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Fiat 1980: le lezioni dei “35 giorni”

Il 14 ottobre 1980 si svolse a Torino  la celebre “marcia dei quarantamila”, che chiuse un ciclo di lotte, lungo oltre un decennio, della classe operaia italiana.  Proponiamo ai nostri lettori ampi estratti di un articolo pubblicato su FalceMartello 23 dell’ottobre 1988 sui 35 giorni della lotta della Fiat: riteniamo che mantenga la sua attualità sulle cause della sconfitta e sugli insegnamenti che ancora oggi possono trarre i giovani e i lavoratori di questo paese.
Sul periodo fondamentale per la storia del movimento operaio italiano che va dall’Autunno caldo alla sconfitta della Fiat del 1980, rimandiamo agli approfondimenti disponibili su questo sito.

Sono le 16,30 dell’11 settembre 1980. Alla sede torinese di Cgil-Cisl-Uil tre commessi dell’Unione industriali consegnano altrettante raccomandate a mano; sono l’annuncio da parte della Fiat di 14.496 licenziamenti.

È l’atto di apertura della vertenza sindacale più dura e determinante dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Italia. L’esito di quello scontro di classe pesa ancora in modo notevole sui rapporti di forza tra lavoratori e padronato, ancora oggi e in tutti i settori della classe lavoratrice. Per capire lo sviluppo e le conseguenze, è necessario indagare sul contesto storico dello scontro.

L’autunno caldo

Allora la classe operaia italiana usciva da un periodo di lotte acutissime lungo più di un decennio. Era un periodo preparato dalle lotte di fabbrica tra il ’65 e il ’68 ed esploso nell’autunno 1969: l’autunno caldo. Gli operai italiani avevano vissuto un ventennio di durissima repressione in fabbrica. I benefici del boom economico degli anni ’50-’60 avevano riguardato i lavoratori industriali solo in termini di maggiore occupazione, mentre il tenore di vita degli operai già occupati nell’industria era pressoché fermo da quasi vent’anni.

Con le lotte che si aprono alla fine degli anni ’60 i lavoratori italiani modificano i rapporti di forza sindacali a loro favore e si riappropriano di parte del salario loro estorto dai padroni con lo sfruttamento intensissimo degli anni precedenti.

La crisi del ’74-’75 e la svolta dell’Eur

A partire dal 1974 il quadro economico mondiale comincia a cambiare; negli anni ’74-’75 arriva la prima crisi di sovrapproduzione del capitalismo dalla fine della Seconda guerra mondiale. La domanda sul mercato si restringe, la concorrenza fra i capitalisti si fa più accanita.

In questa situazione le possibilità da parte dei capitalisti di fare concessioni ai lavoratori si riducono bruscamente. Per vincere questa guerra i padroni devono tenere bassi i costi variabili, cioè il costo del lavoro.

Così alla metà degli anni ’70 la classe lavoratrice italiana vede farsi lo scontro più duro e un’alternativa netta si profila: o rispettare le compatibilità del capitalismo e subire la controffensiva padronale oppure infrangere i limiti del sistema e quindi porsi il compito del suo abbattimento, della presa del potere e dell’instaurazione di un nuovo sistema economico-produttivo.

Purtroppo solo i lavoratori politicamente più avanzati avvertono coscientemente la portata della svolta nello scontro tra capitalisti e lavoratori. La maggioranza dei lavoratori, pur animata dalla massima combattività contro il padrone, esprime questa sua combattività con la piena fiducia nei vertici di Cgil-Cisl-Uil, del Pci e del Psi (allora all’opposizione). In quegli anni la sindacalizzazione si avvicina al 50 per cento con punte dell’80-90 per cento in alcuni settori più avanzati. Contemporaneamente le sinistre e più in particolare il Pci vedono dilatarsi il loro consenso elettorale: alle elezioni politiche del 1976 il Pci ottiene quasi il 35 per cento dei voti.

