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Donne, madri e lavoratrici: indietro non si torna! 

In vista del convegno “Libere di lottare!” del 6-7 marzo, cominciamo la pubblicazione di una serie di articoli sulla condizione femminile a cominciare da cosa voglia dire oggi in Italia essere madri e lavoratrici. Per partecipare al convegno registrati qui.

Esistono miriadi di direttive, leggi, convenzioni, carte e trattati, ad ogni livello istituzionale, in nome della difesa dei diritti delle lavoratrici, della maternità, delle donne in generale. A tratti verrebbe da pensare che finalmente si sono accorti di noi e che siamo in una botte di ferro! Peccato però che andando nel concreto ci si accorge che montagne di organizzazioni, associazioni, gruppi politici e sindacali da decenni partoriscono soltanto dei topolini, in termini di reali soluzioni al problema. Cosicché la quotidianità di milioni di donne e lavoratrici, specie se madri, maledettamente dura e concreta, si scontra con l’assenza di proposte altrettanto concrete ed adeguate da parte di tutti quei paladini che solo retoricamente si ergono in loro difesa.

La liberazione dall’oppressione la possono ottenere solo le stesse donne sfruttate, vessate e sottomesse dal meschino interesse del capitale! Le soluzioni si possono trovare solo se si pone questo problema da un punto di vista di classe e lo si inserisce in una compagine più ampia di lotta contro un sistema che, pur di macinare profitti, calpesta la vita e la dignità di ogni essere vivente sul pianeta.

Nel ciclo produttivo la donna è altamente ricattabile proprio per il suo ruolo di generatrice di vita. La fase di gestazione e la cura dei bambini, almeno fino alla fanciullezza, pongono la donna sotto una pressione psicologica enorme, dove subentra un’altra priorità: la tutela psicofisica della prole. Questa delicata fase, nella stragrande maggioranza dei casi, pone la lavoratrice incinta o neo mamma in una condizione di fragilità, facile preda dei peggiori attacchi da parte dei padroni, fino ad indurla spesso alle dimissioni.

 

Maternità o lavoro, una scelta imposta dal capitalismo

Un lavoratore che non può rendere al 100% in termini di disponibilità e flessibilità, o che addirittura osa chiedere di conciliare la propria vita familiare col lavoro, come la maternità obbliga, viene visto dai padroni come una risorsa a perdere. La situazione tipica del “mobbing da maternità” è quella in cui la lavoratrice inizia a veder gradualmente scemare la sua professionalità per via di mansioni sempre più marginali che le vengono affidate. Oppure accade di frequente anche che, rientrando dalla maternità, quel lavoro che svolgeva prima non lo ritrovi affatto.

La legge, si dice, è dalla parte della donna, cioè non si può mandare via una dipendente incinta o appena rientrata dalla maternità. Per questo motivo le aziende, quando le lavoratrici non accettano magari piccole somme pur di dimettersi, attuano un vero e proprio protocollo di attacchi psicologici che vanno dal demansionamento, all’isolamento o al trasferimento in altre località. Sempre che non si riesca a dimostrare che si licenzia “per via della crisi”, cosa molto diffusa nelle piccole e piccolissime imprese.

Un’interessante inchiesta del 2015 dell’Espresso, dall’inequivocabile titolo “Il mobbing per maternità colpisce mezzo milione di lavoratrici ogni anno. Vessazioni, ordinarie ingiustizie, discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende. Ecco cosa succede alle lavoratrici da poco diventate madri, considerate dalle aziende “meno produttive””, evidenzia un aumento dei casi di “mobbing da maternità” del 30% dal 2010 al 2015 (gli anni peggiori della crisi economica del 2008) fornendo, a testimonianza, dei racconti agghiaccianti di lavoratrici che, pur di non essere penalizzate dal proprio superiore, nascondevano la gravidanza mettendo a rischio la stessa salute del nascituro; donne che, nonostante gravidanze a rischio, non restavano a casa, come da prescrizioni mediche; o chi, rinunciando anche al congedo obbligatorio, si ritrovava ugualmente demansionata e isolata dopo la nascita del figlio. Tra il 2013 ed il 2015, 800mila donne sono state licenziate o costrette a dimettersi e circa 350mila han subito discriminazioni dopo la maternità.

Fonte: Corriere della Sera

Secondo l’Osservatorio Nazionale Mobbing, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto del “mobbing post partum”, con percentuali più alte nel Sud Italia rispetto al Nord, ma con dati allarmanti nei grossi centri urbani, Milano in testa, dove è maggiormente concentrata la forza lavoro. L’Ispettorato nazionale del Lavoro, inoltre, dichiara che 37mila donne neo-mamme nel 2019 hanno lasciato il lavoro nel primo anno di vita del bambino, il 73% sul totale delle dimissioni volontarie.

Ancora, da un’indagine su un campione di dati INPS sui lavoratori dipendenti del settore privato tra il 1985 e il 2016, si stima non solo che la maternità costituisca uno “shock” professionale, ma che questo sia anche di lungo periodo: “A quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli che avevano pari retribuzioni nel periodo antecedente la nascita […] e la percentuale di donne con figli con contratti part time è quasi tripla rispetto a quella delle donne senza figli. Gli effetti della maternità sono pertanto evidenti e si manifestano non solo nel breve periodo, ma persistono anche a diversi anni di distanza dalla nascita del figlio. Uno “shock” da cui le donne non si riprendono”.

