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De Luca alla guerra del Coronavirus

Da quando è iniziata la pandemia, il presidente della Campania Vincenzo De Luca imperversa sugli schermi televisivi, dei computer e dei cellulari di mezza Italia. Protagonista di brevi sketch e di meme in cui viene sottolineata la sua foga pro-quarantena, potrebbe superficialmente essere considerato il capofila di una generazione di amministratori locali che hanno trovato nelle dirette facebook un modo per non far dimenticare al mondo della loro esistenza. In De Luca, però, non c’è solo mania di protagonismo, e la sua posizione politica gli consente di supportare la presenza nell’etere con provvedimenti di ben altro peso rispetto alle sbiadite delibere dei suoi imitatori comunali. A rendere inquietante la sua costante presenza sono i provvedimenti che le si accompagnano, che gli meriteranno probabilmente la medaglia d’oro nella poco lusinghiera gara tra governatori a chi adotta la legislazione più rigida in materia di reclusione dei propri concittadini.

De Luca, appena ha compreso la pressione esercitata dal virus sui servizi ospedalieri, è corso a chiudere ogni cosa e a lanciare proclami di fuoco a mezzo stampa per tentare di evitare di mettere il sistema sanitario in una condizione simile a quella delle regioni settentrionali. Ha tentato così di prendere due piccioni con una fava: da un lato evitare il diffondersi dell’epidemia, dall’altro avviare una campagna mediatica in vista delle regionali basata sulle sue indubbie qualità di sceriffo.

Il governatore campano ha infatti anticipato il governo nazionale nella chiusura di estetisti, barbieri, parchi pubblici, nella riduzione del trasporto locale e nel contrasto ad ogni forma di attività sportiva e ricreativa anche individuale, oltre ad avere chiesto, e ottenuto, per primo l’intervento dell’esercito per imporre il rispetto dei decreti che si venivano progressivamente aggiungendo gli uni agli altri. È andato oltre lo stesso Conte nell’impedire qualsiasi possibile apertura e ha denunciato ogni timida proposta di concedere alle persone qualche libertà in più come attentato alla salute pubblica, tutto questo accompagnato da paternalistiche parole di preoccupazione per i propri concittadini. Certo, la stessa foga non si è scatenata sulle aziende che operano nella regione, delle quali, sebbene aperte, mai si è detto nulla, né tantomeno si è chiesta la chiusura.

Guardando le dirette fiume – con le pause comiche meticolosamente calcolate, gli sguardi feroci verso la telecamera quando si critica questa o quella categorie di immaginari untori, sguardi che diventano però sornioni prima di lanciare una battuta – si ha l’impressione di essere in uno spettacolo eccessivo, e chi lo vede da lontano, se smette per un attimo i panni del telespettatore, si potrà interrogare sul perché un politico in quella posizione si senta costretto a tenere questi sproloqui con cadenza quasi giornaliera. Ma se si va un po’ più a fondo e si mettono insieme elementi, più presenti a chi vive in Campania che al resto del paese, la foga mediatica di De Luca trova subito una spiegazione: c’è una campagna elettorale da portare avanti e alcune verità da nascondere. Questi sono i moventi che lo spingono a sottoporsi ad una maratona televisiva e alla costante pubblicazione di decreti a correzione dei mai abbastanza rigidi provvedimenti del governo nazionale.

Cominciamo dalla campagna elettorale. In Campania si sarebbe dovuto votare a maggio e se tra i vari contendenti ce n’era uno che ai nastri di partenza sembrava in difficoltà era proprio il presidente uscente, la cui stessa ricandidatura era in dubbio. I continui attacchi ai 5 stelle e al sindaco di Napoli De Magistris, che hanno caratterizzato la sua retorica antipopulista, rendevano difficile la formazione di uno schieramento ampio attorno al PD, che è stato pertanto attraversato da numerose fibrillazioni da almeno due anni. La nascita del governo giallo-rosso e l’uscita di Renzi, al quale da tempo il governatore campano era legato, hanno ulteriormente rafforzato la fronda interna contraria a De Luca, che i sondaggi davano sempre molto lontano dal 41% delle scorse elezioni.

Il mancato gradimento elettorale non è, però, dovuto solo a questioni di tattica politica, ma dall’esperienza che i Campani hanno fatto della sua amministrazione. Nonostante roboanti proclami di volere invertire la tendenza rispetto alla precedente gestione Caldoro (Forza Italia) nessuno dei capitoli più importanti, come trasporti e lavoro, ha visto nulla di simile, anzi.