Le direzioni del sindacato e dei partiti operai hanno una completa fiducia nel futuro del capitalismo, nelle sue presunte capacità di promuovere ancora crescita economica, piena occupazione e miglioramento del tenore di vita dei lavoratori. Coerentemente a questa visione i vertici del sindacato, con l’approvazione delle direzioni di Pci e Psi, riescono ad attuare una svolta in base alla cosiddetta linea dell’Eur nel 1978. Il nocciolo della svolta è questo: i lavoratori dovranno autolimitare le loro rivendicazioni tenendo conto delle esigenze dei capitalisti italiani, alla loro necessità di fare concorrenza ai loro colleghi stranieri. Questa linea non solo è miope ma ha significato avallare una lotta a livello internazionale tra gli stessi lavoratori.

Il terrorismo

In questa situazione la combattività dei lavoratori comincia ad incrinarsi, calano le ore di sciopero e soprattutto la partecipazione attiva dei lavoratori a manifestazioni ed assemblee. Il movimento dei lavoratori è disorientato ma non ancora battuto. Se sul piano sindacale i lavoratori vedono restringersi gli sbocchi, la situazione non è migliore a livello politico; la direzione del Pci, sulla base della teoria del Compromesso storico di Berlinguer, si astiene sulla fiducia al governo monocolore Dc nel 1977 e poi entra nella maggioranza capeggiata dalla Dc nel 1978 (periodo dell’Unità nazionale). La direzione del Psi finisce per imitare quella del Pci.

I gruppetti settari dell’estrema sinistra sono completamente frastornati ed incapaci di rappresentare un’alternativa credibile. Molti dei loro dirigenti andranno in cerca di un posto di funzionario o di parlamentare nel Pci o nel Psi. La loro esigua base fra i lavoratori comincia a ritirarsi dall’attività politica; alcuni fanno la scelta disperata e criminale del terrorismo. Il terrorismo che si sviluppa in Italia alla fine degli anni ’70 è il risultato della delusione delle speranze di cambiamento dopo un decennio di lotte e dopo che le vittorie elettorali della sinistra nel 1975 e nel 1976 sono rimaste senza risultati di cambiamento.

Questa scelta avrà come effetto principale il rafforzamento di una tendenza fra la maggioranza dei lavoratori all’apatia e alla passività. Questo atteggiamento sorge dalle stesse cause che hanno originato il terrorismo e dal terrorismo ne è rafforzato; i lavoratori meno coscienti non sanno più cosa fare; da una parte intuiscono qual’è il vero nemico, cioè il padrone, dall’altra intuiscono pure che assassinare alcuni servi del padrone è solo sterile ferocia. Inoltre i padroni e i loro partiti, sul posto di lavoro e con i mass-media, cercano di far passare un’identificazione tra i terroristi e gli elementi più coscienti e determinati della classe operaia.

Marx ai cancelli di MIrafiori durante i 35 giorni

Quel che è peggio, la direzione del Pci non sa contrastare efficacemente questa identificazione. La direzione del Pci, con la sua politica di difesa dello Stato e la sua partecipazione alla maggioranza parlamentare, finisce con lo spalleggiare, di fatto, i tentativi di criminalizzazione di ogni opposizione, dentro e fuori il partito. Nelle fabbriche comincia ad instaurarsi un clima di caccia alle streghe.

Così, a questo punto, il padronato italiano ha finalmente quello che voleva: un ambiente politico sindacale che rende possibile infliggere una sconfitta decisiva a tutto il movimento dei lavoratori. Questa è la condizione irrinunciabile per avviare il processo di ristrutturazione della produzione, imposto ai capitalisti dalla nuova situazione economica internazionale.

