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I marxisti e la guerra

di Franco Bavila

 

Storicamente le guerre hanno sempre rappresentato un banco di prova decisivo per le organizzazioni del movimento operaio. è infatti proprio durante le guerre che è più forte

la spinta a mettere da parte le differenze di classe in nome dell’unità nazionale, che è più forte la pressione sulla classe lavoratrice perché faccia propri gli obiettivi, gli interessi e le argomentazioni della classe dominante. Lo vediamo chiaramente anche oggi, con la propaganda martellante che ci spinge a schierarci contro la Russia, dalla parte della NATO, dell’Occidente, ecc.

E’ quindi utile riscoprire quei dirigenti rivoluzionari che sono riusciti a resistere a questa pressione, a mantenere una posizione internazionalista in mezzo ad un’orgia di nazionalismo e a difendere contro tutto e tutti una politica indipendente della classe lavoratrice.

Lenin e il disfattismo rivoluzionario

Uno degli esempi più calzanti riguarda la prima guerra mondiale. A quel tempo la classe operaia era organizzata nei partiti socialisti (la cosiddetta “socialdemocrazia”), riuniti nella Seconda Internazionale. Negli anni precedenti il conflitto, prima al Congresso di Stoccarda (1907) e poi al Congresso di Basilea (1912), la Seconda Internazionale aveva approvato risoluzioni e manifesti che stabilivano, in caso di guerra tra le principali potenze, la necessità di adottare un tattica rivoluzionaria: il compito della socialdemocrazia non era solo quello di opporsi alla guerra imperialista, ma anche di sfruttare la crisi economica e politica che inevitabilmente la guerra avrebbe provocato per abbattere il capitalismo.

Nel corso degli anni, però, i partiti socialisti si erano progressivamente istituzionalizzati e adattati al sistema capitalista. Avevano una folta rappresentanza in parlamento e nei consigli comunali, avevano costruito sindacati di massa, controllavano numerosi giornali, ecc. Portare avanti una politica apertamente rivoluzionaria in tempo di guerra comportava il rischio di perdere tutto questo e di essere messi fuori legge.

Così quando la guerra scoppiò davvero, nel 1914, i dirigenti socialdemocratici nei vari paesi, con pochissime eccezioni, votarono in parlamento a favore dei crediti di guerra, avallando politicamente il massacro fratricida di milioni di proletari in divisa nelle trincee.

Il tradimento palese dei leader socialdemocratici, che avevano adottato una linea di “social-patriottismo”, provocò un grande disorientamento nel movimento operaio. Gli esponenti socialisti contrari alla guerra, che si incontrarono nel 1915 alla Conferenza di Zimmerwald, non solo erano un’esigua minoranza, ma erano anche politicamente eterogenei e confusi. Lenin si ritrovò ad essere in minoranza non solo nel movimento socialista internazionale, ma anche alla Conferenza di Zimmerwald. Ciò nonostante portò avanti una lotta per ristabilire una linea corretta.

Dal suo punto di vista, il compito del proletariato organizzato nei vari paesi non era quello di chiedere la pace, ma di condurre una lotta rivoluzionaria contro la propria borghesia, per abbattere il capitalismo nel proprio paese; la guerra tra nazioni imperialiste doveva essere trasformata in una guerra civile in ciascuna nazione; per raggiungere questo obiettivo era necessaria una rottura totale con il social-patriottismo e la creazione di una nuova Internazionale.

Lenin condusse la sua lotta contro il social-patriottismo in maniera dura ed estrema. Il proletariato doveva spingere la lotta rivoluzionaria contro la propria borghesia fino alle estreme conseguenze, auspicando la sconfitta del proprio paese in guerra: “La classe rivoluzionaria, nella guerra reazionaria, non può non desiderare la disfatta del proprio governo, non può non vedere il legame esistente fra gli insuccessi militari del governo e la maggior facilità di abbatterlo.” Proprio per questo motivo la sua concezione divenne nota come “disfattismo rivoluzionario”.

Questa posizione venne spesso fraintesa e scambiata per una sorta di social-patriottismo al contrario, per cui si auspicava la vittoria della borghesia straniera. In realtà nella posizione di Lenin l’accento principale andava posto sull’aspetto rivoluzionario, non su quello disfattista. La sconfitta militare del proprio governo aveva importanza solo nella misura in cui favoriva l’avanzamento rivoluzionario delle masse, non certo in se stessa.

