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I padroni vogliono tutto e subito

Sento nel paese un forte sentimento anti-industriale”. “Questo voler contrapporre la salute al lavoro non è mai stato nelle nostre corde”. A pronunciare queste frasi è il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, nel suo discorso di insediamento.

Dichiarazioni clamorose e, nel caso della salute e del lavoro, senza alcun pudore, dopo che numerose inchieste giornalistiche hanno rivelato che fu proprio Confindustria a imporre che non si dichiarasse la chiusura di zone come la Val Seriana, nel bergamasco. Per non parlare dello scudo penale in caso di contagio da Coronavirus. La pressione padronale è stata tale che in fretta e furia Inail ha assicurato che produrrà una circolare chiarificatrice per tutelare i diritti delle… imprese contro l’incauto lavoratore esposto al Covid-19!

Sfruttando l’emergenza sanitaria, il padronato vuole utilizzare la “fase 2” per lanciare un attacco senza quartiere ai diritti dei lavoratori.

Bonomi pretende che “il Governo agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020, da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali” (Corriere economia, 30 aprile). Si lavori la domenica e di notte, si aboliscano le ferie (che molti lavoratori sono stati costretti a utilizzare durante la quarantena), si azzeri ogni pretesa delle maestranze.

Il tutto in nome della “coesione nazionale” e dello “sforzo collettivo”. Dietro questi luoghi comuni, l’intento di padroni è chiaro: gli industriali devono avere le mani libere e a pagare la crisi devono essere i lavoratori.

Confindustria, nel contesto della nuova epoca post-Coronavirus, non si limita a trattare, ma si pone come direzione politica del padronato di fronte a un governo che considera malleabile, ma troppo lento e debole nel difendere i suoi interessi.

Le aziende seguono convintamente la linea dell’offensiva. Fca ha chiesto e ottenuto l’apertura di una linea di credito di 6,3 miliardi di euro garantiti dallo Stato, per far fronte alle difficoltà del mercato dell’auto. Allo stesso tempo però non rinuncia a ripartire ai suoi azionisti un dividendo di ben 5,5 miliardi previsto per la fusione col gruppo Peugeot. I vertici sindacali si dicono disponibili, anzi per De Palma della Fiom il prestito “sarebbe l’occasione per lo Stato di cogestirne il futuro”. Aspettiamo di vedere la famiglia Agnelli che “cogestisce” la sua parte del dividendo, circa 1,6 miliardi.

Il premio per la faccia tosta è da assegnare comunque alla famiglia Benetton, che ha minacciato di sospendere gli investimenti per 14,5 miliardi di euro senza la concessione di prestiti dallo Stato. È un vero e proprio ricatto da lestofanti incalliti: verranno sospese tutte le opere di manutenzione straordinaria, compresi i 2,9 miliardi come forma di compensazione per il crollo del Ponte Morandi.

Davanti a una simile protervia, dai vertici sindacali e dalla sinistra parlamentare non si leva nemmeno una flebile voce di protesta. Sono tutti impegnati a sostenere il governo Conte da pericolosi “agguati”, nella solita logica perdente del meno peggio.

Il decreto “rilancio”

Non fosse bastata la gestione dell’emergenza, dove in maniera sistematica l’esecutivo si è piegato ad ogni richiesta del padronato italiano, riaperture in primis, una ulteriore riprova è data dal decreto “rilancio” approvato a metà maggio.

I vincitori sono proprio gli industriali. Dallo sconto sull’Irap risparmieranno 4 miliardi, a cui si aggiungono una detrazione del 30% per gli aumenti di capitale da 5 a 50 milioni di euro, numerosi contributi a fondo perduto a seconda del fatturato e crediti d’imposta a volontà. I contributi alle imprese sono indiscriminati e andranno anche a chi nella pandemia ha fatto ingenti profitti.

Il tutto sancito dalle dichiarazioni di Patuanelli, ministro dello sviluppo economico: “Per le imprese intanto ci sono oltre 20 miliardi in questo decreto. Lo Stato deve lasciare libere le aziende di reinventarsi e crescere. Ci saranno controlli, ma adesso stop alle scartoffie.” (la Repubblica, 13 maggio).

Per i lavoratori, i disoccupati e le loro famiglie rimangono le briciole. Un reddito di emergenza tra i 400 e gli 800 euro a seconda della grandezza del nucleo familiare, e solo per due mesi, non cumulabile né con la pensione né col reddito di cittadinanza. Per i milioni di precari, partite Iva e co.co.co, viene confermato un assegno di 600 euro per il mese di aprile. Dopo, chissà… Per i lavoratori domestici lasciati a spasso, altri 500 euro per due mesi.

Sono nulla più che elemosine, con l’indicazione che una volta terminati i fondi stanziati, tutti i bonus termineranno.

Sempre se arriveranno, perché secondo il presidente dell’Inps Tridico, allo scorso 23 maggio, l’Istituto su 7,5 milioni di potenziali percettori di Cassa integrazione, aveva pagato 5 milioni di cittadini. Insomma dopo quasi tre mesi, un terzo di chi è stato costretto in Cig non ha ricevuto un euro!

