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Domeniche lavorative ? No, grazie !

L’argomento è rimbalzato alle cronache nazionali dopo lo scontro Di Maio – Sala.

La proposta ventilata dal ministro Di Maio sulla chiusura delle domeniche ( o festivi, non è ben chiaro ) e l’intervento sull’argomento da parte del sindaco di Milano, Sala ( “Le faccia ad Avellino, non rompa le palle a Milano”- milano.corriere.it del 10 novembre 2018 ), hanno riacceso il dibattito sull’argomento.

Il sindaco di Milano, Sala, “paladino” della cosiddetta sinistra, milanese, ma di respiro nazionale, con le sue esternazioni ha dato il meglio di sé stesso. Ha spiegato chiaramente le sue posizioni filo borghesi. Per lui conta solo il “grano”, quello dei padroni. Dobbiamo sempre ricordarci che Sala è stato commissario unico dell’expo di Milano dove, con la complicità sindacale , sono stati fatti lavorare gratuitamente dei giovani lavoratori. Sala ha invaso anche il campo della destra e della lega in particolare con l’affermazione di carattere razzista contro i meridionali e nel caso specifico con gli avellinesi. Ovviamente neanche una parola in difesa dei lavoratori e delle loro condizioni di sfruttamento.

Il lavoro domenicale era regolamentato dal decreto Bersani; prevedeva la possibilità per gli esercizi commerciali di aprire ogni prima domenica del mese, tutte quelle di dicembre, tre (3) ultime domeniche del mese nel corso dell’ anno ed il 30% delle possibili aperture concesse dal comune di appartenenza. La domenica, se non a seguito di una concessione comunale, era vietato panificare.

Col decreto salva Italia del governo Monti del 2011, dal gennaio 2012 è stata data la possibilità ai commercianti, piccoli, medi e grandi ( anche se in realtà è stata la vittoria della grande distribuzione dopo lunghi anni di pressioni ) di aprire 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, 12 mesi l’anno. In pratica una totale liberalizzazione degli orari di apertura ( prima si potevano tenere aperti i negozi 13 ore al giorno ). Ovviamente è saltato anche il divieto alla panificazione domenicale.

Si tenga presente che numerose sentenze nel corso degli ultimi 3 anni hanno decretato che nelle giornate FESTIVE, siano esse laiche o religiose ( NON le domeniche ), nessuno, a prescindere dal contratto firmato, ha l’obbligo di lavorare. Vale per i dipendenti del commercio, ma vale anche per i lavoratori del turismo.

Diversa, invece, la gestione del lavoro domenicale. Questo è regolamentato dai contratti nazionali e dai contratti aziendali e comunque di secondo livello ( contratti integrativi ).

Contratti nazionali che fanno riferimento alla legislazione ante decreto Monti, per cui in realtà è abbastanza complicato destreggiarsi in quegli articoli per capire realmente quale comportamento tenere. Tant’è che in molte aziende, soprattutto della grande distribuzione, sono stati siglati dei contratti integrativi tra padroni e confederali di settore per la gestione del lavoro domenicale.

Non entriamo nel merito dei contratti perché se da un lato potremmo tediare, dall’altro dovremmo fare un lungo elenco di questioni sindacali da risultare un po’ troppo “tecnico” e comunque non perfettamente in linea con l’intento di questo articolo.

Si sappia comunque, che per i lavoratori sono tutti accordi a perdere !

Il decreto salva Italia non obbliga ad aprire la domenica ed i festivi, ma va da sé che i padroni non aspettavano altro. Hanno iniziato ad aprire tutti i giorni, festivi e domeniche. Qualcuno all’inizio solo mezza giornata, qualcun altro h 24 ( seppur nel tempo con qualche piccolo passo indietro su l’h 24 ).

L’idea di fondo che sottende questa impostazione è che aprendo di più si guadagna di più e si assumono più lavoratori. La realtà in modo implacabile ha dimostrato che gli incassi non sono aumentati, ma sono solamente spalmati su 7 giorni anzichè su 6. Tutti i lavoratori assunti dopo il decreto Monti, sono stati assunti con la domenica obbligatoria nel contratto, siano essi full time che part time ( ribadisco che anche per costoro non c’è obbligo di lavoro nelle giornate di festa ). Questo ha dato la possibilità alle aziende di avere una buona coperture domenicale con un minimo di spesa, considerato che il contratto nazionale prevede una misera maggiorazione del 30 %. Per i vecchi contratti full time sono intervenuti gli accordi aziendali a far si che abbiano l’obbligo del lavoro domenicale seppur in modo articolato. In questo caso, chi aveva delle maggiorazioni sul lavoro domenicale di maggior favore rispetto al contratto nazionale, pur restando migliorative, hanno visto ridursi drasticamente i miseri guadagni.

Per chi lavora nel settore del commercio queste aperture domenicali sono una iattura; obbligo al lavoro domenicale; aumento dei carichi di lavoro ( il personale non è aumentato, per cui tutti i full time che lavorano di domenica, fruiscono del riposo in settimana, quindi quasi mai il personale è al completo neanche nei giorni feriali ); riposi compensativi al lavoro domenicale spesso decisi dall’azienda o presi in base agli impegni familiari, quindi riduzione della vita sociale; nessun vero miglioramento salariale.

