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Elezioni amministrative – Una stabilità dalle fragili basi

Il primo turno delle elezioni amministrative (3-4 ottobre) ha visto come primo vincitore un astensionismo record, con l’affluenza ferma al 54,7% e punte minime ben al di sotto della metà dell’elettorato a Milano (47,6), Torino (48,06), Roma (48,83). Il calo in genere è di 7-8 punti rispetto al 2016, nonostante allora si votasse solo di domenica, e riguarda sia le città dove il risultato era già scontato che quelle come Roma o Torino dove teoricamente la competizione era più accesa.

La convinzione che non fosse in gioco alcuna possibilità di reale cambiamento, sia locale che nazionale, è stata diffusa e aveva già segnato una campagna elettorale anonima come poche altre.

La sconfitta della Lega

La Lega ha sbattuto malamente sulle contraddizioni accumulate negli ultimi due anni, anche se va tenuto conto che il voto delle grandi città in genere non le è favorevole. Con l’entrata nella maggioranza di Draghi, infatti,
Salvini si è ritrovato a tenere i piedi in due scarpe trasmettendo l’immagine di un cane che abbaia molto, ma morde sempre meno. L’elettorato più polarizzato a destra ha quindi trovato un riferimento più credibile in Giorgia Meloni, mentre un’altra parte ha disertato le urne. L’idea di un partito nazionale capace di egemonia anche nel Mezzogiorno è svanita e anzi Fratelli d’Italia si dimostra per Salvini un concorrente temibile anche in molte zone del Nord.

Al di là dei tatticismi elettorali va rilevato come l’arma delle campagne razziste, repressive, bigotte, ecc. appare oggi scarica. Questo non significa che il razzismo sia scomparso dalla società italiana, ma dimostra i limiti di questa demagogia, che non è sufficiente a creare un blocco di governo reazionario, con buona pace dei piagnistei dei militanti di sinistra che ad ogni oscillazione elettorale a destra gridano al fascismo alle porte.

La vittoria del Pd risucchia M5S e sinistra

Il centrosinistra si afferma nettamente ed è probabile che si aggiudichi i ballottaggi di Roma e Torino. A Bologna e Napoli il M5S era già parte della coalizione, mentre a Roma, Milano e Torino ha corso per conto proprio. Politicamente tuttavia l’esito è stato lo stesso. Se con la nascita del governo Conte bis e, soprattutto, del governo Draghi il M5S aveva già nei fatti perso la propria autonomia politica di “terzo polo” sullo scenario parlamentare, questo dato politico è ora certificato dal risultato nelle urne.

Il futuro è nell’alleanza organica col Pd e i malcontenti (Raggi) poco potranno fare. Ci potranno essere nuove scissioni a destra dal M5S, ma il 2,9% raccolto a Milano da Paragone, non è certo un precedente attraente.

Discorso analogo per le forze della sinistra riformista, la cui esistenza autonoma dal Pd era già una formalità e che ora verranno risucchiate sempre più nella sua orbita. Questo si applica anche alle liste civiche di sinistra, a prescindere dalla collocazione a volte esterna, a volte interna alle coalizioni del primo turno, ma che già in vista dei ballottaggi si stanno precipitando a intavolare rapporti col centrosinistra.

Con la scontata collaborazione del gruppo dirigente della Cgil e una collaborazione più organica con ampi settori del M5S, si struttura ulteriormente quindi una sinistra riformista, che si propone come unico possibile interlocutore per le istanze della classe lavoratrice. Naturalmente all’insegna di una semplice pressione istituzionale e del rispetto delle compatibilità dettate dalla classe dominante.

Al di fuori del centrosinistra restano i frammenti di varie liste che si sono tenute distanti dalle coalizioni, ma che solo in pochi casi (Napoli e Bologna con Potere al popolo) raccolgono un risultato non puramente residuale.

Nessuna costruzione di una sinistra di classe si presenta quindi praticabile oggi sul terreno elettorale, a conferma di quanto già misurato nelle elezioni politiche del 2018.

Effetti a medio termine

Per il governo Draghi e per la borghesia si tratta di un consolidamento politico, che ora potrebbero tentare di estendere anche sul piano sociale. La proposta di un nuovo patto concertativo avanzata da Draghi a Confindustria e sindacati, con riferimento ai precedenti degli anni ’90 (governo Ciampi e avvio della concertazione) già prima del voto, testimonia questa strategia.

Rimane per la borghesia italiana aperto il problema di medio termine: il centrosinistra è al momento l’unica certezza in tema di future coalizioni di governo, ma la sua necessaria collaborazione con le burocrazie sindacali, pur benvenuta per il padronato, viene considerata comunque onerosa e soprattutto non se ne vuole dipendere senza avere alternative. Inoltre da 15 anni non riesce a conquistare una maggioranza elettorale. La destra, elettoralmente ancora forte, è più che mai divisa e priva di una leadership indiscussa; la borghesia continuerà quindi nella sua opera “educativa” nei confronti tanto di Salvini come di Meloni, alternando aperture e scappellotti (anche giudiziari) per chiarire che una destra è sì necessaria, ma che non può trastullarsi con il sovranismo, le campagne no vax, ecc. Essendo Giorgia Meloni un pizzico più intelligente e lungimirante di Salvini, capisce che agitare la consueta demagogia reazionaria è sufficiente a conquistare, dall’opposizione, il primato nel campo della destra, ma non necessariamente il governo del Paese.

Questi limiti politici dei due poli principali, uniti al risultato positivo della candidatura Calenda a Roma al protagonismo dello stesso Draghi, crea un terreno per nuovi tentativi di costruire una forza politica di centro capace di ancorare le future soluzioni di governo. Una strada che probabilmente la borghesia più lungimirante cercherà di imboccare, ma che è piena di ostacoli, compresa l’attuale legge elettorale (oltre ai precedenti fallimentari, come la lista di Mario Monti nel 2013).

Uno scenario che sul piano istituzionale tende quindi a consolidarsi, ma che cozza con il processo reale in corso nella società: la convergenza verso il centro viene prospettata proprio mentre la polarizzazione di classe si spalanca sempre di più. Da ogni parte (occupazione, salari, precarietà, situazione sanitaria, scuola e università…), ogni giorno emergono nuovi problemi esplosivi che renderanno impraticabile qualsiasi tentativo duraturo di conciliazione di classe e ne determineranno la crisi.

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