Nel frattempo nessuno ha bloccato né il pagamento delle bollette né quello degli affitti, che inesorabili incombono sulla testa di milioni di famiglie.

In tale contesto non sono gratuite le dichiarazioni del ministro dell’Interno a una nota trasmissione televisiva di prima serata: “È necessario che i fondi stanziati arrivino subito. C’è il rischio che quello che è il senso di responsabilità dei cittadini si trasformi in rabbia. E dobbiamo evitarlo”.

Governo e padroni non si sono certo dimenticati delle giornate di marzo, quando con gli scioperi spontanei i lavoratori hanno bloccato le produzioni non essenziali. Temono, non a torto, che tali mobilitazioni si ripetano in autunno su scala ben maggiore.

L’Europa non ci salverà

La coperta del governo è semplicemente troppo corta per affrontare una crisi senza precedenti nella storia dell’ultimo secolo, senza voler mettere in discussione i limiti del capitalismo. Con i decreti d’emergenza promulgati da marzo ad oggi l’Italia dovrà coprire almeno 80 miliardi di debito aggiuntivo. Lo sta facendo parzialmente con l’emissione di titoli di Stato, ma questo aumenterà la spesa per gli interessi. Sta chiedendo aiuto all’Unione europea, ma tale soccorso non sarà affatto disinteressato. Lasciando da parte le resistenze dei “falchi” di Austria e Nord Europa, secondo cui ogni prestito andrà restituito, anche gli improbabili “filantropi”, Merkel e Macron prevedono che ogni sostegno “sarà basato su un chiaro impegno degli Stati membri a perseguire delle politiche economiche sane e un’ambiziosa agenda di riforme”. Tradotto: verranno imposti nuovi piani di austerità e condizioni draconiane.

Qualunque sia l’evoluzione della pandemia, che il Governo italiano ha affrontato navigando a vista, senza alcun piano serio e di largo respiro tranne quello di tutelare gli interessi del grande capitale, quello che abbiamo di fronte per i prossimi mesi è uno scenario catastrofico.

Le crisi industriali stanno esplodendo, da Arcelor Mittal a Jabil, passando per la Whirpool. Il 20% dei punti vendita della grande distribuzione non alimentare italiana è a rischio chiusura causa coronavirus. L’implosione del settore rischia di “fare perdere il posto di lavoro a un numero compreso tra 220mila e 380mila persone a seconda degli scenari” su un totale di un milione e 400mila occupati, secondo uno studio di European House-Ambrosetti.

Secondo lo stesso istituto, nel comparto bar e ristorazione ci sono circa 100mila bar e ristoranti a rischio chiusura, con un numero tra le 250 e le 300mila persone che ringrosserebbero le fila dei senza lavoro.

Si va verso una guerra sociale. Il problema è che il campo padronale si sta attrezzando, mentre i dirigenti della Cgil sono paralizzati dalla paura e dall’incapacità.

I padroni vorrebbero sicuramente un governo più forte e omogeneo di quello di Conte, ma non mancano comunque di strumenti per spingerlo nella direzione da loro voluta. Se a causa dei mal di pancia di qualche deputato grillino mancasse qualche voto sanno inoltre di poter contare sul soccorso dei vari centristi “responsabili” e di Forza Italia, che in Europa già sta votando coi partiti del governo.

I vertici del movimento operaio invece sono letteralmente terrorizzati dall’intraprendere qualunque azione che non sia quella di nascondersi dietro a Conte. Hanno subìto le straordinarie azioni di lotta spontanee del marzo scorso. Subiscono tuttora, limitandosi a dare una timida copertura, gli scioperi dell’ex-Ilva contro il disimpegno di Arcelor-Mittal o quelli della Jabil contro i licenziamenti.

Davanti a Confindustria che vuole cancellare il contratto nazionale, Landini invoca “una nuova legge sulla rappresentanza” e “una nuova contrattazione collettiva”. Davanti a Fiat e Atlantia che prendono i soldi (pubblici) e scappano, propone “la necessità di sostenere le imprese dando liquidità alle aziende”.

Davanti alle cannonate del grande capitale non si può rispondere sventolando bandiera bianca e chiedendo di dialogare.

Di fronte alla catastrofe straordinaria che stiamo vivendo, le rivendicazioni devono essere altrettanto straordinarie. Rivendichiamo un salario minimo garantito di 1400 euro al mese, il blocco del pagamento degli affitti e delle bollette, la nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori di tutte le aziende che minacciano chiusure e licenziamenti. Se le imprese sono salvate coi soldi pubblici, devono essere tolte ai padroni e gestite dai lavoratori.

Chi controlla la produzione, chi ha l’ultima parola sulle scelte per fronteggiare l’emergenza sanitaria tuttora presente? In altre parole, quale modello di società dobbiamo proporre? Solo il controllo dei lavoratori su tutti gli aspetti della vita sociale, dalla produzione alla distribuzione, sino alla salute pubblica e alla sicurezza rappresenta la sola risposta efficace alla crisi epocale che stiamo vivendo.

Ed è solo con la lotta di classe, non solo in Italia ma a livello internazionale, che si può realizzare.

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