“Guerra totale economica e finanziaria” – Le sanzioni mandano in pezzi il mercato mondiale
Nei primi giorni del conflitto in Ucraina, gli USA e i loro alleati hanno approvato contro la Russia le sanzioni più pesanti mai impiegate dopo il 1945. Il sequestro di circa il 60% delle riserve estere della Banca centrale (circa 360 miliardi di dollari) e l’esclusione di numerose banche russe dal principale circuito di pagamenti internazionali (Swift) sono le più eclatanti. Ad esse si aggiungono divieti e limitazioni di ogni genere contro banche e aziende russe, in particolare legate al settore militare, alle alte tecnologie, ai trasporti, al settore energetico, ecc. Decine, se non centinaia, di aziende occidentali di ogni settore hanno chiuso o ridotto le proprie attività in Russia. Gli USA hanno inoltre bloccato l’importazione di petrolio russo.
Se inizialmente i media nostrani hanno dipinto una Russia sull’orlo della bancarotta, con l’assalto agli sportelli bancari, col passare delle settimane risulta chiaro che queste misure, per quanto senza precedenti, non arresteranno l’offensiva russa, né rovesceranno il governo di Putin.
La spirale si avvita
Il rublo, che aveva perso il 40% sul dollaro, ha recuperato quasi interamente. La Borsa di Mosca ha riaperto, anche se le quotazioni sono in ribasso. L’esplosione dei prezzi delle materie energetiche paradossalmente ha favorito la Russia, che incassa oggi dal proprio export più di prima della guerra.
In compenso risulta chiaro che le conseguenze si propagano a livello globale, sommandosi alle contraddizioni derivanti dalla fase precedente, in particolare all’esplosione dell’inflazione su scala internazionale.
Ma come la guerra si avvita su se stessa, assumendo sempre di più i tratti di un conflitto che viene combattuto fino alle ultime conseguenze, anche la guerra economica costituita dalle sanzioni segue una traiettoria simile. Il ministro delle finanze francese Bruno Le Maire ha parlato di una “guerra economica e finanziaria totale contro la Russia”. E l’Economist evidenzia come “il fuoco di sbarramento delle sanzioni occidentali contro la Russia ha spinto in tutto il mondo il sistema economico e politico verso territori inesplorati.” Un modo elegante per dire che i governi non hanno idea delle conseguenze delle loro azioni.
Ogni giorno emergono nuove e impreviste conseguenze delle sanzioni: dai cereali ai fertilizzanti, dalle materie prime ai trasporti, alla finanza, non c’è settore che non sia colpito.
Al sequestro delle proprie riserve estere, la Russia ha reagito imponendo ai paesi “ostili” il pagamento del gas in rubli. Nonostante le grida di scandalo di Draghi, Scholz e compagnia, all’annuncio del provvedimento il rublo è salito, a dimostrazione che i mercati ritengono che la mossa di Putin possa andare a buon fine. In tal caso probabilmente la misura verrà estesa anche ad altre esportazioni.
In effetti gli USA, procedendo in modo assolutamente arbitrario nel tentativo di affossare il rublo e le banche russe, stanno generando un effetto boomerang. È chiaro infatti che chiunque fino a ieri considerava il dollaro come valuta di riferimento e di riserva basilare, oggi sarà spinto a riconsiderare le proprie scelte. Non serve a molto una riserva che in qualsiasi momento può essere sequestrata se lo zio Sam decide di sanzionarti, e un conto era quando si colpivano la Corea del Nord, il Venezuela o l’Iran, altro è colpire l’undicesima economia mondiale e uno dei primi fornitori di materie prime a livello mondiale.
Lo stesso vale per il sistema bancario: l’esclusione dal circuito Swift colpisce le banche russe, ma colpisce anche chi ha deciso la sanzione, che perde il controllo su una parte dei flussi monetari internazionali e vede indebolita la propria credibilità.
La globalizzazione affossata
Biden si è vantato di avere costruito una coalizione antirussa che comprende “metà dell’economia mondiale”. Il che, secondo l’aritmetica, significa che l’altra metà segue linee diverse… Paesi come Cina, India, Turchia sono ben contenti di acquistare a prezzi ridotti le forniture russe respinte dall’Occidente.
Si tratta di una accelerazione vertiginosa nel processo di frantumazione del mercato mondiale e della sua riorganizzazione in blocchi che si fronteggiano con crescente ostilità. Un processo che era già emerso dopo la crisi del 2008-2009 e con le (maldestre) politiche protezioniste di Trump, ma che ora assume una scala incomparabilmente maggiore.
Lo scontro è per monopolizzare risorse, mercati, forniture e anche per imporre la propria valuta. Non è più la “libera” concorrenza in mercati prevalentemente aperti, ma la costruzione sistematica di blocchi che mirano all’autosufficienza per poter affrontare e sottomettere gli avversari.
L’egemonia mondiale del dollaro verrà messa in discussione, con la crescita di relazioni economiche che sempre più si esprimeranno in altre valute, in oro o con accordi di scambio diretti. Un quadro caotico di scontro senza esclusione di colpi.
Se nei confronti della Russia gli USA e la Gran Bretagna sembrano avere ormai assunto una linea oltranzista di “guerra fino alla vittoria”, l’Unione Europea è presa nel mezzo dello scontro. Di fatto Biden sta consapevolmente affossando l’economia europea, con l’industria tedesca e italiana a pagare il prezzo maggiore. Tutti i tentativi di ritagliarsi uno spazio indipendente e di cercare un modus vivendi con la Russia al momento sono stati annichiliti. Il massimo che la Germania riesce a fare è di opporre una resistenza passiva quando le richieste di Washington si fanno insostenibili, come è il caso della richiesta di bloccare l’import di gas russo.
Una recessione in Europa è quindi da attendersi entro il 2022.
Molto peggio sarà per i paesi più poveri, che già ora si trovano di fronte al rischio di vere e proprie carestie, default su debiti in dollari che non possono ripagare, blackout energetici. Uno scenario apocalittico che prepara rivolte di massa come quella iniziata in questi giorni in Sri Lanka.
La “globalizzazione” capitalista, già entrata in stallo dopo il 2009, inizia a disfarsi a un ritmo sempre più accelerato. Ovunque il capitale scarica sui lavoratori il prezzo della lotta per l’egemonia, tanto che parlano di razionamento, di “economia di guerra”, di autarchia (autosufficienza), dei “necessari” sacrifici per difendersi da un nemico minaccioso e difendere la “libertà”.
L’internazionalismo è oggi la prima necessità urgente per il movimento operaio, di fronte a un sistema capitalista che sprofonda nella crisi, nei conflitti e nelle guerre.
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