Spesso, ci si dice, bisogna denunciare, ma la verità è che la via legale è tortuosa, oltre che richiedere risorse fisiche ed economiche importanti per poterla portare fino in fondo. Secondo il Centro Donna della Cgil milanese solo un 10% circa di chi si rivolge a loro lo fa per aprire una vertenza. Per dimostrare il “mobbing da maternità” occorre fornire prove certe e questa certezza la si ha solo nei casi limite, che rappresentano il 3-4% del totale delle denunce. Pertanto, 9 volte su 10 lo sportello finisce per fornire per lo più informazioni su come conciliare vita familiare e lavoro (flessibilità orario di ingresso, avvicinamento a casa, ecc.).

Crisi economica e sanitaria. l’esercito rosa di riserva

La crisi economica, accentuata da quella sanitaria, sta avendo effetti devastanti in primo luogo su donne e giovani. L’ultimo Rapporto Caritas conferma che è in aumento la percentuale di donne che ha chiesto aiuto da maggio a settembre, arrivando a quota 54,4% contro il 50,5% del 2019.

Fonte: Corriere della Sera

Se in tutti i Paesi il virus ha colpito di più la popolazione maschile in termini di mortalità, in Italia i dati sui contagi fra le donne adulte (tra i 20 ed i 50 anni), risultano di circa 10 punti superiori rispetto agli uomini. Questo perché in molti dei settori “essenziali” (sanità, servizi sociali, vendita al dettaglio, attività di pulizia) due terzi del personale è composto da donne.

Di contro, in tutto il mondo, l’incidenza della disoccupazione, della sospensione dal lavoro e delle riduzioni di reddito è stata più alta per le lavoratrici. Anche qui, le donne sono più presenti nei settori “non essenziali” che ora affrontano una contrazione drammatica: turismo, ristorazione e in generale i servizi (dove l’84% della forza lavoro è femminile). Le donne si sono dunque trovate strette in una tenaglia: nei settori essenziali hanno subito più degli uomini le conseguenze del contagio; nei settori fermati dal lockdown sono state più esposte al rischio di penalizzazioni retributive, se non di licenziamento. Il tasso di occupazione femminile al 48,4% è di fatto tornato indietro di 10 anni in un anno solo!

A tutto questo, purtroppo, si somma il peggior dato per le donne rispetto alle relazioni personali durante il lockdown. Da una parte la convivenza forzata ha aumentato i casi di violenza domestica, dall’altra la chiusura delle scuole ha praticamente imposto sulle spalle delle donne l’onere dell’istruzione dei figli. Tuttora moltissime lavoratrici sono costrette a dimenarsi tra lavoro professionale e familiare in condizioni di disagio, in spazi ristretti e magari dovendo dividere lo stesso PC tra smart working e DAD.

In questi giorni il Governo ha definito la destinazione del Recovery Plan e dopo tanto dibattere su come incentivare il lavoro femminile, ha definito la praticamente unica misura a sostegno di esso, ovvero il potenziamento degli asili nido. Nulla si dice se saranno asili pubblici o privati e soprattutto quanto costerà accedervi. Prima dell’emergenza sanitaria di fatto già esistevano una miriade di nidi, micro nidi e baby parking privati. Il grosso problema però erano e sono gli elevatissimi costi: per una famiglia dove lavorano entrambi i genitori le rette mensili toccano cifre che costringono il genitore che guadagna meno, ossia spesso le donne (in Italia il reddito medio delle donne è il 59,6% di quello degli uomini a livello complessivo), a rinunciare al lavoro, magari sottopagato e precario, piuttosto che destinare quasi l’intero stipendio al nido o alla babysitter.

Donne verso la liberazione

Non pecchiamo di finto ottimismo se rispetto a tutto questo grigio panorama diciamo di intravedere la possibilità concreta di un mondo migliore, basato sulla reale uguaglianza e liberazione della donna. L’inserimento delle donne nel mondo del lavoro rappresenta un fattore enormemente progressista, perché entrano a far parte del processo della produzione sociale e contemporaneamente si liberano dal confinamento tra le mura domestiche e dalla famiglia “tradizionale” (borghese).

Oggi nei paesi a capitalismo avanzato, ma non solo (basti pensare alle lotte imponenti delle donne in Argentina o in Polonia, per citare gli ultimi avvenimenti), le donne si rifiutano di far decidere per la propria vita ed il proprio corpo i bigotti sostenitori cattolici che vogliono relegarla nel ruolo di mamma, moglie e figlia devota agli obblighi familiari.

In un ampio arco temporale, tra il 1977 e il 2018, in Italia il tasso di occupazione femminile era aumentato di 16 punti percentuali (dal 33,5 al 49,5). Ed anche i dati Istat sull’istruzione (64,5% di donne con almeno un diploma, contro il 59,8% degli uomini, e il 22,4% con una laurea, contro il 16,8%) vanno nella direzione dell’emancipazione della donna, come parte fondamentale della classe lavoratrice. Difficilmente la si potrà ricacciare nel ruolo di angelo del focolare e sempre più si porrà in prima linea nella ricerca di un ruolo produttivo all’interno della società.

Forse la strada da percorrere sarà tortuosa e mai scontata, ma la lotta contro questo sistema marcio e retrogrado è iniziata ed è all’ordine del giorno. Dentro questa lotta la voce delle lavoratrici, delle donne sfruttate e umiliate avrà un ruolo di primissimo piano e decisivo per la vittoria di tutti gli oppressi!

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