La Fiat è già allora una holding spiccatamente internazionale. Nel 1977 più di 2 auto Fiat su 5 sono prodotte all’estero. Il settore di punta della società è sempre l’auto, che copre il 40 per cento del fatturato. Il settore automobilistico è tra i più colpiti dalla crisi di sovrapproduzione a livello mondiale; anche se tra il maggio 1979 e il maggio 1980 la domanda di autovetture in Italia tiene (più 5,6 per cento), nello stesso periodo cade globalmente a livello europeo (-5,4 per cento); le esportazioni verso gli Usa scendono addirittura del 25 per cento. Circa 100.000 auto ingombrano i piazzali della Fiat. Questa situazione colpisce la famiglia Agnelli direttamente nel portafoglio; il bilancio 1979 della Spa Fiat denuncia perdite per 128,9 miliardi, soprattutto nel settore auto.

I padroni Agnelli sono dunque, in quel momento, i capitalisti italiani più immediatamente interessati a sconfiggere il movimento dei lavoratori e ad avviare le ristrutturazioni; sono la prima linea del padronato.

Le prime scaramucce

La lotta per il contratto del 1979 rappresenta il tentativo della Fiat di saggiare la consistenza del nemico. Sulla vertenza contrattuale del 1979, infatti, l’azienda si impunta; 100 ore di sciopero non piegano la resistenza padronale. L’azienda può permetterselo (tanto gli autoparchi sono stracolmi) ed è confortata ad insistere grazie alla partecipazione agli scioperi non elevata e passiva da parte dei lavoratori.

Oltre ai fattori di carattere generale prima esposti, pesa sui lavoratori della Fiat l’atteggiamento dei vertici sindacali; le direzioni di Cgil-Cisl-Uil hanno imposto una piattaforma rivendicativa non condivisa dalla maggioranza delle assemblee di fabbrica. Ad appesantire l’atmosfera di pessimismo fra i lavoratori e a rendere più arrogante il padronato contribuisce anche la sconfitta elettorale del Pci nel giugno 1979, la prima dal 1948; per la direzione del Pci sono i primi frutti amari della politica dell’Unità nazionale.

Quando l’azienda porta lo scontro più a fondo e decide la messa in libertà di migliaia di operai, la risposta della direzione dell’Flm (sindacato metalmeccanici) è demoralizzante per i lavoratori: continuare gli scioperi articolati, ma cercando di garantire scorte di materiale in tutte le sezioni! In altre parole scioperare cercando di minimizzare i danni recati alla controparte. Molti delegati cominciano a ribellarsi all’indirizzo che viene dai vertici sindacali.

Allo stabilimento di Lingotto, dove è maggiore la concentrazione di giovani neo-assunti, per primi franano gli argini della mediazione sindacale; gruppi di centinaia di operai si riversano per la città di Torino, improvvisando blocchi stradali e occupazioni simboliche della Rai, de La Stampa e della stazione ferroviaria. A Lingotto la produzione è bloccata a oltranza. Dopo sette giorni i vertici sindacali firmano un accordo con i padroni dell’azienda che lascia ai lavoratori molto amaro in bocca: varie conquiste del 1969 vengono rinnegate.

Con la vertenza contrattuale conclusasi nel luglio del 1979 gli Agnelli e i loro galoppini hanno riportato una vittoria solo parziale, ma hanno saputo molto sulla consistenza dell’avversario: la direzione sindacale è più disposta a mediare che a lottare, mentre la combattività dei lavoratori, sotto la rassegnazione apparente, può riaccendersi rapidamente.

I 61 licenziamenti

Da questo punto di vista va interpretata la decisione, nel novembre del 1979, di licenziare 61 lavoratori, tra quelli che più si erano distinti per combattività a luglio; i 61 vengono licenziati con motivazioni generiche, ma facendo filtrare sottobanco l’idea di un possibile loro collegamento con il terrorismo.

L’operazione ha pieno successo. La stessa direzione del sindacato, nel propagandare lo sciopero, pone l’accento sulla lotta contro il terrorismo anziché contro il padronato e i licenziamenti. Lo sciopero fallisce. Subito la segreteria confederale convoca un’assemblea al Palasport con gli operai Fiat. Qui le preoccupazioni dei delegati di base per la violenza dei provvedimenti Fiat e per la mancata risposta operaia vengono ignorate. Alla richiesta di intensificare la lotta sindacale, la segreteria di Cigl-Cisl-Uil risponde che il nemico sono il terrorismo e la violenza, facendo una condanna generica e astratta che almeno implicitamente coinvolge i picchetti e lo sciopero stesso.

