove hanno esercitato una pressione estrema per non dichiarare la zona rossa è solo la punta dell’iceberg di una linea che ha contraddistinto le politiche del padronato in ogni angolo del pianeta.

Siamo quanto mai convinti che alla fine di questa emergenza i lavoratori presenteranno il conto a lorsignori. E si entrerà così in una nuova epoca.

Una epoca in cui possa essere messo all’ordine del giorno l’abbattimento del sistema capitalista aprendo la strada a una società non più governata dai profitti di una minoranza. Oggi con lo sviluppo scientifico e le tecnologie che abbiamo a disposizione si potrebbe ridurre significativamente l’orario di lavoro, debellare la fame nel mondo, salvare il pianeta facendolo uscire dall’emergenza climatica attraverso la pianificazione dell’economia in funzione dei bisogni della popolazione e sotto il controllo dei lavoratori.

Per reperire le risorse necessarie basta tagliare la quota che in questa società iniqua e squilibrata viene riservata alla voce profitti. È una voce che non serve.

24 aprile 2020

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