Il disfattismo rivoluzionario, peraltro, non era concepito per conquistare le masse, ma era rivolto soprattutto a circoli ristretti di attivisti e dirigenti. Il suo scopo era principalmente quello di delimitare in maniera netta il campo delle forze rivoluzionarie, di evitare la minima confusione con le diverse varianti dell’opportunismo. Per questo Lenin radicalizzò il suo discorso: era meglio esagerare un po’, piuttosto che lasciare adito a fraintendimenti sulle questioni politiche fondamentali.

Quando scoppiò la rivoluzione in Russia nel 1917 e Lenin si ritrovò a portare avanti un politica rivolta alle masse, non condusse certo una propaganda disfattista – presentando la vittoria dell’Impero tedesco come il “male minore” – ma portò avanti la parola d’ordine rivoluzionaria “tutto il potere ai soviet”, in base alla quale i lavoratori dovevano rovesciare il governo borghese, prendere tutto il potere nelle loro mani e porre fine alla guerra imperialista. La sua linea trovò piena conferma prima con la vittoriosa insurrezione dell’Ottobre 1917 e poi nel 1918, quando il governo bolscevico siglò la pace di Brest-Litovsk, che segnò l’inizio della fine della prima guerra mondiale.

 

Trotskij e la politica militare proletaria

Se la prima guerra mondiale era stata fatale alla Seconda Internazionale, la seconda guerra mondiale segnò la fine della Terza Internazionale. Quest’ultima era stata fondata nel 1919 da Lenin e Trotskij come partito della rivoluzione mondiale, ma sotto Stalin era stata trasformata in un’agenzia della politica estera di Mosca. I partiti comunisti venivano utilizzati come pedine nei giochi diplomatici del Cremlino e cambiavano linea dalla sera alla mattina in base alle alleanze momentanee siglate da Stalin con gli altri governi borghesi. Addirittura nel 1943 Stalin arrivò a sciogliere la Terza Internazionale allo scopo di rassicurare gli Alleati anglo-americani.

Il compito di portare avanti una posizione internazionalista ricadde quindi sulle spalle di Trotskij e della Quarta Internazionale, che difendevano le tradizioni dell’Ottobre e del bolscevismo contro la degenerazione stalinista. Anche in questo caso si trattava di forze minoritarie e isolate, che peraltro si ritrovarono ben presto prive del loro principale dirigente. Trotskij venne infatti assassinato nel 1940 da un sicario di Stalin e non poté seguire gli sviluppi successivi del conflitto. Tuttavia i suoi ultimi scritti tracciavano una prospettiva chiara sui compiti della Quarta Internazionale di fronte alla guerra.

Per quanto si trattasse in tutto e per tutto di una guerra imperialista, limitarsi a ribadire i principi del disfattismo rivoluzionario non era possibile in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dove i lavoratori nutrivano un odio profondo verso il nazismo ed erano ben determinati a combatterlo sul piano militare. In questo contesto le piccole forze trotskiste non potevano certo invocare la pace o tanto meno presentare la vittoria di Hitler come un “male minore”. Trotskij elaborò quindi la cosiddetta “politica militare proletaria”. In base ad essa la classe lavoratrice doveva sì partecipare alla guerra contro Hitler, ma non sotto la direzione e in base agli interessi della borghesia, bensì con i propri metodi e il proprio programma. La classe operaia doveva lottare per espropriare la borghesia, nazionalizzare l’industria bellica, prendere il potere e trasformare la guerra imperialista contro la Germania in una guerra rivoluzionaria contro il fascismo.

Spezzone del Revolutionary communist party, negli anni quaranta

La politica militare proletaria si articolava in una serie di rivendicazioni transitorie per cui, in un contesto di militarizzazione diffusa, i lavoratori dovevano prendere il controllo delle forze armate: armamento della classe operaia, elezioni degli ufficiali, addestramento militare dei lavoratori svolto sotto il controllo dei sindacati, la creazione di una milizia operaia e la formazione di comitati nell’esercito, ecc. I militanti rivoluzionari dovevano arruolarsi per svolgere un lavoro politico nelle forze armate.

Sfortunatamente queste indicazioni preziose non vennero raccolte dai dirigenti della Quarta Internazionale dopo la morte di Trotskij, che rimasero ancorati alle vecchie parole d’ordine del disfattismo rivoluzionario. Una notevole eccezione è rappresentata dal Revolutionary Communist Party in Gran Bretagna, che sotto la direzione di Ted Grant mise in pratica brillantemente la politica militare proletaria.