La diffidenza tra operai e vertici sindacali si approfondisce. All’inizio del 1980 gli iscritti al sindacato alla Fiat scendono al 25 per cento circa. Ad incoraggiare di fatto il distacco dalla base da parte dei vertici sindacali, concorrono anche membri della direzione del Pci come Giorgio Amendola. Amendola, in un suo discorso divenuto famoso in quel periodo, richiama i dirigenti sindacali all’applicazione della “linea dell’Eur” e condanna quelli che gli operai hanno sempre considerato come una loro conquista: i Consigli di Fabbrica. Amendola critica il “sindacato dei Consigli” e ne chiede il superamento. Il terreno per l’attacco decisivo da parte della Fiat è ormai pronto. Ai primi del maggio 1980 l’azienda torinese mette in cassa integrazione 78.000 operai per sette venerdì consecutivi; la direzione sindacale reagisce solo verbalmente. Il primo luglio Umberto Agnelli, allora amministratore delegato, davanti all’assemblea degli azionisti ribadisce il proposito di licenziare 15.000 lavoratori.

Lo scontro dei 35 giorni

Primo settembre 1980, lunedì: la Fiat riapre i cancelli dopo le ferie, ma torna al lavoro solo metà dei dipendenti; gli altri rimangono in cassa integrazione per due giorni. Il vertice sindacale sta a guardare e la paura per il posto avanza tra i lavoratori.

8 settembre, lunedì: riprende il negoziato tra Fiat e sindacato. La direzione Fiat insiste per 12-15.000 licenziamenti e 24.000 da cassa integrare a zero ore e senza rotazione, il giorno successivo l’annuncio formale dei licenziamenti. La direzione del sindacato indice 3 ore di sciopero nel gruppo Fiat a partire dalle otto del giorno successivo.

11 settembre, giovedì: lo sciopero parte subito alle sei in quasi tutti i reparti del gruppo. Rivalta è bloccata e la Lancia di Chivasso è bloccata con i cancelli presidiati. Da Mirafiori e dal Lingotto escono cortei enormi; in testa al corteo di Mirafiori il ritratto di Karl Marx.

12 settembre, venerdì: la produzione è bloccata in tutti gli stabilimenti.

15 settembre, lunedì: la direzione dell’Flm accetta di parlare di “mobilità esterna”, cioè, più semplicemente, di licenziamenti. Mentre i lavoratori si preparano a moltiplicare l’intensità della lotta, c’è già chi, nella direzione del sindacato, comincia a trattare la resa.

17 settembre, mercoledì: sciopero provinciale dei metalmeccanici; manifestazioni imponenti; in testa alle mobilitazioni, oltre ai Consiglio di fabbrica (Cdf) i giovani e le donne recentemente assunti.

25 settembre, giovedì: sciopero generale dei metalmeccanici e sciopero generale del Piemonte. I lavoratori chiedono lo sciopero generale nazionale di 8 ore. Uno degli slogan più diffusi è: “Danzica, Stettino, lo stesso sarà a Torino!”. Quando la manifestazione si chiude, migliaia di lavoratori e studenti da varie parti d’Italia devono ancora entrare in piazza San Carlo. Su pressione della base, le segreterie sindacali accettano che si passi all’occupazione qualora non vengano ritirati i licenziamenti. La risposta dei lavoratori sta superando le previsioni della Fiat, che lo stesso giorno invia a tutti i dipendenti una lettera in cui spiega perché il sindacato avrebbe torto.