E così arriviamo alla seconda causa del presenzialismo di De Luca, ossia le bugie da nascondere sotto il tappeto. Come nel caso di molti altri politici, anche per lui la necessità di una quarantena rigidissima è stata più una folgorazione sulla via di Damasco che non una cosciente decisione presa sin dall’inizio. Nei primi giorni di marzo, infatti, aveva deciso di tenere tutto aperto, soprattutto un concorso per 650 dipendenti pubblici, le cui prime due sessioni si sono svolte nella prima settimana del mese riunendo 3000 persone da tutta Italia. Se ne attendevano altre 50.000 e solo l’esplodere della crisi ha costretto il governatore a cambiare strategia: tutto chiuso fino a data da destinarsi.

Il procedere del contagio rischiava di far venire fuori l’altra magagna, quella più grossa dei suoi 4 anni di governo, ossia la sua gestione della sanità regionale.

Il sistema sanitario campano navigava da tempo in brutte acque e già Caldoro era intervenuto con tagli, ma De Luca si è spinto molto oltre, applicando la classica cura che uccide il malato. L’obiettivo dichiarato era di uscire a tutti i costi dalla gestione commissariale, cosa che impediva una piena libertà di manovra nel settore che assorbe circa il 70% del budget regionale. Occorreva rientrare da un buco di oltre sette miliardi di euro, per cui il pareggio del bilancio è diventato un dogma inamovibile, facendo crescere la spesa sanitaria nella regione negli ultimi dieci anni dell’1,1% contro il 6% nazionale.

Per ottenere il pareggio De Luca ha perseguito una strategia molto semplice, consistente nel tagliare massicciamente sulle spese di personale e approfittare di tutte le conseguenze di questa scelta. Il calo del personale è stato del 19,7%, con una riduzione di spesa annua di circa 700 milioni di euro che l’hanno resa la grande regione più “morigerata” negli investimenti per gli stipendi del personale sanitario. Ciò ha implicato un piano ospedaliero fatto di enormi diminuzioni dei presidi territoriali. In altre parole, si è proceduto ad una significativa chiusura di ospedali e accorpamenti di reparti. L’intento è stato quello di concentrare le risorse, economiche e umane, in pochi ospedali in grado di garantire il raggiungimento dei livelli di prestazione minimi (livelli essenziali di assistenza-LEA) imposti dal ministero. Il risultato è stato ottenuto l’anno scorso, ma lasciando sguarniti i territori di presidi ospedalieri. Solo per fare qualche esempio, nel centro di Napoli, circa 400.000 abitanti, dei precedenti cinque reparti di pronto soccorso ne è sopravvissuto solo uno; in tutta l’Irpina, per lo stesso numero di abitanti, ma distribuiti su una superficie molto ampia, sono due, in una delle zone con il maggiore rischio sismico del paese; in tutta la regione un solo ospedale garantisce discreti livelli di assistenza per il trattamento del tumore ai polmoni, nonostante la Campania sia la regione più colpita da questa patologia, soprattutto nella tristemente famosa terra dei fuochi. E l’elenco potrebbe ancora continuare.

In definitiva, la Campania da dicembre è uscita dalla gestione commissariale, ma è rimasta priva di una rete sanitaria sul territorio in grado di garantire diagnosi e cure adeguate per i propri cittadini, quella struttura, cioè, di cui più c’è bisogno in casi di emergenza come la pandemia in corso. E ciò spiega perché il personale sanitario si sia trovato ad affrontare la crisi senza adeguato supporto, a cominciare dalla difficoltà di arrivare a diagnosi rapide e capillari e di intervenire in tempo. La Campania, disponendo all’inizio della crisi di un solo laboratorio dove processare i tamponi, è ad oggi la regione che ne ha effettuati di meno e con i tempi di attesa più lunghi, coprendo appena lo 0,4% della popolazione. Negli ospedali sono fioccate le denunce per l’assenza di dispositivi di protezione adeguati (in particolare le mascherine), che hanno esposto medici e infermieri al rischio di contagio proprio mentre era necessario proteggerli per evitare di lasciare ulteriormente sguarniti gli ospedali. In più di un caso, poi, gli interventi sono stati tardivi, anche quando la sintomatologia delle persone lasciava facilmente immaginare che si trattasse di persone infette da coronavirus. A questa fragilità del sistema ospedaliero si è aggiunta l’impreparazione dei medici di base, a cui era demandato il controllo del territorio, senza però adeguata formazione, tanto che il primo medico di famiglia a morire perché infettato dal covid è stato proprio un campano.

Al governatore sfugge che l’emergenza sta cambiando tutte le coordinate della società e della lotta di classe in Italia e nel mondo, mettendo in discussione proprio i paradigmi su cui ha costruito fino ad oggi la sua carriera di difensore dell’impresa e del controllo sociale. La prima resistenza ai diktat padronali è avvenuta alla FIAT di Pomigliano, dove si è tenuto il primo sciopero spontaneo contro l’obbligo di lavorare mentre dappertutto si chiedeva alle persone di stare a casa. Questa è solo un’avvisaglia di quanto può avvenire in futuro, e allora i suoi toni minacciosi non spaventeranno più nessuno.

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