Le lotte di liberazione nazionale

Un capitolo a parte meritano le lotte di liberazione nazionale dei paesi coloniali, come ad esempio la lunga lotta del popolo vietnamita prima contro l’imperialismo francese e poi contro quello americano; o come la guerra di liberazione dell’Algeria contro la dominazione coloniale della Francia. Guerre di questo tipo sono ben diverse rispetto a quelle tra potenze imperialiste. Non si può mettere sullo stesso piano il nazionalismo dei paesi oppressori e quello dei paesi oppressi. Indipendentemente dal programma più o meno avanzato delle loro direzioni, ogni vittoria dei movimenti per l’indipendenza in Africa, Asia e Medio Oriente rappresentava un colpo contro l’imperialismo e un passo avanti per l’umanità.

Le condizioni per l’adesione alla Terza Internazionale, nei suoi anni rivoluzionari, prevedevano che: “Ogni partito appartenente alla III Internazionale ha il dovere di smascherare senza pietà i misfatti dei ‘suoi’ imperialisti nelle colonie, di sostenere non solo a parole ma nei fatti ogni movimento d’emancipazione nelle colonie, di alimentare tra i lavoratori del proprio paese sentimenti di fratellanza nei confronti della popolazione lavoratrice delle colonie e delle nazionalità oppresse e di sviluppare tra i soldati dell’esercito imperialista un’agitazione permanente contro l’oppressione dei popoli coloniali.”

Per quanto riguardava i comunisti all’interno dei paesi coloniali e arretrati, le tesi della Terza Internazionale stabilivano che dovessero unirsi ai movimenti di liberazione nazionale, ma mantenendo la loro piena indipendenza politica, senza accodarsi alle forze del nazionalismo borghese.

Questo patrimonio di internazionalismo proletario divenne lettera morta con l’avvento dello stalinismo. Da una parte nei paesi oppressori i partiti comunisti si piegavano ai cosiddetti “interessi nazionali”: la palma del peggiore spetta al Partito comunista francese, che non solo si oppose sempre all’indipendenza dell’Algeria, ma in certi momenti si rese addirittura complice delle politiche governative di repressione contro le popolazioni vietnamita e algerina.

Dall’altra nei paesi coloniali e semi-coloniali gli stalinisti sostenevano che le condizioni per il socialismo non fossero mature e quindi fosse necessario subordinare i partiti comunisti ai nazionalisti borghesi, in base alla teoria delle due fasi: prima una fase “democratica”, che avrebbe portato all’indipendenza nazionale, e poi, solo dopo un lungo periodo di sviluppo capitalista, si sarebbe potuto parlare della seconda fase “socialista”.

A causa di questa politica che subordinava i lavoratori alla borghesia progressista, non fu la classe operaia a guidare le lotte di liberazione. La direzione finì nelle mani di nazionalisti borghesi e piccolo-borghesi, di ufficiali dell’esercito, dei capi della guerriglia contadina, ecc. e tutto il processo assunse un carattere completamente distorto. Anche laddove il capitalismo veniva rovesciato, questo avveniva nelle forme deformate dell’Unione Sovietica stalinista.

Analisi concreta della situazione concreta

Da quanto sinteticamente esposto, emerge chiaramente che i marxisti non possono avere una posizione sulla guerra valida per tutte le stagioni. Ogni conflitto va studiato in concreto, in base al metodo marxista del materialismo dialettico, e l’unica bussola di riferimento deve essere l’indipendenza della classe lavoratrice dalla borghesia.

Tanto meno può essere adottato un atteggiamento generico contro tutte le guerre. Per quanto ogni guerra comporti inevitabilmente violenza, brutalità e sofferenza, non tutte le guerre sono uguali. Parafrasando Lenin, un conto sono le guerre tra “padroni di schiavi” che lottano tra loro per avere ancora più schiavi; e un conto è la guerra degli schiavi contro i loro padroni.

Le guerre imperialiste sono inevitabili sotto il capitalismo: le grandi aziende competono tra loro sul mercato internazionale e le grandi potenze competono per spartirsi tra loro quelle che una volta erano le colonie e oggi sono chiamate “sfere d’influenza”; questa competizione avviene sul piano diplomatico, su quello commerciale e anche su quello militare. Per ottenere un mondo senza guerre, bisogna prima abbattere il capitalismo e per farlo è necessario combattere.

A noi oggi spetta il compito di porci all’altezza dei grandi rivoluzionari del passato e di trovare, nel mezzo delle guerre della nostra epoca, i programmi, le parole d’ordine e le tattiche per collegare le idee rivoluzionarie alle larghe masse di lavoratori e giovani.

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