26 settembre, venerdì: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, visita gli stabilimenti e parla a migliaia di lavoratori. Alla sera si tiene una grande manifestazione del Pci; Berlinguer esprime il pieno appoggio del Pci per sconfiggere la posizione del padronato Fiat. L’entusiasmo dei lavoratori è all’apice. Sette anni più tardi, alla trasmissione televisiva Mixer, un protagonista di quei giorni dichiarerà: “Ci rendevamo conto che sul piano strettamente sindacale non c’era sbocco. L’unica possibilità era una svolta politica generale, un governo delle sinistre che desse il potere ai lavoratori e lo togliesse agli Agnelli”. Per tutti gli operai è chiaro che solo il Pci può guidare questo cambiamento.

27 settembre, sabato: cade il governo Cossiga. La direzione della Fiat, “per spirito di responsabilità” rinvia i licenziamenti sino a fine anno, ma conferma la decisione di cassaintegrare migliaia di lavoratori (senza più specificare quanti) in tempi rapidi. I padroni sono spaventati dalla decisione dei lavoratori e fanno una ritirata tattica. Qui invece la direzione del movimento dei lavoratori denuncia tutti i suoi limiti; mentre la direzione del Psi è ormai al governo, le direzioni nazionali del sindacato e del Pci non sembrano cercare la vittoria, bensì una mediazione. Come il padrone si ritira, cominciano a far ritirare anche i lavoratori. Infatti, in questa nuova situazione, le direzioni di Cgil-Cisl-Uil si affrettano a revocare lo sciopero generale. La direzione del Pci, dal canto suo, esce con un manifesto che titola: “Vittoria operaia; caduto il governo; ritirati i licenziamenti”.

29 settembre, lunedì: in tutti gli stabilimenti del gruppo le assemblee decidono la continuazione della mobilitazione, ma serpeggia l’incertezza e il disorientamento. I vertici sindacali hanno ripreso le trattative con la Fiat a Roma in presenza del ministro del Lavoro, Foschi.

30 settembre, martedì: il padronato coglie la palla al balzo e, insieme alla busta paga, consegna ad oltre 23.000 lavoratori la lettera che annuncia la cassa integrazione a zero ore per tre mesi. La cassa integrazione colpisce i delegati Flm, i lavoratori più combattivi, i giovani e le donne. Poi ci sono gli invalidi e gli handicappati. È un provvedimento antisindacale che tenta di dividere i lavoratori; si fa sapere chi è direttamente nel mirino del padronato e chi invece no.

Il consiglione di Mirafiori che riunisce i delegati di tutti gli stabilimenti decreta il blocco dei cancelli e delle merci e chiede lo sciopero generale nazionale.

Primo ottobre, mercoledì: si fanno le assemblee, il dibattito fa prevalere la combattività sulle perplessità e i timori che cominciavano a manifestarsi. Si organizzano ufficialmente i presidii ai cancelli.

La Fiat avvia una campagna pubblicitaria sulla vertenza con intere pagine a pagamento sui giornali. La Fiat sostiene che i cassa integrati non sono destinati a perdere il posto.

2 ottobre, giovedì: alla porta 5 di Mirafiori viene dipinto su di un grande drappo rosso il ritratto di Marx. In pochi giorni il ritratto di Marx compare ai presidii di tutti gli stabilimenti del gruppo.

3 ottobre, venerdì: continuano i presidii, molto nutriti anche di notte. Arrivano telegrammi di solidarietà dei lavoratori della Volvo, della Seat, dei lavoratori polacchi e cileni.

La Fiat ritira i dirigenti da Rivalta e Cassino. I lavoratori della Fiat di Bruxelles e Waterloo bloccano l’invio a Torino di 2.300 vetture. Continua il blocco delle merci a Desio in Lombardia. Davanti ai cancelli partecipano al blocco delegazioni dei Cdf di varie parti d’Italia.

5 ottobre, domenica: Lama, Carniti e Benvenuto si incontrano con Romiti a Roma alla presenza del ministro Foschi. Il ministro autorizza la cassa integrazione per un mese a partire da lunedì.