Questi alcuni aspetti di natura sindacale rispetto al lavoro domenicale.

La questione del lavoro domenicale, però, abbraccia anche altri aspetti, diciamo così, di natura culturale, come sottolineato dal sindaco di Milano.

In un Paese a capitalismo avanzato, in un Paese industrializzato ed ancor più in una città metropolitana come ad esempio Milano, si ritiene da preistoria, da medioevo, da arretrati, pensare ai negozi chiusi durante le domeniche e feste.

La tesi è che in una società “liquida” certe rigidità del passato vanno superate e nel contempo, in una situazione di grave crisi economica nazionale ed internazionale, chiudere le attività commerciali sia una grave danno all’economia del Paese.

Se posso comprendere le motivazioni di vari esponenti della borghesia italiana, come Sala o Salvini ( due facce della stessa medaglia ), pur non condividendole, facciamo molta più fatica a capire le tesi a favore delle aperture festive da chi non è esponente della borghesia ed ancor di più di chi si professa di sinistra.

Fatichiamo a capire perché, l’unico vero motivo per cui si vuole tenere sempre aperto , è il tentativo padronale di mantenere alti i profitti spremendo sempre più le maestranze. Contemporaneamente questo meccanismo obbliga i piccoli commercianti a fare i salti mortali per restare a galla , oppure come è accaduto a molti , a chiudere i battenti perché oppressi dalla crisi e strozzati dalla grande distribuzione.

Non c’è nel nostro ragionamento una difesa nel metodo del piccolo è bello, niente affatto. Semplicemente una considerazione, a nostro avviso, molto lucida di quali sono i meccanismi che spingono i padroni al sempre aperto. C’è crisi, non investo, ma asfalto i lavoratori tentando di riportarli ad un livello di quasi “schiavitù” utilizzando contratti ultra precari, nastri orari di lavoro fantasiosi e l’apertura 7 su 7.

Non capiamo come sia possibile, soprattutto a sinistra pensare che lo sviluppo, la crescita di un Paese, il livello di competizione passino attraverso il lavoro continuo. L’idea che il nostro tempo libero lo si debba passare nei templi dello shopping.

Ci verrebbe da chiedere come mai molti sono favorevoli alle aperture domenicali dei negozi, ma poi non facciano lo stesso “casino” per chiedere tutti gli uffici pubblici sempre aperti. Perché non si pretendano gli sportelli bancari sempre aperti; le poste, l’Inps e via dicendo.

Lungi da noi pensare una cosa del genere. Chiediamo provocatoriamente come mai non lo si pretend . Forse ci siamo davvero bevuti la storiella che questo è sviluppo ?

Probabilmente si dovrebbe fare lo sforzo di ripensare tutto a 360 gradi e magari tornare a farsi una semplice domanda: lavoro per vivere o vivo per lavorare ?

Ci si dovrebbe chiedere che società vogliamo. Se l’unica idea che abbiamo è quella dei consumi compulsivi. Tornare a ragionare come classe sociale, quella proletaria e chiederci continuamente cosa si cela dietro ogni attività lavorativa.

Domandarci come vorremmo la società del domani e provare a costruirla da oggi. Senza voli pindarici o fantasiosi, partendo da ciò che abbiamo, ma uscendo dagli stretti confini che il capitalismo ci delinea.

Una società evoluta non necessità di negozi sempre aperti; anzi. In un’ottica futura potremmo quasi pensare che i negozi non servano neanche. Potremmo costruire un servizio di commercio davvero avveniristico ed a misura d’uomo. Molto on line e molto con servizi a domicilio.

Potremmo fare molte cose, ma l’unico vero meccanismo è capire chi gestisce e come si gestisce il lavoro. Se si lavora per la collettività o per il profitto. Anche per quei lavori che necessitano di una presenza continua, pensiamo a chi lavora negli ospedali od ai pompieri, avere un numero tale di addetti da permettere loro di fruire del giusto riposo e recupero psicofisico e di una vita sociale degna di questo nome.

Finchè non eliminiamo il profitto tutte queste cose non si potranno fare.

Questo è il motivo principale che ci fa essere contrari al lavoro festivo/domenicale.

Saremmo contrari anche se fosse lautamente retribuito e se fosse seriamente volontario, ma almeno ci sarebbe un riconoscimento serio dello sforzo e del sacrificio di lavorare in certi giorni.

Purtroppo non c’è nemmeno questo. Anzi, ci si dice di non lamentarci, che noi un lavoro l’abbiamo.

Ecco, queste sono solo alcune considerazioni che ci sentiamo di mettere sul piatto nella discussione lavoro domenicale si, lavoro domenicale no. Naturalmente il confronto non si esaurisce qui ( vediamo se e cosa farà il governo giallo-verde in materia).

*delegato Filcams cgil  – Esselunga,  Sinistra Classe Rivoluzione Milano

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