Alla sera Annibaldi, portavoce della Fiat, minaccia rappresaglie per chi, non autorizzato, entrerà in fabbrica.

6 ottobre, lunedì: ai presidii arrivano migliaia di lavoratori, c’è tensione. Iniziano le assemblee alle porte, si invitano i lavoratori ad entrare senza timbrare i cartellini. Gli operai entrano in fabbrica senza timbrare. Un altro tentativo del padronato per dividere i lavoratori non è riuscito. Quella mattina si tiene a Mirafiori la più numerosa manifestazione operaia nella storia della Fiat.

7 ottobre, martedì: i presidii proseguono con alta presenza di lavoratori. La Fiat comincia l’opera di aggregazione e pressione sui capi, si parla di lettere inviate direttamente alle case dei singoli capi. Il padrone ha trovato un punto debole nello schieramento dei lavoratori. Un comunicato di un sedicente Coordinamento quadri intermedi, capeggiato dal repubblicano Arisio, denuncia una situazione di violenza a causa dei presidii.

9 ottobre, giovedì: alcune persone in due automobili cercano di sfondare i cancelli di Mirafiori. Tra loro sono riconosciuti noti picchiatori fascisti. Alcuni feriti fra gli operai. A Chivasso i carbinieri stazionano davanti ai cancelli per consentire l’entrata dei dirigenti, che peraltro nessuno ostacola. A Rivalta nel pomeriggio sfila un corteo di capi e impiegati.

12 ottobre, domenica: la Fiat sparge la voce, tramite la stampa “indipendente”, che alcune 127 sarebbero state prodotte a Mirafiori.

Un’immagine della “marcia dei quarantamila”

14 ottobre, martedì: al Teatro Nuovo si raduna la destra di Torino attorno al Coordinamento quadri intermedi. Parte un corteo che si ingrossa lungo la strada per la partecipazione di molti negozianti (lo sciopero ha fatto calare le vendite). La Tv alla sera parla di 20.000 persone in corteo. Sulla stampa “indipendente” i partecipanti nel giro di due giorni diventano 30-35.000. Passerà alla storia come il corteo dei 40.000.

Gli operai sono pronti ad un’immediata contromanifestazione. Ma dai vertici sindacali arriva solo il silenzio; si parla anche di un vero e proprio veto. Il governo ingiunge alla procura di Torino la rimozione dei presidii. Nella notte arrivano foltissime delegazioni, in massa quella milanese.

15 ottobre, mercoledì: i carabinieri davanti ai presidii sono riluttanti ad intervenire. Centinaia di capi e impiegati cercano di entrare, ma i presidii, affollatissimi, tengono. Il vertice sindacale, a Roma, cede. La sostanza dell’accordo è questa: rimane la cassa integrazione a zero ore per i 23.000 senza rotazione. I delegati riuniti al cinema Smeraldo respingono l’ipotesi d’accordo.

16 ottobre, giovedì: si tengono le assemblee con l’intervento diretto dei vertici nazionali del sindacato. L’accordo non piace praticamente a nessuno tra gli operai. Ma gli operai si sentono traditi dai dirigenti e abbandonati al loro destino. La paura per il posto si ridesta. C’è la sensazione che ormai sia tutto deciso e che ogni resistenza sia inutile. Carniti e Benvenuto vengono malmenati dagli operai. Le assemblee, pur con la partecipazione dei crumiri (capi e impiegati) hanno un esito incerto; la direzione di Cgil-Cisl-Uil decide che “nell’insieme si registra una maggioranza favorevole all’accordo”.

In proposito il 18 ottobre, il Cdf della Fiat Lingotto diffonde un documento sull’accordo molto esplicito. Ne riportiamo alcuni passi: “Sull’accordo Fiat… il giudizio è estremamente negativo sia per quanto riguarda il metodo e sia per quanto riguarda il merito. In particolare sulla mancata rotazione della cassa integrazione e sulla mobilità esterna… La scelta del non confronto con i consigli, arrivando all’accusa di non rappresentatività, degli stessi, la scelta di andare direttamente alle assemblee dei lavoratori, strumentalizzandole, rappresenta la chiara volontà di accantonare il sindacato del controllo operaio in fabbrica…

“La conclusione di questo accordo è legata più ad orientamenti politici derivanti dall’impostazione seguita dalla federazione Cgil-Cisl-Uil, che a reali rapporti di forza esistenti in fabbrica: infatti la scelta politica che la maggioranza del gruppo dirigente sindacale ha fatto è quella di voler cambiare la natura di questo sindacato. In sostanza l’attuale gruppo dirigente del sindacato ha di fatto accettato che per uscire dalla crisi si deve privilegiare la competitività del prodotto basata sull’aumento dello sfruttamento dei lavoratori. La stessa causerà un restringimento della base produttiva creando una polmonatura di manodopera da utilizzare nei momenti di oscillazione del mercato…” (approvato all’unanimità).

Conclusioni

Nelle settimane seguenti, le direzioni del sindacato, del Pci e del Psi tentano di far passare l’accordo dell’ottobre ’80 con la Fiat per una vittoria della classe operaia. L’anno successivo i dipendenti Fiat sono 27.300 in meno, nel 1985 36.000 in meno. Il Lingotto è chiuso e trasformato in mostra della Fiat; dei 23.000 cassaintegrati più nessuno è occupato alla Fiat. Nel frattempo i profitti della Fiat sono cresciuti del 595 per cento nonostante il leggero calo della produzione.

L’ambiente negli stabilimenti Fiat dopo l’accordo è quello di una resa totale da parte della classe lavoratrice alla repressione padronale; gli spostamenti dei delegati sono limitati; è vietata la diffusione di giornali e materiale sindacale; è proibito agli operai riunirsi in più di 3, anche durante le pause. Gli scioperi indetti alla Fiat di Torino saranno fino ad oggi un fallimento. La sconfitta dell’80 alla Fiat è una tappa negativa per tutto il movimento dei lavoratori italiani.

Dall’80 all’88 i disoccupati sono quasi raddoppiati, mentre nello stesso periodo il Pil italiano è cresciuto del 16 per cento e i profitti delle società quotate in Borsa sono aumentati dell’800 per cento. Grosso modo quello che è passato alla Fiat è passato in tutti i luoghi di lavoro in Italia. Con una differenza rispetto a Torino: in genere i lavoratori sono stati indotti alla resa senza combattere. I vertici sindacali hanno usato la sconfitta alla Fiat come scusa per accettare sconfitte praticamente senza sciopero ad ogni vertenza.

Nel 1980 gli Agnelli hanno giocato bene la loro battaglia. Di fronte avevano un esercito determinato e pronto a battersi; gli operai torinesi in quei 35 giorni lo hanno ampiamente dimostrato. Purtroppo per i lavoratori, il loro quartier generale, cioè le direzioni sindacale, del Pci e del Psi, era fin dall’inizio pronto alla resa. Oggi, a distanza di otto anni, alla Fiat, e per il movimento dei lavoratori in genere, il problema è sempre quello: la direzione sindacale appare sempre più incapace di guidare le lotte dei lavoratori. Addirittura con l’accordo separato alla Fiat i vertici di Cisl e Uil si sono apertamente schierati con il nemico.

La questione fondamentale che il movimento dei lavoratori italiani dovrà risolvere nei prossimi anni è quella della sua direzione. Occorre una sinistra sindacale che si batta per un completo ricambio nei vertici sindacali, sulla base di un programma di rivendicazioni con al centro la riduzione dell’orario a parità di salario per risolvere il problema della disoccupazione. Un programma così impostato sarebbe in contrasto con i limiti di questo sistema economico. Solo se il Pci si metterà coscientemente sulla strada della trasformazione socialista della società, sarà possibile che le lotte dei prossimi anni approdino a conquiste durature.

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